Il Vangelo che abbiamo ora ascoltato ci fa sorgere una domanda: perché un giudizio alla fine della vita? Dio, che è misericordia e perdono, come continuamente ci ricorda papa Francesco, non potrebbe portarci tutti in paradiso senza alcun giudizio? La risposta a queste domande deve essere articolata. Anzitutto il fatto che ci sia un giudizio, dice che bene e male non sono intercambiabili, che giustizia e ingiustizia non sono la stessa cosa, che c’è un discernimento decisivo, quello di Dio. Sarebbe tremendo il contrario, ci porterebbe via la speranza, la speranza di una giustizia, di «nuovi cieli e terra nuova dove abita la giustizia» (2Pt 3,13), come qualche anno fa ha ben sottolineato papa Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza.
Il giudizio poi dice che c’è una responsabilità perché esiste una libertà. Il Signore ci ha creati a sua immagine e somiglianza e quindi liberi, capaci di metterci in gioco, capaci di donarci o, al contrario, di richiuderci in noi stessi. La libertà è presupposto per l’amore: Dio è amore, per questo è la massima libertà. Noi, creati a sua immagine e quindi chiamati ad amare, siamo per questo liberi. L’amore è dono di sé: solo chi è libero può decidere di donarsi. La libertà è il presupposto dell’amore, ma è anche la possibilità di scegliere il non amore, la tremenda possibilità di rifiutare l’amore. Dio ci ama, ci vuole tutti salvi, non si accontenta del 99% del successo, non gli bastano le 99 pecore al sicuro, va a cercare la centesima che si è perduta. Però non può obbligarci a salvarci, rispetta la nostra libertà.
Sappiamo che Dio vuole salvare tutti, proprio tutti e questa è la nostra speranza. Sappiamo che Dio ha così preso sul serio la nostra libertà e l’uso distorto che ne abbiamo fatto, che il Figlio di Dio è andato a morire per noi sulla croce. La nostra salvezza è «a caro prezzo», come più volte l’apostolo Paolo ha sottolineato nelle sue lettere, un prezzo pagato dal Signore per il nostro riscatto. Saggiamente la Chiesa proclama i beati, canonizza i santi, ma non ha mai dichiarato che qualche uomo o qualche donna siano finiti o finiranno all’inferno…
Il giudizio di Dio comunque c’è, è prendere atto della nostra scelta di apertura alla sua grazia e alla sua misericordia o di rifiuto di esse. Che ci sia un giudizio dice allora tutta la serietà della nostra vita, perché è in questa vita che dobbiamo decidere se lasciarsi guidare dallo Spirito, colui che – come ha affermato la seconda lettura – ci rende figli, capaci di rivolgerci a Dio chiamandolo «abbà, papà», o se chiuderci progressivamente all’amore di Dio. E’ in questa vita che dobbiamo decidere se usare i talenti ricevuti o nasconderli, come ci ricorda la parabola che nel cap. 25 del Vangelo di Matteo precede immediatamente il brano evangelico odierno. Nel primo caso, quando viviamo l’amore secondo lo Spirito e impieghiamo per il regno di Dio i talenti – pur con tutti i nostri limiti e i nostri peccati – viviamo già qui il paradiso; nel secondo caso ci stiamo costruendo l’inferno. Perché l’inferno non sono gli altri – come aveva affermato un noto scrittore francese in un dramma scritto nel 1944 -, ma siamo noi se ci chiudiamo all’amore degli altri (anzitutto di Dio) verso di noi e di noi verso gli altri. I comportamenti indicati da Gesù nel Vangelo, atteggiamenti molto concreti di amore, vere opere di misericordia, non sono qualcosa da fare per guadagnarci il premio, il paradiso appunto, ma sono già vivere il premio che è l’amore. L’amore è premio a se stesso. E’ la nostra realizzazione, se è vero che noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio che è amore.
C’è quindi una continuità tra l’amore vissuto in questa vita e la realtà dell’aldilà. Dobbiamo ricordarcelo mentre preghiamo per i nostri cari defunti. Una preghiera che deve essere ringraziamento per tutto l’amore che ci hanno donato e che noi, nel nostro piccolo, abbiamo ricambiato. Una preghiera che sa che può contare sulla loro preghiera, sul loro amore verso di noi che la morte non ha interrotto, perché il loro essere in Dio potenzia tutto il bene, tutto l’amore, tutto l’affetto che hanno avuto in questa vita verso di noi.
In effetti, se ci può essere spontaneo, ascoltando il Vangelo di stasera, metterci dalla parte di chi deve compiere le opere di misericordia, dobbiamo però riconoscere che spesso siamo noi i destinatari di queste opere che altri compiono a nostro favore.
Dobbiamo quindi vederci anche dal lato di chi riceve misericordia e non solo di chi la offre o la dovrebbe offrire. Tutti noi, infatti, almeno spiritualmente, ma talvolta anche fisicamente, siamo spesso affamati, assetati, malati, nudi, stranieri, prigionieri e, per nostra fortuna, il Signore si fa vicino a noi attraverso la parola, l’azione, l’ascolto, il sorriso, l’aiuto concreto di chi si fa prossimo verso di noi. Quanta riconoscenza dobbiamo avere verso il Signore e verso gli altri, sia vivi che defunti…
Questa riconoscenza diventa ora Eucaristia, ringraziamento. Diventa nutrirci di Cristo, della sua Parola, del suo Corpo e del suo Sangue per essere già ora in comunione con Lui, con il Padre e con lo Spirito. Lui che come Giudice ci chiama a prendere sul serio, come dono prezioso, ogni momento della nostra vita. Lui che come Salvatore continuamente ci cerca e ci soccorre. Lui che con il suo Spirito consolatore ci assicura che nella casa del Padre ci sono molti posti e che lì, come ci ha detto il profeta Isaia, le nostre lacrime saranno asciugate e potremo cantare per sempre il nostro “Alleluia”, dicendo con le parole profetiche: «Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza».
† Vescovo Carlo