Il vescovo Carlo ha presieduto le celebrazioni per la solennità di Tutti i Santi nel Duomo di Gorizia, martedì 1 novembre, e per la commemorazione dei defunti mercoledì 2 novembre. Nel pomeriggio di martedì 1 si è tenuta la Liturgia di commemorazione dei fedeli defunti presso il cimitero centrale di Gorizia che si è conclusa con la benedizione dei sepolcri.
“I santi … e le parolacce”
Duomo di Gorizia – 1 novembre 2016
Devo confessare che la festa di oggi – quella di Tutti i Santi – è una festa che mi piace. Posso, infatti, collocare in quella moltitudine immensa di cui parla la prima lettura tutti i santi e le sante che voglio e che mi affascinano per il loro aver messo in pratica il Vangelo.
Non che sia contrario ai santi e alle sante ufficiali: di diversi di essi e di esse sono anche un ammiratore devoto. Cito solo tra le ultime persone canonizzate, Madre Teresa di Calcutta. Ma a parte il fatto che tante volte faccio fatica a capire che grande rilevanza possano avere per il popolo di Dio certi santi e sante diventati tali soprattutto per aver fondato qualche congregazione di suore o di frati (cosa bella, ma difficilmente possono essere presentati modello per la santità della gente normale), ho l’impressione che a volte ci sia un certo impegno – certo involontario, ma non per questo meno dannoso – per allontanare i santi da noi, per renderli modelli irraggiungibili, per farci passare il messaggio implicito che la santità non è cosa che fa per noi, cristiani normali e peccatori. Già altre volte ho evidenziato il mio disagio verso quell’usanza di esporre sulla facciata di san Pietro, durante le canonizzazioni, un arazzo e non una bella foto, anche quando si tratta di un santo o di una santa contemporanei (e di cui esistono, appunto, foto molto significative e persino commoventi). Il rischio è di trasformare un santo in un “santino” dipinto, invece di far vedere che è un uomo o una donna in carne e ossa come noi.
Mi è poi stato raccontato di un santo la cui causa di beatificazione sarebbe stata bloccata dal fatto che dall’indagine sulla sua vita era emerso che… gli piaceva il gelato. Come si fa a fare santo uno a cui piace il gelato? La cosa si era risolta perché qualcuno, che rimaneva comunque convinto della santità del personaggio, aveva fatto notare che non è che gli piacesse il gelato, ma che lo mangiava con gli amici solo per condiscendenza, per non metterli in difficoltà e non certo per golosità.
Non so se la cosa sia vera, mentre invece è del tutto autentico quello che è successo a un santo argentino molto caro a papa Francesco, che lo ha canonizzato lo scorso 16 ottobre, un santo conosciuto come il “Cura Brochero”. Un prete che dal 1869 al 1914, anno della morte, è stato parroco di una parrocchia sulle Sierras Grandes in provincia di Cordoba, di “soli” 4.336 kmp (più della metà del nostro Friuli…), chilometri che ha girato in sella a una mula bianca chiamata “Malacara” aiutando tutti, ascoltando tutti, portando la gente a fare gli esercizi spirituali, costruendo chiese e strade e alla fine morendo di lebbra che aveva contratto per curare gli ammalati.
Ebbene «la sua causa [di beatificazione] – non lo dico io, ma cito da un articolo contenuto in uno degli ultimi numeri de “La Civiltà Cattolica” – è stata ferma per molto tempo per il problema delle sue cosiddette “parolacce”. Alcuni sostenevano che esse non si addicevano a un sacerdote, tanto meno a un santo» [fine della citazione: La Civiltà Cattolica 2016 IV 73]. Come dire che la santità consiste nel non dire le parolacce e non piuttosto nel dare la vita per la gente, annunciando il Vangelo su e giù per le montagne e morendo di lebbra per stare vicino agli ammalati. Un giornale di Cordoba nel 1887 scriveva di lui: «È un uomo di carne ed ossa, dice la Messa, confessa, aiuta a ben morire, battezza, consacra l’unione matrimoniale, etc. Eppure senza dubbio è un’eccezione: mette in pratica il Vangelo». Ecco la santità, altro che non dire le parolacce.
Dicevo però che la festa di oggi ci permette di sceglierci i nostri santi e le nostre sante, senza bisogno di passare da certi censori ufficiali addetti alle cause dei santi… (che hanno comunque un compito molto delicato e importante per la Chiesa). Vorrei invitare ciascuno di voi a trovarne qualcuno, qualcuno già in paradiso o qualcuno che ancora in vita, ma che è davvero santo (di solito l’interessato o l’interessata non lo sa e pensa, anzi, di essere un gran peccatore: un buon segno di santità, ma non glielo dite…).
Incomincio io parlandovi di qualche persona concreta, reale, vera che ho conosciuto e che sono certo che è santa. Persone che in qualche caso ho già citato in qualche omelia o meditazione: abbiate pazienza se mi ripeto, ma la santità merita di essere riproposta. Una prima persona che considero santa è una donna sordomuta, anziana, della mia prima parrocchia. Mi avevano chiamato a portarle l’olio santo e quando ero arrivato da lei – non so ancora adesso come – mi aveva detto con gli occhi che desiderava la Comunione. Ero corso subito indietro in parrocchia a prendere l’Eucaristia. Ho ancora in mente il suo volto sorridente, pieno di gioia.
Mi ricordo poi di un detenuto, che avevo conosciuto in carcere, che accettava nella sua cella chi era rifiutato da tutti gli altri detenuti, perché sporco, indisponente, volgare. La direzione del carcere lo sapeva e un po’ ne approfittava.
Oppure penso a una signora molto anziana, che non usciva di casa: ero andato a trovarla e gli avevo proposto di portarle la Comunione. Ma lei continuava a dirmi che non era degna e siccome io insistevo, dicendo che il Signore vuole bene a tutti e che è importante ricevere la Comunione, mi aveva alla fine confidato che da giovane era stata costretta a stare in una casa di malaffare e per questo non si era più sentita degna per tutto il resto della vita di ricevere il Signore. E per stare in argomento, sicuramente è santa quella signora, un po’ matta e che esercitava un certo “mestiere”, che, di nascosto dal parroco, un venerdì santo aveva riempito di profumo il crocifisso posto in mezzo alla chiesa.
Ma potrei citare anche un padre gesuita umilissimo e disponibilissimo che confessava mezza Milano e che morendo aveva chiesto di mettergli sulla bara solo un’orchidea. O un altro sacerdote malato di SLA che parlava solo con gli occhi, bloccato in tutto il resto del corpo, eppure sereno. O la signora Maria sempre disponibile a dare una mano a chi era in difficoltà a tutte le ore (mi ricordo che una notte mi avevano chiamato per una signora ammalata e sola e avevo subito telefonato chiedendo aiuto alla signora Maria: lei era arrivata prima dell’ambulanza). Aveva quattro figli: tre molto bravi e impegnati in parrocchia e nella società, uno ribelle e sbandato, ma era quello a cui voleva più bene. O alcuni genitori che hanno seguito per tutta la vita un figlio disabile, con tanta pazienza e dolcezza, ma anche persone con disagio o con gravi malattie che pure ti sorridevano sempre nonostante la loro condizione.
Potrei andare avanti a lungo nell’elencare i miei santi e le mie sante. Ma sono certo che ognuno di voi, qui presenti in chiesa, ha conosciuto qualche santa o qualche santo. Perché i santi esistono e sono davvero tanti. Qualcuno che forse diceva le parolacce, aveva avuto qualche momento di rabbia e di stizza, era passato da momenti di dubbio e di oscurità, magari aveva persino commesso qualche grave peccato, ma alla fine aveva cercato di vivere con sincerità il Vangelo delle beatitudini da figlio e figlia di Dio.
Qualcosa che possiamo e dobbiamo fare anche noi. Sì, perché la santità ci riguarda, è il nostro destino, che con la grazia di Dio possiamo raggiungere. Scopriremo allora che «saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è». E questo ci riempirà di grande gioia, quella gioia di cui la festa di oggi è solo un anticipo.
† Vescovo Carlo
“Seppellire i morti e pregare Dio per i vivi e per i morti”
Cimitero centrale di Gorizia – 1 novembre 2016
Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci ripropone le opere di misericordia che hanno caratterizzato questo giubileo della misericordia. In questo momento ci possiamo ricollegare a una delle opere di misericordia materiale che la Chiesa ci propone – “seppellire i morti” – e un’opera di misericordia spirituale: “pregare Dio per i vivi e per i morti”. Lo facciamo onorando i defunti in questo cimitero, pregando per loro, in particolare i nostri cari, sia per quelli che qui sono sepolti, sia per quelli sepolti altrove e il cui ricordo teniamo nel cuore.
E’ importante questo gesto, soprattutto oggi quando qui da noi e in diversi paesi europei si sta perdendo la vicinanza con i nostri defunti. Non c’è più spazio per i morti in cimitero, non si riesci a seppellirli (anche se si creano invece cimiteri per gli animali), e c’è una forte spinta per privatizzare il loro ricordo e la conservazione dei loro resti, tenendo in casa le ceneri o disperdendole nella natura. Contro queste prassi la Chiesa è intervenuta recentissimamente per ribadire il rispetto dovuto ai morti, la necessità di manifestare e mai contraddire la fede nella risurrezione, l’importanza di mantenere il legame – una vera ”comunione dei santi” – tra la comunità dei vivi e la comunità dei defunti (un legame che va al di là di quello della stretta parentela: soprattutto nei paesi, quando si va in cimitero a portare un fiore sulla tomba dei propri cari, è normale fermarsi a dire una preghiera anche davanti alla tomba di persone conosciute: non sarebbe possibile, se le loro ceneri sono conservate in casa).
Non dappertutto è così. Mi ha molto favorevolmente colpito questa estate in Polonia, dove mi sono recato con decine di nostri giovani per la Giornata Mondiale della Gioventù, vedere le tombe circondare come una corona le chiese parrocchiali. I morti non escono dalla comunità, non sono estranei alla Chiesa: semplicemente non sono più visibili ai nostri occhi, ma vivono in Cristo.
E sempre per sottolineare le cose positive – ogni tanto ci fa bene… – ho visto con piacere nella scorsa Quaresima, quando la pastorale giovanile diocesana ha proposto ai giovani dei nostri decanati di compiere un’opera di misericordia, che un decanato ha scelto proprio di portare i giovani e gli adolescenti in un cimitero a pulire le tombe abbandonate, a sistemarle dignitosamente, a ornarle con qualche fiore. Un gesto importante come quello, compiuto da altri giovani, di aiutare i frati alla mensa dei poveri o incontrare i giovani rifugiati dell’Oratorio San Luigi.
Non dobbiamo infatti dimenticare che le opere di misericordia, sia materiali sia spirituali, sono intimamente unite, sono la manifestazione di uno stesso amore. Quell’amore che ci caratterizza e ci deve caratterizzare come figli e figlie di Dio. Lo siamo per davvero, ci ha detto la prima lettura: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente». Figli e figlie di un Dio che è amore. Per questo ci realizziamo anche umanamente solo se amiamo. L’amore non è un’aggiunta al nostro essere, non è qualcosa che si fa in più perché siamo bravi. E’ invece la manifestazione di quello che siamo nel profondo di noi stessi. Lo capiremo bene solo alla fine, nell’aldilà, nel Regno di Dio. Qualcosa di cui i nostri cari, che ora sono presso il Signore, hanno avuto finalmente la rivelazione.
Noi preghiamo per loro, ma chiediamo anche la loro preghiera affinché ora, che sono dalla parte del Signore e sanno che cosa davvero conta nella vita, ci aiutino a vivere secondo il Vangelo. Cioè riconoscendo la presenza del Signore nell’altro e amando nella concretezza della nostra vita.
† Vescovo Carlo
Ricordare “cristianamente” i nostri morti
Duomo di Gorizia – 2 novembre 2016
La celebrazione di stasera ha lo scopo di farci ricordare i nostri morti e di pregare per loro. Vorrei soffermarmi sul ricordo. E proporrei una domanda: come ricordare “cristianamente” i nostri defunti?
Ci sono diversi modi per ricordare chi è morto. Per le persone pubbliche, conosciute da molti, che hanno avuto un rilievo nella storia del mondo, di una nazione o anche solo una fama locale, il ricordo – che siano uomini politici, scrittori, artisti, scienziati, eroi, ecc. – diventa spesso commemorazione: una celebrazione, una targa da scoprire, un monumento, un libro, un convegno di studi, un documentario alla televisione, qualche articolo commemorativo sui giornali.
Per le persone invece conosciute solo all’interno di una famiglia e di una più o meno ristretta cerchia di amici il ricordo è affidato alla memoria e all’affetto di chi ha vissuto con loro, un ricordo rafforzato da oggetti, da fotografie, luoghi frequentati insieme, ecc. Man mano che i componenti della cerchia familiare e amicale della persona defunta vengono meno, anche il ricordo progressivamente svanisce e fa la fine delle fotografie di un tempo, ingiallite e sgualcite dal trascorrere degli anni.
Sono modi di ricordare assolutamente legittimi, ma dal punto di vista cristiano non bastano. Sono necessari altri quattro elementi.
Il primo è la fede. Non una fede generica, ma una fede nella risurrezione. Una fede che già l’Antico Testamento evidenziava almeno con riferimento all’immortalità delle anime dei giusti. La prima lettura di stasera, tratta dal libro della Sapienza, esordisce proprio affermando: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun tormento li toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità». Ma dopo la risurrezione di Gesù, nasce la certezza che l’uomo è salvato nella sua totalità, anima e corpo, e che persino il creato anela ai cieli e terra nuova che il Signore alla fine donerà. L’ultimo scritto della Bibbia, il libro dell’Apocalisse, lo proclama con chiarezza parlando della città definitiva che il Signore sta preparando per l’umanità: la nuova Gerusalemme. Essa è così presentata (lo abbiamo ascoltato nella seconda lettura): «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». Il ricordo dei nostri morti allora deve essere vivificato dalla fede, la fede nella risurrezione, nella vita per sempre.
Ma con la fede deve esserci la speranza che si fa attesa: non solo la speranza di rincontrarci un giorno con loro, ma la speranza e l’attesa del compimento del Regno di Dio, della venuta definitiva di Cristo, quando finalmente Dio sarà tutto in tutti.
Fede, speranza, … un terzo elemento del ricordo dei nostri defunti che vorrei suggerirvi è un po’ particolare. Si tratta di pensare alla loro beatitudine, alla loro felicità presso il Signore – qualcosa di cui non abbiamo la certezza assoluta, ma una forte speranza basata sulla fede nella misericordia di Dio – ma partendo da una rilettura della loro vita alla luce del Vangelo delle beatitudini. La beatitudine del cielo, infatti, non può che essere in continuità con le beatitudini evangeliche vissute qui. Sarebbe allora interessante chiedersi, per esempio con riferimento ai propri genitori (se sono già in paradiso): come mio padre – ma la stessa cosa vale per la madre – è stato povero in spirito?, come ha avuto sete di giustizia nella sua vita?, come ha operato per la pace?, come è stato mite?, come e quando ha pianto ed è stato consolato? e così via. Dovremmo imparare a leggere la vita delle persone così, con criteri evangelici. Non per giudicarle – solo il Signore è giudice… -, ma per cogliere gli elementi di Vangelo presenti nella loro vita. Ci sono certamente, anche se magari quando vivevano con noi forse non vi abbiamo fatto caso. Ma sono stati ciò che di più prezioso ci hanno trasmesso.
Riconoscere i segni di Vangelo che hanno caratterizzato cristianamente la vita dei nostri cari, colora il loro ricordo di un quarto elemento: la riconoscenza. Una riconoscenza verso l’amore che ci hanno donato, un amore non semplicemente umano, ma cristiano caratterizzato dalla testimonianza di un Vangelo vissuto con semplicità e umiltà, ma con verità. Pregare per loro diventa allora un debito di ringraziamento, diventa manifestare verso di loro un amore pieno di gratitudine.
Ho elencato quattro elementi che rendono il ricordo dei nostri cari cristiano: la fede, la speranza, la considerazione della loro vita alla luce delle beatitudini, l’amore riconoscente. Ricordarli così ci porta però inevitabilmente a pensare a noi stessi. Noi che viviamo ancora l’avventura di questa vita. Noi che siamo chiamati a vivere tutto il tempo che il Signore vorrà con le stesse caratteristiche del loro ricordo.
Con la fede verso il Signore risorto anzitutto: una fede schietta, sincera, anche in ricerca, persino con inevitabili momenti di oscurità, ma autentica. Poi con la speranza che rende capaci di non lasciarci travolgere dalla negatività, dal pessimismo, dalla delusione. E’ vero, c’è la morte, la sofferenza, la malvagità, il peccato ma sono solo la penultima parola; l’ultima è la risurrezione, la gioia, l’amore, il perdono. Questa convinzione permette di andare avanti con fiducia nonostante tutto. Ancora: vivere con riferimento alle beatitudini del Vangelo, sapendo che lì e non altrove c’è la vera felicità, c’è la profonda realizzazione di noi stessi. Perché le beatitudini ci portano a vivere la vita per amore. Un amore che anzitutto abbiamo ricevuto e riceviamo dal Signore con molta gratitudine, anche attraverso l’amore che ci è stato dato dai nostri cari. Un amore poi che dobbiamo vivere nella concretezza feriale della nostra vita essendo fino in fondo quello che siamo: figli e figlie del Dio amore.
Fede, speranza, beatitudini, amore: un modo cristiano per ricordare i nostri morti, ma soprattutto un modo cristiano per vivere noi la vita che anche oggi il Signore ci dona.
† Vescovo Carlo