Fermarsi. Ascoltare. Fare silenzio. Pregare

Fermarsi. Ascoltare. Fare silenzio. Pregare. Questi verbi potrebbero sembrare anacronistici, fuori sincrono rispetto alla prassi pastorale che dovrebbe intercettare il mondo giovanile. Eppure sono proprio i verbi che stanno al centro del messaggio che papa Francesco ha scritto per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni.
In un mondo che “ci spinge a fare scelte affrettate, a riempire le giornate di rumore, impedendoci di sperimentare un silenzio aperto a Dio, che parla al cuore”, il papa invita i giovani a “fermarsi, ascoltare dentro se stessi e chiedere a Dio cosa sogna per loro”. Il silenzio della preghiera, secondo Francesco, è necessario per “leggere” la chiamata di Dio nella propria storia e rispondere liberamente. Ma i giovani sono ancora in grado di ascoltare una chiamata così? E nei nostri ambienti ecclesiali, risuona ancora questa chiamata? Nel recente studio di Paola Bignardi e Rita Bichi, “Cerco, dunque credo?” (Vita e Pensiero, 2024), emerge il ricordo spesso infelice che molti giovani conservano del loro percorso ecclesiale. Incapaci di generare relazioni autentiche, gli adulti delle parrocchie sembrano essere interessati di più a ciò che i ragazzi possono fare di utile, e non a chi sono davvero. Nel catechismo si imparano le preghiere, ma non a pregare. In molti casi l’allontanamento dalla Chiesa è avvenuto “in maniera quasi impercettibile, per perdita di interesse, per mancanza di ragioni per restare” (p. 50). Eppure, questa uscita non coincide quasi mai con l’ateismo. Essa è semmai espressione del bisogno di una spiritualità più profonda, che “aiuta a metterci in rapporto con gli altri e con la natura per cogliere il divino presente in tutti e in tutto” (p. 89). “Quelli che hanno abbandonato non se ne sono del tutto andati. Quelli che sono rimasti non sono davvero del tutto a casa” (p. 101).
Crediamo che la vocazione vada ripensata a partire da questo desiderio inquieto, da questa sete di autenticità, da questo bisogno di spiritualità. Non si tratta di “fare qualcosa” in parrocchia, ma di “essere qualcuno” nella verità di sé, ovunque ci si trovi. E le nostre proposte parrocchiali intercettano questa domanda di profondità? O rischiano di diventare associazioni caritative, servizi di baby-parking e doposcuola improvvisati?
Se, come diceva il cardinal Martini, la vocazione è innanzitutto un “rispondere” a Qualcuno, l’importante è che si prenda sul serio la parola di Dio e permettere al Signore di interrogarci attraverso di essa. E poi rispondere. Ma attualmente qual è il posto riservato alla Scrittura nelle nostre prassi pastorali? La Bibbia è davvero “il libro ritrovato” oppure è il libro immancabilmente assente nelle sagrestie, un pesante fermacarte nei nostri uffici?
Il nostro attuale e futuro impegno pastorale non può coincidere con un continuo arrabattarsi a fare sempre qualcosa di nuovo, magari prestando il fianco a malsane ansie di prestazione che si preoccupano di quale impressione potrà suscitare questa o quella iniziativa. Il “nuovo” per antonomasia è Cristo, e forse il vero problema è che Lui non è il centro delle nostre proposte.
Non crediamo che la Ecclesia semper reformanda si possa rinnovare con strategie e party all’ultimo grido, ma riscoprendo che essa è la “ekklesìa”, la comunità dei chiamati dal Signore. E questi chiamati non sono solo i preti, i vescovi, i religiosi: siamo tutti noi.
Forse oggi serve fare una scelta fuori moda e controcorrente: rileggere il paradigma bergogliano di una “Chiesa in uscita” come una Chiesa composta anche da outsiders, persone che “stanno fuori” (e forse “sono fuori”) dalle logiche del mondo. Persone che hanno il coraggio di fermarsi, di fare silenzio, di ascoltare e di pregare. Persone che riescono ad armonizzare degli spazi di silenzio e preghiera, alle casse a tutto volume dei centri estivi; la discesa nella propria interiorità, allo showing sfacciato dei social. In tempi scanditi dal fuoco e dal terremoto, forse adesso è bene che ci mettiamo in ascolto, come Elia, del “sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12).

don Matteo Marega e don Manuel Millo, incaricati diocesani per la Pastorale vocazionale

In foto: i seminaristi con i vescovi di Gorizia, Trieste e Udine (Foto Ivan Bianchi)

condividi su

6 Maggio 2025