Chiamati a vivere un vero impegno per la pace
Omelia nella Virgo Fidelis 2025
21-11-2025

Venerdì 21 novembre 2025 l’arcivescovo Carlo ha presieduto nella chiesa di S. Ignazio a Gorizia la celebrazione della Virgo Fidelis, patrona dell’Arma dei Carabinieri.

Sono rientrato ieri da Assisi, dove ho partecipato all’assemblea annuale dei vescovi italiani. Papa Leone ieri mattina ci ha incontrato nella basilica di Santa Maria degli Angeli. In quell’occasione è intervenuto ancora una volta sul tema della pace, un tema che ci sta tutti a cuore, vista la situazione mondiale di aperta conflittualità in tante parti del mondo: non solo in Terrasanta, Ucraina, Sudan, ma anche in tanti paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina. Riprendo quanto ha detto papa Leone: «Tenere lo sguardo sul Volto di Gesù ci rende capaci di guardare i volti dei fratelli. È il suo amore che ci spinge verso di loro (cfr 2Cor 5,14). E la fede in Lui, nostra pace (cfr Ef 2,14), ci chiede di offrire a tutti il dono della sua pace. Viviamo un tempo segnato da fratture, nei contesti nazionali e internazionali: si diffondono spesso messaggi e linguaggi intonati a ostilità e violenza; la corsa all’efficienza lascia indietro i più fragili; l’onnipotenza tecnologica comprime la libertà; la solitudine consuma la speranza, mentre numerose incertezze pesano come incognite sul nostro futuro».

Fatta la descrizione della situazione, il papa ha dato alcune indicazioni molto concrete: «Eppure, la Parola e lo Spirito ci esortano ancora ad essere artigiani di amicizia, di fraternità, di relazioni autentiche nelle nostre comunità, dove, senza reticenze e timori, dobbiamo ascoltare e armonizzare le tensioni, sviluppando una cultura dell’incontro e diventando, così, profezia di pace per il mondo».

A fronte di queste parole del Santo Padre, all’interno di questa celebrazione della Virgo fidelis, può nascere la domanda: che cosa possono fare i carabinieri e in genere le forze militari in questo contesto mondiale così difficile e farlo ovviamente non per incrementare la guerra, ma, in riferimento ai valori della nostra società democratica, per attuare il principio così ben espresso nella costituzione nell’art. 11? Un articolo che conosciamo tutti molto bene: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Proprio ad Assisi, all’interno dei lavori dell’assemblea dei vescovi italiani, abbiamo approvato un documento sull’educazione alla pace, che presenta una specifica attenzione alle donne e agli uomini che prestano servizio nelle forze armate, è può quindi offrire almeno un inizio di risposta alla nostra domanda.

Anche da parte mia, quando abbiamo discusso questo documento nel gruppo ristretto dei vescovi del Consiglio permanente tenutosi qui a Gorizia a settembre, ho sottolineato la positività di questa attenzione e non solo a tutte le benemerite realtà che lavorano a favore della pace anche con gesti “profetici” (aggiungo che nei giorni scorsi diversi vescovi che sono stati qui a settembre mi hanno ribadito quanto Gorizia con Nova Gorica li abbia colpiti per la sua storia travagliata e anche per il suo cammino di riconciliazione di qua e di là del confine).

Vi leggo, pertanto, alcuni passaggi del documento tratti dal paragrafo intitolato: “La testimonianza ecclesiale di pace entro le forze armate”: «C’è però anche una forma di difesa della patria che si compie nelle forze armate ed essa non può lasciare indifferente la Chiesa: anche qui occorrono forme di assistenza spirituale che esprimano un’attiva sensibilità di pace». Il testo poi si sofferma nel vedere se sia possibile una forma più incisiva della presenza dei cappellani nelle forze armate rispetto all’attuale situazione, ma poi ricorda: «Negli ultimi decenni le forze armate italiane sono state sempre più impegnate in missioni all’estero sotto l’egida delle Nazioni Unite, non solo come forze di interposizione ma talvolta anche come parte integrante di itinerari di autentica pacificazione, portando stabilità politica, superamento dei conflitti, costruzione di processi di sviluppo. Si può ricordare, ad esempio, l’azione svolta nella pacificazione del Mozambico, con la missione Albatros, o quella a Timor Est nel delicato processo di indipendenza dall’Indonesia [ma noi possiamo ricordare anche molte altre operazioni di peace keeping che hanno interessato le realtà militari presenti qui a Gorizia]. In simili cornici politiche, le forze armate sono uno strumento con cui l’Italia si è assunta la responsabilità di fare la pace. Occorre dunque che questo impegno sia sostenuto da una spiritualità della pace all’altezza del compito a cui i militari sono chiamati».

Mi sembra molto importante una riflessione sul ruolo delle forze armate e, in generale, delle forze di polizia in una società democratica che vuole garantire la tutela della libertà, della giustizia, della difesa dei diritti soprattutto dei deboli, e in particolare della pace all’interno di una nazione e nel mondo. Proprio la presenza dei militari a Gorizia mi ha interpellato, in questo contesto così segnato da due guerre e conflitti ma anche da cammini di pace e riconciliazione, soprattutto in occasione dell’essere in quest’anno 2025 Gorizia con Nova Gorica capitale europea della cultura, e per questo ho voluto affrontare questi temi anche in una breve pubblicazione che presenterò nei prossimi giorni. Sento doveroso come vescovo di questa città avere una particolare attenzione a chi vive il difficile impegno nell’ambito delle forze militari e di polizia. Un’attenzione che non considera contradditoria o, comunque, poco compatibile con il compito di presidente di Caritas italiana, che da sempre ha sostenuto un impegno per la pace.

Come vivere un vero impegno per la pace? Mi pare che il Vangelo ci inviti ad avere lo stesso atteggiamento di Maria che la fa la volontà di Dio, assumendo i suoi sentimenti: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre». L’atteggiamento di Maria è espresso molto bene dal salmo responsoriale che è in realtà il Magnificat.

Non è una preghiera facile e generica, ma dà delle indicazioni molto precise perché dice che cosa Dio pensa della storia e dell’umanità, modo di pensare che Maria fa proprio: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote».

Non si tratta di una condanna delle persone, ma del modo di pensare sbagliato, quello dei “superbi”. Sembra che il mondo smentisca questa visione. Pare, infatti, che i superbi, i potenti, i ricchi vincano: ma ne siamo sicuri? In penultima battuta certamente sì, ma nell’ultima? Papa Francesco raccontava: “La mia nonna ci diceva: “bambini, il sudario non ha tasche”», ossia quando si muore tutto il potere, soldi compresi svanisce. Resta solo l’amore, che dobbiamo manifestare nella logica di Dio, e sull’esempio di Maria.

Come in concreto? Facendo bene il proprio compito, svolgendo con impegno la propria professione nel rispetto dei valori del Vangelo. Nella lettera pastorale di quest’anno ho voluto riprendere l’insegnamento di un grande vescovo, san Francesco di Sales, vissuto tra la fine del 1500 e l’inizio 1600. Parlando di “devozione”, da intendere come modo autentico di vivere il Vangelo, in un contesto sociale ma anche ecclesiale dove c’era l’idea che questo riguardasse soltanto i preti e i religiosi e non ogni cristiano, quel santo scriveva: «La devozione deve essere vissuta in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dalla nubile, dalla sposa; ma non basta, l’esercizio della devozione deve essere proporzionato alle forze, alle occupazioni e ai doveri dei singoli. Ti sembrerebbe cosa fatta bene che un Vescovo pretendesse di vivere in solitudine come un Certosino? E che diresti di gente sposata che non volesse mettere da parte qualche soldo più dei Cappuccini? Di un artigiano che passasse le sue giornate in chiesa come un Religioso? E di un Religioso sempre alla rincorsa di servizi da rendere al prossimo, in gara con il Vescovo? Non ti pare che una tal sorta di devozione sarebbe ridicola, squilibrata e insopportabile?».

E aggiungeva, proprio citando i militari: «Pretendere di eliminare la vita devota dalla caserma del soldato, dalla bottega dell’artigiano, dalla corte del principe, dall’intimità degli sposi è un errore, anzi un’eresia. […] Poco importa dove ci troviamo: ovunque possiamo e dobbiamo aspirare alla devozione».

Amare servendo il Signore e gli altri nella propria professione, in particolare servendo la pace, la giustizia, la libertà, l’ordine, la sicurezza delle persone e della società. Un compito impegnativo, ma è il vostro come cristiani. Vi auguro di poterlo realizzare anche con l’aiuto della vostra patrona, la Virgo fidelis.

+ vescovo Carlo