Questa mattina ho trovato un interessante articolo su L’osservatore romano, che ha attirato la mia attenzione, intitolato: “La sentenza. Quella iscrizione sopra la testa”. Si tratta di un contributo che prende in considerazione l’iscrizione che, stando ai Vangeli, è stata posta sopra la testa di Gesù per indicare la motivazione della sua condanna.
L’articolo mi ha incuriosito, perché tra le diverse particolarità che caratterizzano il racconto della passione secondo Giovanni, che la Chiesa ci fa leggere il venerdì santo, rispetto a quella presentata dagli altri tre Vangeli, c’è proprio l’accurata e ampia descrizione dell’iscrizione di condanna.
La rileggo: «Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’”. Rispose Pilato: “Quel che ho scritto, ho scritto”» (Gv 19,19-22). Gli altri vangeli sono più sobri: Marco, in particolare, si limita a scrivere: «e vi era l’iscrizione con il motivo iscritto: “Il re dei Giudei”» (Mc 15, 26).
L’autore dell’articolo, il prof. Carletti docente di archeologia cristiana all’università di Bari, spiega molto bene che l’iscrizione era un fatto usuale in occasione di una condanna a morte: «Nella procedura penale romana era previsto che il giudice, riconosciuta la colpevolezza dell’accusato e pronunciata la condanna, dettasse il titulus – trascritto su una tabella – cioè la motivazione della sentenza e il nome del condannato».
Questa tabella era poi appesa al collo del condannato – ulteriore forma di umiliazione e occasione di dileggio da parte di chi incontrava casualmente il poveretto sulla via che lo conduceva al patibolo – e alla fine appesa in bella vista non sulla croce, in particolare se, come sembra. questa era a forma di “tau”, ma su un’asta. In ogni caso doveva essere assicurata la leggibilità anche da lontano.
Ma perché l’evangelista Giovanni dà rilievo a questo aspetto in fondo secondario della passione di Gesù? Dobbiamo avere presente che spesso il quarto Vangelo si muove su un duplice registro: quello della realtà come appare al giudizio umano, al buon senso, all’evidenza della cronaca e quello della realtà profonda considerata dal punto di vista di Dio, secondo il buon senso di Dio (che è totalmente diverso dal nostro…) e l’evidenza non della cronaca ma del disegno di divino di salvezza.
In riferimento al primo registro o livello di lettura, la cosa appare chiara. C’è un poveretto portato alla morte, uno che si spacciava per re dei giudei, un re assolutamente poco credibile, come risulta anche dall’interrogatorio condotto da Pilato: senza esercito, senza ministri, senza risorse, senza autorità, che non ha fatto neppure finta di prendere il potere, ma che è entrato a Gerusalemme su un asinello con attorno un po’ di bambini vocianti e qualche discepolo esaltato.
Uno condannato forse più per burla che per davvero. Nemmeno i Giudei hanno per un momento creduto che quello fosse un possibile loro re. E Pilato, da cinico governatore romano, si diverte alle spalle di coloro che gli hanno consegnato quel poveretto: “bel re che avete, voi Giudei… e noi romani dovremmo preoccuparci per questo? … ci vuol ben altro per impensierire Cesare e i suoi emissari”. E quando i capi dei sacerdoti capiscono che Pilato li sta prendendo in giro e protestano a proposito della scritta, il procuratore taglia corto: «Quello che ho scritto, ho scritto».
Questo dal punto di vista umano. Ma dal punto di vista di Dio e di chi con gli occhi della fede vede le cose secondo lo Spirito – il secondo livello di lettura –, la cosa è ben diversa.
Gesù è davvero il re. Non un re che si impone con la forza, ma un re che serve. Secondo il Vangelo di Luca, Gesù lo dice chiaramente ai suoi discepoli che litigavano circa chi di loro fosse il più grande proprio durante l’ultima cena: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,25-27). Come Gesù serve, lo abbiamo contemplato ieri nella lavanda dei piedi che l’evangelista Giovanni racconta significativamente al posto dell’Eucaristia.
Gesù è davvero re, ma un re che non condanna, non toglie la vita agli altri, ma dona la sua vita sul trono della croce. Lo aveva detto lui stesso, in quella notte di dialogo con Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
Gesù è davvero re, non solo dei Giudei: devono saperlo tutti i popoli. Ecco il senso dell’iscrizione nelle tre lingue allora utilizzate, particolare che Giovanni sottolinea. E che tutti possano vedere quella scritta – altro dettaglio ricordato dal quarto Vangelo –, anche i passanti distratti che percorrevano quella strada appena fuori le mura o i contadini che rientravano dal lavoro dei campi prima che incominciasse il sabato o i molti stranieri presenti in occasione della festa.
Quante cose si capiscono contemplando con gli occhi della fede una semplice iscrizione posta sopra la croce di Cristo. E che cosa non comprenderemmo se il nostro sguardo scendesse un poco, solo un poco, e si fermasse a guardare, commosso, il volto insanguinato di Colui che ha dato tutto se stesso per noi…
† Vescovo Carlo