L’Eucaristia ci fa entrare in comunione con Lui che dona la sua vita e ci rende per questo una cosa sola
Omelia pronunciata da mons. Redaelli nel corso della celebrazione "In Coena Domini" al Giovedì Santo in chiesa cattedrale
17-04-2014

Se uno studioso delle religioni o anche solo una persona curiosa di questioni religiose chiedesse a noi cristiani quale sia il sacrificio, la celebrazione, il modo principale per rapportarsi a Dio, potremmo rispondere esattamente con sole 67 parole. Sono le parole che compongono la descrizione di quello che Gesù ha fatto «nella notte in cui veniva tradito» che san Paolo presenta ai cristiani di Corinto per richiamarli a una corretta celebrazione dell’Eucaristia. L’abbiamo ascoltata nella seconda lettura di oggi, che è il più antico racconto dell’Ultima cena presente nel Nuovo Testamento, sicuramente precedente la narrazione dei vangeli di Matteo, Marco e Luca, almeno nella redazione che abbiamo noi. Risale a circa vent’anni dopo la morte di Gesù.

Sicuramente il nostro interlocutore ne resterebbe meravigliato, anche solo confrontando questa descrizione con le minute e amplissime prescrizioni che l’Antico Testamento – per stare a una religione da cui il cristianesimo ha preso origine – presenta circa la cena pasquale (ne abbiamo ascoltato qualche stralcio nella prima lettura) e i diversi tipi di sacrifici che venivano celebrati in varie feste nel tempio di Gerusalemme. La sua sorpresa aumenterebbe se gli dicessimo che quello che noi stiamo celebrando solennemente questa sera è Eucaristia, ma non lo è di meno quella celebrata in una cappellina da parte di un sacerdote con uno o due fedeli e neppure quella che tanti sacerdoti e vescovi perseguitati hanno celebrato e, in qualche parte del mondo ancora oggi celebrano, clandestinamente (ho letto recentemente di un vescovo vietnamita, poi diventato cardinale e certamente santo, tenuto in carcere per 13 anni, di cui 9 in isolamento, che celebrava la Santa Messa sul palmo della sua mano, con tre gocce di vino ed una goccia d’acqua e conservava qualche frammento di pane consacrato nella carta delle sigarette).

Lo stupore del nostro amico sarebbe certamente al massimo qualora gli facessimo notare che uno dei quattro testi fondamentali del cristianesimo – i Vangeli – non racconta neppure dell’Eucaristia, ma si sofferma a descrivere un gesto banale, che allora, quando non si usavano le scarpe, gli schiavi compivano nei confronti del loro padrone e dei suoi invitati, cioè la lavanda dei piedi. Si tratta del Vangelo di Giovanni, di cui abbiamo ascoltato poco fa il racconto. A questo punto potremmo creare ancora più problemi al nostro interlocutore spiegandogli che l’Eucaristia è certo il sacrificio della Chiesa, ma non lo è come uno dei sacrifici che molte religioni rivolgono alla divinità. Lo è, infatti, solo in quanto ci mette in comunione con il sacrificio di Cristo sulla croce. Lo dice bene san Paolo a conclusione della seconda lettura: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga». La Santa Messa quindi non è un altro sacrificio rispetto al dono di sé che Gesù ha fatto sulla croce, ma ci mette in comunione con Lui. Dovremmo spiegare al nostro amico che i cristiani, ricevendo l’ostia consacrata, non fanno semplicemente comunione con Gesù, ma con Gesù che dona la sua vita per imparare a loro volta a donarla. Donarla non necessariamente facendo grandi cose, ma amando le persone nelle realtà semplici e quotidiane della vita. “Capisci – potremmo qui aggiungere – come il Vangelo di Giovanni, che riporta il racconto della lavanda dei piedi al posto del racconto dell’Eucaristia, non ha commesso un errore o una distrazione, ma ha solo voluto spiegare con l’esempio di Gesù il significato dell’Eucaristia: dare la vita servendo gli altri”.

Non so se il nostro studioso o semplicemente persona curiosa di cose religiose, sarebbe ora soddisfatto. Penso che a noi basterebbe che intuisse la bellezza e l’originalità di ciò che di più caro esiste per i cristiani: l’Eucaristia, il sacramento del sacrificio di Cristo, che ci fa entrare in comunione con Lui che dona la sua vita, ci rende per questo una cosa sola, capaci di amare a nostra volta servendo gli altri.

Come spesso succede, quando si parla agli altri, in realtà si parla anche a noi stessi. Immagino di non aver detto niente di nuovo per voi che siete qui e venite regolarmente a Messa. Ma ci fa bene, per così dire, ripassare ciò che per noi è importante. Il giovedì santo ce ne offre un’occasione preziosa. In ogni celebrazione eucaristica dovremmo ricordarci di tutto quanto abbiamo detto e soprattutto dovremmo ricordarci di viverlo. Anche il gesto che compirò adesso a nome di tutti, quello della lavanda dei piedi, non è semplicemente una specie di rappresentazione, più o meno pittoresca, di quello che Gesù ha compiuto. E’ invece il segno di un’attenzione che, proprio a partire dall’Eucaristia, tutta la nostra Chiesa vuole avere verso chi è in difficoltà per il lavoro.

Un’attenzione non solo del vescovo – che può fare poco, se non portare qualche parola di vicinanza e di solidarietà come ho cercato di fare in questi giorni girando in alcune ditte a vostro nome -, ma un’attenzione il più possibile concreta dell’intera comunità cristiana. L’essere attenti alle persone – penso lo abbiamo compreso ancora meglio questa sera – non è un’aggiunta alla celebrazione del sacrificio di Cristo, ma ne è un’attuazione, un accogliere il suo comando: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».

† Vescovo Carlo