Nella solennità di Tutti i Santi, mercoledì 1 novembre 2017, l’Arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia eucaristica nella chiesa di Sant’Ignazio.
I primi giorni di novembre sono caratterizzati da un clima di forti emozioni interiori. Lo è certamente il giorno di domani in cui ricordiamo nella preghiera i nostri morti. Ed è naturale che nel nostro cuore si intreccino sentimenti di nostalgia, di rimpianto, di tenerezza, di affetto, di dolore, forse di rimorso… Tutte emozioni che dicono la verità del nostro legame con coloro che ci hanno amato e abbiamo amato, un legame che la morte non ha interrotto e che la fede nel Cristo risorto custodisce e illumina.
Ma anche la giornata di oggi, la solennità di tutti i santi, deve essere contrassegnata da sentimenti significativi. Vorrei indicarvene quattro.
Un primo sentimento o, meglio, un primo atteggiamento interiore è il desiderio. Il desiderio di un compimento, il desiderio di una realizzazione, il desiderio della piena comunione con Gesù, il desiderio del paradiso, il desiderio del Regno di Dio. C’è questo desiderio nel nostro cuore? O lo abbiamo smarrito, forse sepolto sotto tanti altri desideri e aspirazioni che riempiono la nostra vita a volte per nostra scelta, più spesso perché realtà indotte da ciò che ci sta attorno e ci condiziona?
Il desiderio del paradiso. Significa pensare alla fine della nostra vita terrena non come a una disgrazia, a qualcosa di brutto e di cattivo, a qualcosa che non vorremmo succedesse, ma come a un compimento. Certo la morte ci spaventa, ci incute timore soprattutto se accompagnata da grandi sofferenze. È umano: anche Gesù ha provato tristezza e angoscia di fronte alla sua morte. Ma la morte non è l’ultima realtà, è solo la penultima ed è un passaggio doloroso, ma necessario verso la piena comunione con il Signore che è il senso e lo scopo della nostra vita.
Si può essere cristiani senza desiderare il paradiso? Lo dico soprattutto a chi è più anziano tra noi: al di là delle fatiche, dei fastidi e delle sofferenze della vecchiaia, esiste dentro il nostro cuore il desiderio ardente del paradiso? Il desiderio di essere per sempre con il Signore? Un desiderio che deve crescere nel tempo e non diminuire.
Quel compimento – dobbiamo confessarlo – lo vogliamo il più lontano possibile… Ciò è comprensibile, visto che esige il passaggio ineluttabile della morte, passaggio che contrasta con il forte istinto di sopravvivenza e con l’insopprimibile anelito di vita che il Creatore ha messo dentro di noi.
Ma è giusto? Se la morte fosse la fine di tutto, la cosa sarebbe più che giustificabile, ma non è la fine. L’importante è allora che il compimento della nostra vita si realizzi quando Dio vorrà, ma che si realizzi come comunione definitiva con Lui.
Il desiderio diventa allora speranza. La speranza è molto più di un’emozione, è un atteggiamento interiore, è una virtù che caratterizza la vita cristiana e la sostiene. Noi, come cristiani, speriamo che ci venga donato il compimento, il senso di una vita da figli di Dio.
Permettetemi di rileggervi quasi per intero il breve brano della seconda lettura. Lì viene detto tutto circa la speranza fondata non su un sogno, ma su un fatto, quello di essere già ora figli di Dio. Per questo possiamo attendere con fiducia il pieno svelamento di quello che saremo: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! […] Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è». Siamo già ora figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza, ma quando lo vedremo faccia a faccia e ci rispecchieremo in Lui, scopriremo finalmente la nostra vera realtà.
Vorrei ora indicarvi altri due sentimenti che devono contrassegnare la festa di oggi. Due atteggiamenti che sembrano negativi: l’invidia e l’orgoglio.
Ma, preciso subito, mi riferisco anzitutto alla “santa” invidia. Un sentimento tutt’altro che sbagliato. Si tratta dell’invidia verso i santi, verso quella «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» di cui ci ha parlato la prima lettura, persone che hanno vissuto il Vangelo delle beatitudini – spesso senza saperlo – e per questo sono santi. Una santa invidia che dovrebbe spingerci a diventare come loro, a non stare a contemplarli dal di fuori quasi come spettatori della vita cristiana e non invece come umili ma autentici protagonisti di essa. Le beatitudini sono proclamate da Gesù per essere vissute da noi, non sono un lontano e irraggiungibile ideale. Il Vangelo non è un sogno, è realtà. Con la grazia di Dio – ribadisco, con la sua grazia, umilmente implorata e accolta con tutto il cuore – è possibile che noi, poveri uomini e povere donne, diventiamo in grado di vivere il Vangelo. E di viverlo con gioia, testimoniandolo anche agli altri.
L’ultimo sentimento è l’orgoglio. Anche questo santo. Ed è l’orgoglio di essere cristiani, di avere questo dono – immeritato, certo – ma che ci è stato dato. Un orgoglio che io stesso provo ogni volta che celebro la cresima, quando al termine del rinnovo delle promesse battesimali da parte dei ragazzi, la Chiesa mi fa dire: «Questa è la nostra fede. Questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo di professarla in Cristo Gesù nostro Signore». Sì, dobbiamo essere orgogliosi della nostra fede, dobbiamo gloriarci del tesoro prezioso che ci è stato dato e che dobbiamo vivere con una santità di vita, nel desiderio del compimento.
È ciò che chiediamo all’intercessione della moltitudine di santi e di sante che oggi ricordiamo, anche con una santa invidia.
vescovo Carlo