«Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”». Questo passo, tratto dal profeta Gioele, può essere visto come un incarico che è dato ai ministri dell’altare – anche a me questa sera, all’inizio del cammino quaresimale – di chiedere perdono al Signore per i peccati del popolo (popolo in cui ovviamente sono compresi anche i ministri). Di che cosa dobbiamo chiedere perdono insieme, un perdono che diventa una grazia da accogliere per un vero cammino di conversione? Quali sono i nostri peccati?
Un primo grave peccato è la mancanza di speranza. Nonostante papa Francesco ci inviti continuamente a non farcela rubare, noi ne siamo sempre più privi. Molti sono i segni di questa perdita di speranza. Ne elenco alcuni. Anzitutto, il non saper reagire con coraggio e creatività alla crisi, crisi che è di tutta l’Italia, ma che qui a Gorizia e nel suo territorio è particolarmente grave. Si aspetta, ci si lamenta, ma mancano le buone idee e la capacità di realizzarle insieme, evitando il facile sport, ma dal gusto amaro, di bloccare le poche belle iniziative degli altri. Ancora, il non fare scelte definitive, anzitutto in campo affettivo: il “per sempre” spaventa, nessuno vuole rischiare su di sé, sulla sua capacità di amare, e su chi si ama e sul suo amore, e allora si va avanti “per ora”: per ora stiamo insieme, per ora ci amiamo e poi… chissà! Altro segno, il calo di natalità: lento, ma non troppo…, suicidio della nostra società, appunto senza speranza. Sulla stessa linea il non riuscire a dare spazio ai giovani: rischiamo di essere una società di vecchi, attaccati al proprio pezzetto di potere e di presunto prestigio o, anche solo, alle proprie nostalgie.
Un secondo peccato è il non controllare le proprie emozioni negative. Tutti le abbiamo e dobbiamo imparare a convivere con esse e a saperle, però, anche dominare. La paura, l’insicurezza, l’ansia, la voglia di chiuderci in noi stessi, il disinteresse, il lasciarsi andare,… E’ vero, in questo campo ha molta responsabilità chi fa opinione pubblica, che rischia di amplificare le emozioni per prendere la gente “per la pancia” e così vendere qualche copia in più o aumentare l’audience. Come pure chi ha un compito pubblico, per cui è più facile spaventare le persone piuttosto che aiutare la gente a comprendere che, certo, ci sono i problemi, ma vanno gestiti, con prudenza, saggezza e tirando fuori le risorse positive che le persone hanno, e non vanno invece amplificati per avere facile consenso. Ma tutti, abbiamo le nostre colpe e siamo chiamati a usare la testa, a riflettere, a documentarci, a pensare per non perdere ciò che di più prezioso abbiamo, anche come società italiana – la libertà, il rispetto, la generosità, l’accoglienza, il pluralismo, la creatività, ecc. -, solo perché oggi sarebbe più difficile essere coerenti con questi valori umani e cristiani.
Un terzo peccato è quello di vivere come se Dio non ci fosse o, anche, più sottilmente, a tenere conto di Dio, ma solo riducendolo a una specie di idolo, di bandiera, che ci serve per rivendicare e difendere la nostra identità. Ma Dio è Dio di tutti, tutti apparteniamo a Lui – di ogni lingua, cultura, nazionalità, religione, … – tutti, italiani o stranieri, cattolici e protestanti, cristiani o musulmani. E Lui non appartiene a noi, non è a nostro servizio. Il Vangelo è molto chiaro nel rifiutare le pratiche di facciata, i riti solo esteriori e chiedere, invece, l’autenticità di un rapporto con Dio “nel segreto”, nell’intimo, nella verità di noi stessi come singoli e come popolo. Una relazione con Dio che non è rassicurante, ma ha dentro di sé il fuoco del Vangelo e la forza impetuosa dello Spirito. La fede autentica, infatti, non è rassicurante. O meglio, ci rassicura che Dio ci ama, che Gesù ha dato la sua vita per riconciliarci con Dio e tra di noi, ma non “rassicura” le nostre convinzioni mondane, né le nostre pratiche prive di anima.
Un quarto peccato lo ricavo dal messaggio di papa Francesco per la Quaresima: l’indifferenza. Cito le sue parole: «Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza». Queste considerazioni di papa Francesco, fanno venire in mente le parole che ha pronunciato qui da noi a Redipuglia, dove ha individuato come fondamento di ogni guerra il “a me che importa” detto all’inizio della storia da Caino e ripetuto all’infinito da una generazione all’altra.
Mi fermo qui con l’elenco dei peccati.
Si potrebbe continuare perché ognuno di noi dovrebbe aggiungere i suoi peccati personali che, comunque, contribuiscono a rendere meno bella e vera la Chiesa e la stessa società. Non dobbiamo, però, spaventarci o scoraggiarci. Anche in questa Quaresima il Signore ci ama e ci dona un tempo di conversione. Non un tempo di nostri sforzi, che sappiamo essere il più delle volte inutili, ma un tempo dove accogliere con abbondanza la sua grazia. Un tempo dove lascarci guarire il cuore, perché divenga “misericordioso”.
Come afferma papa Francesco nel suo messaggio: «Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle.
In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro». Così sia.
† Vescovo Carlo