La sera di giovedì 18 aprile 2019, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale la messa “in coena domini”. Pubblichiamo di seguito la sua omelia
Visitando in questi giorni per la benedizione e gli auguri pasquali una quindicina di aziende, grandi e piccole, del nostro territorio – dall’ultima sono stato questo pomeriggio – mi è venuto spontaneo farmi una domanda, che può apparire un po’ strana: quando Gesù lavorava come falegname a Nazaret si faceva pagare? La risposta è affermativa: certo Gesù, e prima di lui san Giuseppe, si facevano pagare. Sicuramente avranno fatto qualche lavoro gratis per i più poveri e non avranno preso per il collo la povera gente pretendendo di essere pagati tutto e subito, ma avranno aspettato che i loro clienti più poveri avessero qualche soldo per saldare il dovuto… Ma ovviamente di norma si facevano pagare. Altrimenti come avrebbe potuto mandare avanti la loro bottega, come si sarebbero procurati il necessario per vivere e anche il materiale e gli attrezzi per il loro lavoro e come sarebbero riusciti a pagare gli operari e i garzoni che probabilmente lavoravano con loro…?
Proseguendo nei miei strani pensieri, mi sono anche domandato: ma Gesù amava la gente quando si faceva pagare? Ci amava anche in quel momento? O ci ha amato solo morendo sulla croce e, prima, lavando i piedi agli apostoli e ancora prima guarendo i malati e facendo altri miracoli a favore della povera gente? Non so cosa ne pensate… Ma io dico di sì: se Dio è amore, vuoi che suo Figlio ci abbia amato a intermittenza e solo in qualche momento? Quindi Gesù ci amava anche quando lavorava a Nazaret – e lo ha fatto per circa 20 anni, prima come garzone nella bottega di Giuseppe, e poi in proprio – e anche quando si faceva pagare dai suoi clienti o trattava il prezzo con chi gli vendeva il legname o concordava il compenso con chi gli appaltava qualche lavoro nella città di Sephoris a sette chilometri da Nazaret, ricostruita in quegli anni dopo la distruzione operata dai romani a seguito di una rivolta.
Vi sembrano discorsi strani, quelli di stasera? Ma arriviamo a noi. Gesù nell’ultima cena ci offre il comandamento dell’amore e lo presenta concretamente con il gesto della lavanda dei piedi che diventa un dovere (Gesù, infatti non dice “vi consiglio di farlo…”, ma “dovete lavare i piedi gli uni gli altri…”). Questo significa che il comandamento dell’amore deve essere vissuto solo con gesti di carità gratuita? E che quindi il resto della nostra vita sarebbe fuori dal comandamento dell’amore? Detto con altre parole: noi amiamo gli altri solo quando gli aiutiamo gratuitamente? Siamo discepoli di Gesù solo quando compiamo un gesto di generosità?
Se così fosse, un imprenditore sarebbe un bravo cristiano solo quando facesse un’offerta generosa per la caritas o per le missioni; un impiegato o un operaio solo quando dopo il lavoro si impegnasse nel volontariato; uno studente solo quando andasse a trovare la nonna all’ospizio, e così via… Capite che c’è qualcosa che non va. Anche se talvolta nelle prediche o nella catechesi insistiamo solo sui gesti gratuiti di amore, non è possibile che la vita cristiana consista solo in quegli atti. Sicuramente ci vogliono e guai se mancassero nella nostra vita. Ma sono solo dei segni che dicono il senso della nostra esistenza. Una vita che deve essere tutta e sempre per il Signore e per gli altri e non solo occasionalmente nei bei gesti.
Così, per tornare agli esempi di prima, un imprenditore è un bravo cristiano se mette a disposizione talenti e risorse per creare lavoro e se gestisce con responsabilità e attenzione alle persone il proprio compito e non solo se fa qualche volta un’offerta per i poveri. Un impiegato o un operario è un bravo cristiano se vive con impegno e precisione il proprio lavoro, se è solidale con i colleghi, se è attento alle persone e non solo se fa del volontariato. Uno studente, anzitutto se studia, se si impegna, se rifiuta il bullismo, se aiuta i compagni che fanno più fatica e non solo se va a trovare la nonna… Il comandamento dell’amore si vive così nella totalità della vita e non solo in qualche sporadico slancio di generosità.
Sappiamo che nel Vangelo di Giovanni il gesto della lavanda dei piedi prende il posto dell’Eucaristia. L’evangelista non si è distratto dimenticando di raccontarci ciò che è successo quella sera e neppure ha considerato un particolare insignificante ciò che Gesù ha compiuto chiedendoci di ripeterlo in sua memoria fino alla sua venuta. No, Giovanni ha presentato la lavanda dei piedi come un gesto che manifesta il senso profondo e molto concreto dell’Eucaristia. Gesù si dona sulla croce, ma quello è solo il compimento di una vita di amore e di servizio, compresi i lunghi anni passati nella quotidianità di Nazaret, e il gesto della lavanda dei piedi ne è come il simbolo.
Celebrare l’Eucaristia vuol dire entrare in questa logica di amore e di servizio con la concretezza di quel gesto. Una logica da vivere in tutta la vita e in ogni ambito della vita e non solo in quelli più connotati dalla generosità. Dobbiamo allora partecipare all’Eucaristia ogni domenica non per imparare a fare qualche gesto sporadico di carità lungo la settimana, ma perché tutta la nostra vita sia vissuta nella logica dell’amore. Tutta… Con i nostri impegni, le nostre responsabilità, le nostre relazioni, … insomma tutto ciò che è la nostra vita. Penso sia questo il messaggio del giovedì santo: vivere un amore concreto che abbracci tutta la nostra vita, in ogni momento anche in quello in apparenza meno significativo, più banale, più usuale. Perché Gesù si faceva pagare per il suo lavoro di falegname e anche in quel momento ci amava. O non ne siete convinti?
+ vescovo Carlo