Comunicazione e linguaggio religioso

Pubblichiamo l’intervento del vescovo Carlo al seminario di sociologia “Le relazioni pubbliche a cavallo tra culture diverse” organizzato dal Dipartimento di lingue e letterature, comunicazione, formazione e società – Università di Udine – Centro Polifunzionale di Goriziagiovedì 18 ottobre.

 

“In origine c’era la comunicazione
la comunicazione era presso Dio
e Dio era la comunicazione”.

 

Queste parole sono l’inizio del Vangelo di Giovanni, uno dei quattro Vangeli, nella traduzione offerta da un biblista goriziano, don Santi Grasso, in una ponderosa pubblicazione di ben 982 pagine (una comunicazione impegnativa…). Si tratta della traduzione del brano che in greco inizia così: “En arché en o logos” e nella traduzione ufficiale – quella che si legge in chiesa il giorno di Natale – viene reso in questo modo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Una traduzione rinunciataria, perché non fa che ricalcare il latino “verbum” corrispondente al “logos” greco, senza trovare un termine soddisfacente in italiano: nel linguaggio corrente “verbo” indica un elemento della grammatica e non è usato di solito per indicare “parola”.

In ogni caso – al di là delle questioni di traduzione – trovo molto suggestiva e in fondo esatta l’espressione “Dio era (e quindi è) la comunicazione”, mentre trovo pericolosa e assolutamente pretenziosa questa uguaglianza tra Dio e la comunicazione se letta dall’altro verso: “la comunicazione è Dio”.

Che Dio sia la comunicazione dice molto circa il linguaggio religioso. Anzitutto ci ricorda che almeno per le cosiddette religioni rivelate, quale il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam, il contenuto della religione è appunto una rivelazione, una comunicazione di Dio. Ciò vuol dire che la sostanza centrale della religione è in ultima analisi indisponibile per chi aderisce a una religione: gli viene appunto rivelata, gli viene comunicata. Ma questo significa – e si tratta di un secondo elemento che vorrei sottolineare – che la religione non può esistere senza la comunicazione e una comunicazione efficace che raggiunga l’interlocutore, che usi quindi il suo linguaggio e, più in generale, la sua capacità di comprendere, intuire, percepire. Il messaggio religioso, quindi, si deve incarnare nella cultura di chi è destinato a recepirlo. Si capisce pertanto la suggestione offerta dalla traduzione del nostro biblista quando traduce l’espressione “il Verbo si fece carne” con “la comunicazione è divenuta carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi”.

Notate, però, questa espressione: “porre la tenda in mezzo a noi”. Si tratta di un’affermazione molto chiara per una civiltà di pastori nomadi: se uno mette la tenda nel tuo accampamento significa che è diventato uno del tuo clan. Ma oggi che cosa significa questo modo di dire? Se qualcuno arrivasse a Gorizia e piantasse una tenda in piazza Vittoria – a parte il fatto che lo farebbero subito sgomberare… – non verrebbe visto certamente come uno di noi (anche se è italiano e magari friulano doc), ma come un personaggio per lo meno un po’ strano. Si comprende perciò che una traduzione del Vangelo in lingua corrente abbia reso la stessa frase in questo modo: «Colui che è “la Parola” [termine tra virgolette e maiuscolo] è diventato un uomo e ha vissuto in mezzo a noi uomini». Espressione più comprensibile per noi. Che non riesce però a rendere tutta la forza dell’immagine originaria (la tenda in un accampamento di nomadi) e diventa un’espressione astratta che non tocca gli aspetti emozionali della persona.

Sarebbe forse meglio tradurre: «Colui che proviene da Dio stasera sta seduto con noi a un tavolo da “Gianni” e sta mangiando con noi un’enorme lubianska». Spero di non essere blasfemo – e mi farò pagare per la pubblicità non troppo occulta al noto locale goriziano…–, ma in fondo la mia traduzione rende qualcosa che dovevano provare dei pastori nomadi sentendo che Dio aveva messo la sua tenda a fianco delle loro e che stava mangiando con loro un cosciotto di agnello arrostito, seduto attorno al fuoco sotto un cielo trapuntato di stelle che solo nel deserto hanno una lucentezza incredibile.

La religione quindi si basa su un messaggio che va comunicato e ciò in modo comprensibile per chi lo ascolta e lo può accogliere, una modalità quindi che tocca tutto ciò che costituisce la persona e non solo la sfera intellettuale. Non per niente il linguaggio religioso si è espresso, a cominciare dalla stessa Bibbia (per limitarci alla religione cristiana), utilizzando al meglio tutti i generi letterari: racconto, metafora, poesia, esortazione, proverbio, ecc. Ma si è sviluppato anche attraverso ogni forma di arte: pittorica, architettonica, musicale, ecc. come pure per mezzo di ritualità cariche di simboli evocativi. Lo sa bene papa Francesco che più volte – lo ha fatto anche l’altro giorno parlando a dei giovani che si stanno preparando a diventare preti – ha dato questi suggerimenti per l’omelia o la predica della domenica: «“Un’idea, un’immagine, un sentimento”. E questo si può fare in cinque minuti. Pensate che psicologicamente la gente non può mantenere l’attenzione per più di otto minuti. Una omelia di otto minuti, e ben preparata: con un’idea chiara, un sentimento chiaro e un’immagine chiara» (Udienza ai seminaristi della Lombardia, 16 ottobre 2018).

Sto parlando forse da più di otto minuti e questo mi preoccupa, ma confido nella vostra paziente capacità di attenzione…. Però è interessante quanto afferma il papa: un’idea, quindi qualcosa che raggiunga l’intelligenza della persona; un’immagine, cioè qualcosa che attivi la fantasia dell’ascoltatore; un sentimento, che tocchi la sfera emotiva ma anche motivazionale.

Un grande comunicatore in ambito religioso già con l’uso accorto di parole e il conio di nuove espressioni è certamente papa Francesco. Quando per esempio invita i giovani a non essere “giovani-divano”, che se ne stanno sdraiati lasciando che altri decidano della loro vita, o dice alle persone di non “balconear”, di non stare cioè al balcone mentre la vita passa al di sotto, o richiama i preti e i vescovi a tener conto che la Chiesa è un “ospedale da campo”, che deve preoccuparsi di curare le ferite gravi, le pesanti sofferenze e le malattie morali della gente e non perdersi a curare qualcosa di analogo al colesterolo alto o al sovrappeso, …

Un maestro di papa Francesco in questo stile è certamente lo stesso Gesù, che usa spesso nel suo parlare il mezzo della parabola. Le parabole – forse qualcuno ricorda quella del buon samaritano, del figliol prodigo, del buon pastore o del seminatore… – non sono dei raccontini edificanti o delle favolette con delle morali finali. Si tratta, invece, di immagini che tentano di coinvolgere l’ascoltatore, anche attirando la sua attenzione su particolari che in un primo momento possono anche sfuggire, ma poi fanno nascere delle domande. Per esempio, quando Gesù si paragona a un buon pastore che difende le pecore dal lupo tutto sembra funzionare, ma nel momento in cui afferma che quel pastore dà la vita per le pecore ci si accorge che un pastore così non esiste: va bene difendere le pecore, ma è ovvio che è meglio perdere le pecore (che nel caso si possono riacquistare) piuttosto che la vita… Eppure quel pastore un po’ strano che è Gesù, fa proprio così, dona la vita: come mai? Diventa la domanda che resta nel cuore dell’ascoltatore. O quando racconta di quel servo al quale il sovrano (evidente immagine di Dio) condona una debito enorme (10.000 talenti circa 11 miliardi di euro), ma che non è poi capace di condonare a un suo collega un piccolo debito (100 denari: circa 3.000 euro), Gesù offre con chiarezza la risposta alla domanda sul perdono da dare o negare agli altri, facendo capire che a tutti noi viene perdonato molto di più di quanto possiamo perdonare agli altri.

Dopo aver richiamato l’essenzialità per la religione della comunicazione e della necessità che essa sia comprensibile e raggiunga il destinatario in tutto ciò che costituisce la sua personalità, vorrei accennare brevemente ad alcune questioni che interessano il tema comunicazione e religione.

La prima: tra le diverse religioni ci può essere comunicazione o dialogo? Forse la mia risposta vi sorprenderà, ma occorre anzitutto negare questa possibilità. Mi spiego: ogni religione pensa di essere la risposta vera alla domanda di senso che ogni donna e ogni uomo ha dentro di sé. Se è così, e non può non essere che così, significa allora che, almeno per principio, nessuna religione può riconoscere alle altre religioni di essere altrettanto vere. Aggiungo subito che ciò non impedisce ovviamente la possibilità di conoscersi meglio tra religioni (senza quindi pregiudizi, a volte molto grossolani: i musulmani sono tutti terroristi, i cristiani sono tutti blasfemi,… e senza precomprensioni esclusiviste), come pure di evidenziare qualche elemento comune e l’impegno, almeno in parte  condiviso, per i diritti umani, per i valori della pace, della giustizia, dell’ambiente, della cultura, ecc., impegno che apre la possibilità a qualche collaborazione.

Una seconda questione è la possibilità di comunicare tra religione e scienza. Non entro qui ovviamente neppure per allusione al famoso caso Galileo, ma mi limito a sottolineare come molte questioni possono chiarirsi qualora si riconosca che la religione e la scienza rispondono a domande diverse (per esempio, la scienza si chiede “come” esiste il mondo, la religione “perché” esiste il mondo) e che usano linguaggi diversi (sperimentale–matematico quello scientifico; evocativo-argomentativo quello religioso). ma entrambi legittimi (e  volte non così distanti, soprattutto se la religione si relaziona non con le scienze di carattere tecnico, ma con quelle cosiddette umane).

Una terza problematica riguarda la possibilità di utilizzare per il linguaggio religioso le tecniche elaborate in altri ambiti, magari riferite all’oggetto specifico dei vostri studi. Penso che occorra distinguere. È chiaro, per esempio, che se devo fare una campagna di promozione della scelta dell’otto per mille a favore della Chiesa cattolica è necessario utilizzare le tecniche del marketing e lo stesso vale per promuovere una raccolta fondi a favore della caritas. Così pure se devo predicare o tenere una catechesi ai ragazzi, può essere molto utile l’uso di qualche accorgimento espressivo, la capacità di usare intelligentemente qualche strumentazione (a cominciare da un buon impianto audio), l’accortezza di avvalersi di modalità nuovo offerte per esempio dai social (papa Francesco ha 48 milioni di follower su twitter e 5 milioni e 700 mila su instagram: quest’oggi il suo tweet è: “La strada del discepolo è la povertà: il discepolo è povero, perché la sua ricchezza è Gesù”). Ma non andrei molto al di là. Come è noto da tempo, anche a chi non è uno studioso o un operatore della comunicazione, il mezzo e già il messaggio o lo è almeno in parte: un mezzo non adeguato o anche solo non in sintonia con il contenuto che si vuole veicolare (e quello religioso è un contenuto che ha qualche delicatezza) può risultare controproducente.

Una questione da affrontare, che ha sicuramente profili problematici, va nella direzione opposta a quella appena presentata: si tratta non di usare linguaggi non religiosi per contenuti religiosi, ma di vedere se è possibile adoperare il linguaggio religioso in ambiti non religiosi. Occorre anzitutto osservare che tuttora, anche se in misura minore del passato quando cioè la società italiana era in un modo più o meno rilevante connotata dalla religione cattolica, si usano spontaneamente nel linguaggio corrente, in quello dei media e anche in contesti più specialistici, espressioni di natura religiosa. Si parla così, ad esempio, di “esodo biblico” per indicare lo spostamento di un grande numero di persone, di “padreterno” per qualificare uno che si crede chissà chi, di “giuda” per connotare un amico che ha tradito la fiducia, eccetera. E’ poi curioso che il linguaggio dei computer da tempo abbia adottato una terminologia quasi religiosa: “salvare” o “convertire” un file, “giustificare” un testo.

Risulta più discutibile, invece, usare termini, espressioni o immagini di carattere religioso in contesti pubblicitari e spiccatamente commerciali. Il rischio di urtare o persino offendere la sensibilità religiosa delle persone è molto forte, soprattutto se si va al di là delle allusioni simpatiche e guidate da un filo di saggia ironia (per esempio agli angeli, al paradiso, ai diavoli, ai santi, ecc.), arrivando invece a usare esplicite immagini religiose (di Gesù, della Madonna, di qualche santo, ecc.) in contesti che nulla hanno a che vedere con la religione. E peggio ancora se in un contesto di mistificazione o di derisione. C’è da domandarsi se, al di là dell’effetto volutamente scioccante, il ritorno in termini di apprezzamento del prodotto così pubblicizzato sia poi realmente conveniente o se non si ottenga un risultato contrario a quello cercato.

Vorrei concludere il mio intervento dandovi conto dell’esito di una mia curiosità. Mi sono domandato: la Chiesa si è mai interessata della vostra materia, delle relazioni pubbliche? La risposta è positiva e riguarda alcuni documenti emessi dall’organismo competente della Santa Sede, che una volta si chiamava il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, poi per breve tempo Segreteria  per la Comunicazione e ora Dicastero per la Comunicazione.

In un testo del 22 febbraio 1997, dedicato all’etica della pubblicità, c’è persino una definizione di relazioni pubbliche, ditemi voi quanto esatta: «lo sforzo sistematico di creare nel pubblico un’impressione favorevole o una “immagine” di certe persone, gruppi o enti». Un documento sull’etica nelle comunicazioni sociali del 4 giugno 2000, evidenzia il pericolo della manipolazione dell’opinione pubblica con tecniche derivanti dalle pubbliche relazioni: «Anche in Paesi con sistemi democratici è del tutto normale che i capi politici manipolino l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione sociale invece di promuovere una partecipazione consapevole al processo politico. Si rispettano le convenzioni democratiche, ma si utilizzano tecniche prese in prestito dalla pubblicità e dalle pubbliche relazioni in nome di politiche che sfruttano gruppi particolari e violano diritti fondamentali, incluso il diritto alla vita». Più positivo, invece, l’approccio di un intervento del 22 febbraio 1992 dove c’è un apposito paragrafo dedicato alle relazioni pubbliche: «Le relazioni pubbliche necessitano da parte della Chiesa, di una comunicazione attiva con la comunità per il tramite dei media, sia profani che religiosi. Queste relazioni, che implicano la disponibilità della Chiesa a comunicare i valori evangelici e a fare conoscere i suoi ministeri ed i suoi programmi, richiedono da parte sua che essa faccia tutto il possibile per verificare che è veramente ad immagine di Cristo. Un piano pastorale di comunicazione dovrebbe tendere:

  1. a) a organizzare degli uffici di relazioni pubbliche dotati di risorse umane e materiali sufficienti a rendere possibile una vera comunicazione tra la Chiesa e l’insieme della comunità;
  2. b) alla produzione di pubblicazioni e programmi radio, di televisione e video di qualità eccellente, tali da rendere visibili il messaggio del Vangelo e la missione della Chiesa;
  3. c) a promuovere dei premi ed altri modi di riconoscenza destinati a incoraggiare e sostenere i professionisti dei media;
  4. d) a celebrare la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali come un mezzo per promuovere la presa di coscienza dell’importanza della comunicazione e per appoggiare le iniziative prese della Chiesa in materia di comunicazione».

Immagino che queste indicazioni, ormai datate e proposte in un contesto comunicativo che sembra ormai lontano anni luce da quello attuale, siano sicuramente da aggiornare. In ogni caso, mi pare che non manchi un’attenzione al vostro campo di studio e di ricerca da parte della Chiesa, un’attenzione che mi sembra ricambiata: ne è un piccolo segno l’invito che mi avete indirizzato a intervenire questo pomeriggio. Grazie e buon lavoro.

+ Vescovo Carlo

 

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26 Ottobre 2018