Cambiare le nostre domande

Sunday 25 December 2016

Monsignor Redaelli nel giorno di Natale ha presieduto la messa delle 10.30 nella chiesa di S. Ignazio. Al termine del rito ha raggiunto la Casa circondariale di Gorizia per il pranzo con i detenuti ed il personale operante nella struttura. Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata durante la liturgia in S. Ignazio. 

Forse anche voi, quando da ragazzi in estate si andava a un campeggio o in un campo scuola e sopraggiungevano delle giornate di pioggia, o anche nelle uscite in montagna all’ultimo dell’anno quando si stava al calduccio dentro una casa, vi siete messi a giocare ai quiz, sfidandovi l’un l’altro, magari divisi a gruppi. I quiz, stando alla televisione, sono ancora di moda, certamente più tecnologici di una volta e, purtroppo, con molti soldi in palio. Non so però se avete provato un modo un po’ originale di giocare ai quiz: quello cioè di non partire dalle domande, ma dalle risposte. Dove l’abilità consiste nel formulare con esattezza la domanda corrispondente alla risposta data. Qualche volta è facile, anche se può esserci più di una domanda esatta. Per esempio: “il fiume Po” può essere la risposta alla questione su quale sia il fiume più lungo d’Italia, ma possono essere altrettanto valide le domande: “quale fiume passa da Torino?” o “quale fiume nasce al Piano del re sotto il Monviso?”. Per altre risposte, invece, è difficile trovare la domanda corrispondente e questo è il bello del gioco.
Perché – penserete – vi sto proponendo questa strana riflessione? Forse per suggerirvi qualche innocuo e simpatico passatempo per il dopo pranzo di oggi da trascorrere – ve lo auguro – con tanti parenti e amici? No. Semplicemente vorrei proporvi un’intuizione che mi è nata riflettendo sul Natale. Cioè: e se Natale fosse la risposta che Dio ci dà e spettasse a noi trovare la domanda?
Cerco di spiegarmi per non essere troppo misterioso. Talvolta si interpreta il Natale come la risposta al nostro bisogno di salvezza, al nostro bisogno di luce e di vita. Giusto. Ma forse può essere più utile vedere il Natale come la realtà che ci svela profondamente il vero bisogno di salvezza, di luce, di vita e di senso che abbiamo dentro di noi. Intendo dire che dentro di noi ci sono tanti bisogni, tanti desideri, tante attese, ma che spesso sono realtà di portata limitata, di scarso orizzonte, di poco slancio. A noi basterebbe un po’ di salute, un buon lavoro, una famiglia serena, qualche soldo, alcuni amici fidati, qualche soddisfazione e gratificazione. E ci sarebbe sufficiente che Dio, all’occorrenza, ci desse una mano: ci aiutasse a guarire, a star bene, a trovare un lavoro per noi e per i nostri figli o nipoti, a riallacciare qualche rapporto allentato, a superare qualche tensione in famiglia e così via. Tutte realtà belle e vere: ma siamo fatti solo per questo? E Dio è solo un distributore di qualche grazia, di qualche miracolo?
Il Vangelo – un Vangelo non facile e non descrittivo come quello di Luca, ma non per questo meno vero –, l’inizio del Vangelo di Giovanni ci dice che il Bambino che è nato non è semplicemente qualcuno che può darci una mano per tirare avanti, ma è il Verbo di Dio, è il senso di tutto, è la luce del mondo, è la vita stessa di Dio che ci permette di esistere, è la grazia e la verità che ci salva. Il Vangelo afferma poi che noi non siamo semplicemente esseri viventi che tentano di cavarsela alla meno peggio – come salute, lavoro, affetti, risultati, ecc. – nei sempre pochi anni della nostra vita. Noi non siamo niente di meno che figli di Dio, con la stessa dignità di Dio, destinati a vivere per sempre e non solo per qualche anno. E il Vangelo aggiunge che a coloro che accolgono il Verbo di Dio viene «dato potere di diventare figli di Dio:a quelli che credono nel suo nome,i quali, non da sanguené da volere di carnené da volere di uomo,ma da Dio sono stati generati».
Il Natale è allora la risposta al nostro bisogno di salvezza e di senso, ma una risposta che va ben al di là delle nostre attese. Ci costringe allora a rivedere quello che pensiamo di essere e ad allargare le nostre attese e le nostre speranze. Anni fa andava di moda un raccontino – che probabilmente avete già sentito – dell’uovo d’aquila collocato in un pollaio e covato da una chioccia; una volta uscito dall’uovo, il pulcino cresce e stando in un pollaio pensa di essere un pollo e non un’aquila e così per tutta la sua vita. Qualche volta anche noi rischiamo di non sapere chi siamo, di avere una visione ridotta di noi e di non avere dentro di noi la gioia e la fierezza di essere niente meno che figli di Dio. Il Natale ci svela questo. E’ una risposta che ci fa ingrandire la domanda e l’attesa. Ma è anche una risposta che va accolta, accolta con la vita vivendo da figli di Dio, con i nostri limiti, i nostri peccati, le nostre fatiche…, certo, ma con la dignità di figli.
Si vive da figli di Dio se si vive come Dio che è amore: quindi amando a nostra volta. Non c’è altra strada per essere suoi figli. Lo possiamo fare in forza della grazia e della verità che ci viene donata nel Natale.
Si vive da figli di Dio, poi, non tenendo per noi il dono che abbiamo scoperto, ma testimoniandolo agli altri. Scrivevo nella “lettera al cristiano della domenica” – che forse qualcuno di voi ha avuto modo di leggere –, che l’essere cristiano deve diventare qualcosa che «ci è caro e che vorremmo che altri vivessero. Qualcosa da proporre a chi ci sta vicino almeno come viene spontaneo suggerire a un amico, a un’amica il nome di un bravo medico, l’indirizzo di un negozio conveniente, l’esistenza di una buona scuola per i figli… (e il Vangelo è molto di più di tutto ciò)». Sì, il Vangelo è molto di più perché ci svela chi siamo.
Il mio invito allora per questo Natale è quello di lasciarsi sconvolgere dalla “risposta” di Dio e di cambiare di conseguenza le nostre domande e le nostre attese adeguandole alla dignità e alla gioia di essere figli e figlie di Dio. Auguri.

Vescovo Carlo

 

In precedenza l’arcivescovo aveva presieduto la messa della notte nel Natale 2016 in cattedrale. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
Chi ha paura degli angeli? Lo ripeto: c’è qualcuno tra i presenti che ha paura degli angeli? Penso nessuno. Non ne ha paura ovviamente chi pensa che gli angeli siano improbabili creature di fantasia, sfavillanti immagini poetiche, colorate espressioni artistiche, ingenue e fragili raffigurazioni di una infanzia lontana. Ma anche chi crede all’esistenza degli angeli può stupirsi della mia domanda: al massimo si può avere paura dei diavoli, non certo degli angeli…
Se andiamo però a rileggere le prime pagine del Vangelo di Luca che ci presentano la nascita di Gesù scopriamo due cose: che sono piene di angeli e che la loro apparizione suscita turbamento e timore, per cui per prima cosa devono invitare a non temere.
Questo avviene già al momento della annunciazione. Quando l’angelo Gabriele appare a Maria e la saluta: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te», l’evangelista Luca sottolinea: «A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo» e aggiunge: «L’angelo le disse: “Non temere, Maria”» (Lc 1,28-30).
La stessa cosa era già successa con l’annuncio da parte del medesimo angelo a Zaccaria, annuncio che riguardava la nascita del figlio tanto sperato e ormai non più atteso: «Apparve a lui [Zaccaria] un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: “Non temere, Zaccaria”» (Lc 1,11-13).
Infine la pagina che poco fa è stata proclamata, l’annuncio ai pastori: «Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: “Non temete”» (Lc 2,9-10).
Perché si teme davanti agli angeli, perché si è presi da turbamento anche quando vengono ad annunciare qualcosa che riempie il cuore di gioia e di speranza – «ecco, vi annuncio una grande gioia» dice infatti l’angelo ai pastori -? Forse perché ci aprono a una dimensione di trascendenza che è nostra, ma da cui spesso ci difendiamo cercando di rinchiudere l’orizzonte del nostro esistere in quello che si vede, si tocca, si sperimenta. O anche perché portano una luce splendente davanti alla quale ci sentiamo a disagio, perché illumina – ci sembra in modo inesorabile – anche gli angoli oscuri della nostra persona, della nostra vita. Per questo abbiamo paura degli angeli.
Ma… di un bambino? C’è qualcuno che ha paura di un bambino, di un neonato? Sicuramente nessuno. Un bambino suscita sentimenti di tenerezza, di dolcezza, di affetto. Anche perché cosa può farti un bambino piccolo? Forse solo darti fastidio con il suo pianto e nulla più. Se per caso poi – non sia mai… – sei un re preso da pazzie sanguinarie e da allucinazioni di potere come Erode, non è comunque difficile sbarazzarsi di un bambino, soprattutto se di una famiglia povera e insignificante.
E se quel bambino diventato grande è un uomo «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), se si fa servo di tutti, se come uno schiavo si mette a lavare i piedi sporchi e incalliti di pescatori, se permette che la folla che lo cerca rischi di travolgerlo e schiacciarlo, se persino si lascia vendere come uno schiavo per soli 30 denari, se non oppone resistenza a chi lo inchioda a una croce e non risponde a chi lo insulta invitandolo ironicamente a salvarsi…: chi può avere paura di quell’uomo? Nessuno.
Ma allora domandiamoci: perché Dio non si è fatto angelo, un angelo che incuta timore e rispetto, un angelo del giudizio, un angelo della lotta come Michele che sconfigge il drago e i suoi angeli (cf Ap 12,7-9)? Non avrebbe così risolto per sempre il problema del male spaventando a morte ed eliminando i cattivi e incutendo un po’ di sano e rispettoso timore nei buoni? Perché si è fatto invece bambino inerme, povero, nato da immigrato in un paese insignificante nella turbolenta periferia dell’impero? Perché si è fatto uomo e si è messo in balia delle nostre mani fino al punto da essere condannato e ucciso come uno schiavo?
Sono domande a cui ciascuno di noi deve trovare una risposta personale. Da parte mia ne indico due: anzitutto per rispettare la nostra libertà e poi per svelarci la dignità di ogni uomo, di ogni donna e, prima ancora, di ogni bambino qualunque sia la situazione in cui si trova.
Parto da questa seconda motivazione che spiega il perché Dio si sia fatto bambino, sia diventato uomo. Semplicemente per ricordarci che tutti siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, che tutti siamo chiamati a essere suoi figli. Tutti: grandi e piccoli, poveri e ricchi, potenti e disprezzati, onesti e corrotti, uomini e donne di pace e uomini e donne di terrore e di odio. Lui si è fatto uno di noi, debole, povero, servo, crocifisso tra malfattori per dire che ognuno di noi ha dentro di sé l’immagine di Dio, un’immagine che niente di esterno o di interno – fosse anche la più grande malvagità – può cancellare.
Ma poi Dio si è fatto bambino per rispettare la nostra libertà. Poteva imporci la sua onnipotenza e sistemare ogni cosa con una sola parola. Gesù – ricordate? – fa presente questa possibilità all’apostolo che nell’orto degli ulivi ferisce con la spada uno dei servi del sommo sacerdote che sta catturando Gesù: «Non credi che io possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,53). Ma le legioni in soccorso di Gesù non arrivano e Lui si fa catturare e trascinare alla condanna.
Dio non forza la nostra libertà né in bene (salvandoci a prescindere dalla nostra volontà), né in male (condannandoci), ma ci lascia scegliere. Comprendiamo allora perché l’angelo dice ai pastori che il «bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» è un segno: segno della volontà di Dio, del suo modo di amarci, del suo modo di salvarci. Un semplice segno, non l’evidenza assoluta.
Davanti a questo segno, davanti a un bambino in una mangiatoia, un bambino nato in una famiglia lontana dal proprio paese e accampata alla meno peggio, un bambino che non ha attorno se non qualche pastore, di fronte a questo bambino e non a un angelo sfolgorante dobbiamo prendere posizione. Lo riconosciamo finalmente come nostro Salvatore? Se sì, allora stanotte può cambiare tutto nella nostra vita.

+ Vescovo Carlo