L’attività missionaria d’Aquileia e la sua autorità furono scosse dalle gravissime vicende politiche e dalla sempre più grave crisi, acuitasi sui confini nord-orientali dell’impero, all’inizio del secolo quinto. Le Alpi orientali vennero valicate dapprima dai goti di Alarico, il quale cinse d’assedio anche Aquileia, che probabilmente non cadde.
Ben più grave ed anzi catastrofica fu la situazione nel 452, quando Aquileia cedette all’avanzata degli Unni di Attila: attorno a quest’incursione la fantasia popolare ha collegato le sventure che si sono ripetutamente abbattute sulla regione aquileiese: il passaggio di Teodorico e i suoi scontri con Odoacre (489), l’occupazione bizantina attorno alla metà del secolo sesto, l’invasione longobarda (568) e quella franca (774), nonché le varie incursioni perniciosissime durante il regno longobardo e quelle degli ungari tra il nono e il decimo secolo.
La precarietà della situazione politica indusse ben presto i vescovi aquileiesi ad attrezzare convenientemente il castrum di Grado, ritenuto a ragione adatto ad offrire protezione e sicurezza agli aquileiesi: vi sorsero così una piccola cattedrale, dedicata ancora a Maria, e un piccolo battistero, e poi una cattedrale maggiore – la cosiddetta pre-eliana – e il relativo battistero, nella seconda metà del secolo quinto.
Grado divenne infine la «nuova Aquileia», quando la metropoli non poté più offrire sufficiente sicurezza alle autorità aquileiesi e anzitutto al vescovo che assommava in sé, si può dire, ormai ogni altra autorità civica.
Non venne meno perciò, ma anzi si accrebbe, l’orgogliosa coscienza d’appartenere a una chiesa gloriosa ed autorevole, come conferma la tenace resistenza dei vescovi aquileiesi contro le decisioni del concilio costantinopolitano del 553.
In questa resistenza si sommò anche una salda tradizione di fede che escludeva ogni ripensamento e che si concentrò nell’attaccamento alle deliberazioni del concilio di Calcedonia (451) la città di sant’Eufemia, che agli aquileiesi pareva rinnegato dal vescovo di Roma e dalla prepotenza di Giustiniano.
Sergio Tavano