Trasformare la porta della cella in Porta Santa
Celebrazione nella Casa circondariale di Gorizia all'inizio dell'Anno Santo
13-12-2015

 

Lo scorso 8 dicembre papa Francesco ha iniziato il Giubileo della misericordia aprendo la “porta santa” in san Pietro.

Ieri l’abbiamo incominciato anche noi aprendo la “porta della misericordia” nel nostro Duomo. Vi siamo giunti con una processione partita dalla chiesa dei frati cappuccini, dove avevamo ascoltato alcune testimonianze di misericordia, di riconciliazione e di ripresa di una cammino, compresa la testimonianza di un ex carcerato che ha trovato accoglienza e la possibilità di rifarsi una vita. Che cosa è il Giubileo della misericordia? E’ un periodo di tempo dove tutti i cristiani sono invitati a sentire che il Signore li ama, li perdona, ha compassione e misericordia per ciascuno di noi. Un sentimento simile a quello di una madre, di una mamma: “mio figlio può essere l’uomo peggiore del mondo, il più grande criminale della storia,… ma è mio figlio”. Così ragiona Dio nei confronti di ciascuno di noi: Dio che è padre ma anche madre. La sua misericordia è istintiva, viscerale, immediata come quella di una mamma.

Che ci sia un giubileo della misericordia significa che ne abbiamo bisogno. Tutti ne abbiamo la necessità, non importa se siamo dentro o fuori dal carcere, se siamo considerati persone per bene o giudicati delle persone pericolose o marginali. Tutti, infatti, abbiamo le nostre generosità, i nostri ideali, i nostri desideri di bene, di verità, di giustizia e, qualche volta, tutto ciò si traduce per fortuna anche nei fatti con gesti di attenzione agli altri, con l’aiuto dato concretamente a chi è in difficoltà, con una parola buona a un amico, ecc. Ma tutti abbiamo dentro il cuore (e vengono purtroppo poi fuori) i nostri egoismi, le nostre vigliaccherie, le nostre furbizie, le nostre vendette, le nostre invidie e gelosie, i nostri tradimenti…

Se siamo sinceri dobbiamo riconoscere che questo secondo aspetto di noi non ci piace, ci dà fastidio, a volte ci tormenta. E’ un buon segno: significa che abbiamo una coscienza, significa che dentro di noi non si è cancellata quella immagine di Dio che Lui ci ha messo dentro quando siamo stati creati e chiamati all’esistenza. Noi siamo figli di Dio e questa nostra identità può essere rovinata, macchiata, trascurata, persino dimenticata, ma non può mai essere cancellata del tutto.

Il Giubileo della misericordia ci vuole ricordare questo, che noi siamo figli di Dio e quindi anche fratelli tra di noi. E non ce lo ricorda per farcene vergognare vedendo quanto poco ci siamo comportati da figli e da fratelli, ma per dirci che Dio ci vuole bene così come siamo e ci perdona. Dio non aspetta che noi diventiamo bravi per volerci bene, ma ci ama per quello che siamo. Noi non dobbiamo cambiare vita per convincere Dio a volerci bene, ma dobbiamo cambiare vita perché abbiamo sperimentato che Dio ci vuole bene. Non viene prima il pentimento, la conversione e poi il perdono; ma avviene esattamente il contrario: Dio ci perdona e per questo dobbiamo e possiamo cambiare vita. Le letture di oggi ci aiutano a comprendere questo. La prima e la seconda lettura ci offrono anzitutto un forte incoraggiamento, un grande invito alla speranza. Molto bello quanto dice Dio attraverso il profeta a una città in difficoltà e scoraggiata: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia». Non dobbiamo lasciarci cadere le braccia…, lasciarci prendere dallo scoraggiamento e dallo sconforto. L’apostolo Paolo, poi, ci invita a stare sempre lieti, gioiosi nonostante tutto, perché «il Signore è vicino» e in ogni circostanza possiamo far presenti a Dio le nostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.

Il Vangelo ci fa invece vedere che cosa succede quando persone si accorgono che il Signore è vicino, sta venendo loro incontro e sentono quindi il desiderio di cambiare vita.

Interessante quanto propone Giovanni Battista a chi lo interroga. Notate, si tratta non di persone privilegiate o particolarmente religiose, ma di gente comune, di pubblicani (cioè esattori delle tasse per il nemico romano), di soldati (romani e quindi nemici perché parte delle truppe di occupazione della Palestina). Le risposte sono molto semplici e concrete: Giovanni non invita a pregare, ad andare al tempio o a fare gesti religiosi, ma chiede di compiere atti concreti secondo la propria vita e il proprio mestiere. Alla gente viene detto: «Chi ha due tuniche [due vestiti], ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Agli esattori delle tasse raccomanda l’onestà e la correttezza: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Ai soldati di non approfittare del loro ruolo e della loro forza: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Cose molto semplici: generosità verso chi ha bisogno, correttezza nel proprio mestiere. Ma sono modi per vivere da figli di Dio, con la dignità di figli di Dio. Una dignità che tutti abbiamo. Il Giubileo ce lo ricorda.

Il Giubileo chiede opere precise: i pellegrinaggi, il passaggio dalla porta santa, le celebrazioni penitenziali. E chi è in carcere? Papa Francesco si è ricordato di chi è in carcere, non solo perché è un’opera di misericordia visitare i carcerati, ma perché anche i carcerati sono figli di Dio e bisognosi di misericordia. Così ha scritto: «Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto. A tutti costoro giunga concretamente la misericordia del Padre che vuole stare vicino a chi ha più bisogno del suo perdono. Nelle cappelle delle carceri potranno ottenere l’indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà».

Occorre trasformare allora la porta della cella in “porta santa”, non perché sia santa la cella, ma perché Dio non si ricorda solo di chi passa dalla porta del Duomo, ma ci viene incontro lì dove siamo anche in carcere. Vuole infatti portare a tutti misericordia e perdono. A tutti perché tutti ritrovino la dignità di figli di Dio, che niente e nessuno ci può togliere.

† Vescovo Carlo