Noi non veneriamo allora i morti per una loro generica dignità, ma perché sono stati creati da Dio a immagine di Cristo
La commemorazione dei fedeli defunti in cattedrale a Gorizia
02-11-2012

Celebriamo oggi la commemorazione dei defunti. Ricordarsi dei defunti, dare loro un particolare rilievo da parte della società dei vivi, è un dato che accomuna ogni esperienza umana fin dai tempi antichissimi.

Anzi la presenza di un culto o comunque di un particolare trattamento riservato ai morti diventa per gli studiosi delle epoche antiche un segno inequivocabile di presenza dell’uomo. Solo gli uomini, infatti, rispetto agli altri esseri viventi, hanno una speciale cura verso i morti: li circondano di rispetto, li seppelliscono con particolari rituali, li sentono presenti nella loro vita e, soprattutto, li collegano in qualche modo con la divinità.

Senza essere degli esperti di antropologia, penso si possa comunque dire che ciò è segno di un innata consapevolezza che l’uomo ha della propria dignità, anzi della propria sacralità.

Ciò si manifesta in ogni cultura e in ogni epoca e trova un particolare rilievo nelle diverse religioni, da quelle primitive a quelle più evolute.

A questo punto possiamo domandarci: il cristianesimo che cosa ha aggiunto o modificato rispetto ad altre religioni o, comunque, rispetto ad altre culture non cristiane?

Per certi aspetti c’è una continuità. Anche noi circondiamo di rispetto i morti, anche noi li seppelliamo con un particolare rituale, anche noi li ricordiamo soprattutto in certe ricorrenze, anche noi viviamo tutta la drammaticità e la sofferenza del distacco. Ciò però che è proprio del cristianesimo anche in questo ambito è la fede in Gesù.

Una fede che non si aggiunge al resto – per cui facciamo più o meno come tutti gli altri con in più qualche preghiera rivolta al Signore – ma una fede che, recuperando tutti gli elementi autentici dell’esperienza umana, ne cambia radicalmente la prospettiva.

La causa di questa profonda modifica è ciò che è al centro della nostra fede: la Pasqua di Cristo, la sua morte e risurrezione. Questo evento cambia tutto.

Noi non veneriamo allora i morti per una loro generica dignità, ma perché sono stati creati da Dio a immagine di Cristo, sono stati salvati dal suo sangue sparso sulla croce, sono viventi in Lui, sono destinati a risorgere e vivere per sempre come figli di Dio nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Le tre letture di questa sera ci riportano a questo centro. Il primo brano ci presenta la consapevolezza, già presente in diverse pagine dell’Antico Testamento, che Dio non abbandonerà alla morte il suo fedele ma lo chiamerà a vivere con Lui, a vederlo con i propri occhi.

Il bellissimo salmo 26 conferma la stessa convinzione: «Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi» e per questo invita a sperare nel Signore e a non avere paura perché «Il Signore è mia luce e mia salvezza».

San Paolo, nella lettera ai Romani, afferma con convinzione che il fondamento della speranza cristiana è l’amore di Dio più forte del nostro peccato, quell’amore che è stato riversato nei nostri cuori e ha portato Gesù a morire sulla croce: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi».

Infine, nel brano del Vangelo secondo Giovanni, è lo stesso Gesù che ci assicura che la volontà del Padre è quella di non perdere nessuno di noi e di fare in modo che ciascuno, credendo in Gesù, possa avere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno.

Questa è la nostra fede, che oggi siamo chiamati a rinnovare. Il 2 novembre, infatti, prima di essere un’occasione tradizionale e preziosa di ricordo dei nostri morti e di preghiera per loro, è una celebrazione della nostra fede, quella fede che sostiene la speranza nel Regno di Dio in cui tutti ci ritroveremo nella gioia del Signore; quella fede che rende il nostro amore verso i defunti molto di più di un rimpianto o di un ricordo, bensì l’esperienza di una autentica comunione nell’amore del Signore.

Può essere allora importante oggi e in tutto il mese di novembre, che, oltre a ricordare i nostri defunti e a pregare per loro, ciascuno di noi si interroghi se vive davvero la fede nel Signore.

Il rischio che tutti corriamo, infatti, è quello di perdere anche in questo ambito la specificità, la novità, la bellezza della nostra fede e di vivere la dimensione della morte, del lutto, del ricordo dei defunti come chi non crede nel Signore.

Come si diceva prima, per certi aspetti noi viviamo la stessa esperienza degli altri: anche noi cristiani sentiamo il distacco, anche noi piangiamo, anche noi commemoriamo i defunti, ecc. Ma questo deve essere sempre e comunque nella fede.

La nostra fede in Gesù morto e risorto, fondamento della speranza cristiana, deve esprimersi anche con dei segni. In questo possiamo imparare molto dalle prime generazioni cristiane.

Ricordo, quando ero a Roma a studiare, di aver visitato diverse catacombe (anche quelle normalmente non aperte al pubblico), catacombe a volte inserite in aree cimiteriali pagane. Anche a un non esperto come me era facilissimo distinguere una sepoltura cristiana da una pagana: per i simboli di fede, per le frasi molto semplici e sobrie che parlavano di risurrezione e di vita nel Signore, per le preghiere piene di speranza.

Non so se oggi è ancora così: se i necrologi sui giornali, sui manifesti, le scritte sulle tombe, esprimono ancora chiaramente la nostra fede… Ma questo vale anche per il modo con cui celebriamo i funerali, piangiamo i nostri morti, ricordiamo chi ci ha preceduto nel cammino di questa vita.

Che già questa celebrazione eucaristica sia allora non un semplice ricordo dei nostri cari, ma una vera celebrazione di fede nel Signore morto e risorto: Lui è Colui che ci salva, Lui è la speranza di una vita che vince la morte, in Lui viviamo una profonda comunione con i nostri cari defunti. E questo, nonostante la fatica e il dolore del distacco, ci riempie di consolazione.

† Vescovo Carlo