Lavorare insieme per mostrare ai migranti il volto di Dio
Omelia nella festa della Pace dell'Ac
25-01-2020

Domenica 26 gennaio 2020, l’arcivescovo Carlo ha partecipato alla “Festa della pace” promossa dall’Ac diocesana ed ha celebrato la messa nella chiesa di San Nicolò a Monfalcone. Di seguito pubblichiamo la sua omelia.

Il Vangelo ricorda l’inizio della predicazione di Gesù, di quella che viene chiamata la sua vita pubblica. Un inizio che comporta un lasciare la casa e l’ambiente dove Gesù è cresciuto: Nazaret.

Ma dove sceglie di andare? Qual è quello che potremmo definire il suo “campo-base”, il punto di riferimento da cui partire e ritornare nella sua missione? Cafarnao.

Perché Cafarnao? Forse perché si trova nella stessa regione di Nazaret, la Galilea, e perché non troppo lontano da Nazaret (poco meno di 50 km, una decina di ore di cammino…)? Quasi che Gesù non volesse uscire dal suo contesto familiare e volesse restare vicino a casa…

Ovviamente è una motivazione che non tiene. Gesù è molto libero nei confronti del suo villaggio, dei suoi, persino rispetto alla madre: non per niente chiede ai suoi discepoli di lasciare tutto e tutti per seguirlo e sarebbe strano che non lo facesse Lui.

Ma allora perché Cafarnao e non Gerusalemme o Betlemme (dove c’erano le origini della sua famiglia) o perché non il deserto dove Giovanni Battista aveva predicato con un certo successo?

Gesù sceglie Cafarnao, perché è un luogo di transito – ci passava la via dei commerci (e talvolta degli eserciti…) che provenendo dal mare rientrava all’interno per andare verso la Siria e la Mesopotania -, ma anche perché era un luogo di confine, di incrocio tra persone, popoli e lingue diverse.

Lo affermava già il profeta – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura – che parlava della terra di Zàbulon e della terra di Nèftali e della via del mare, oltre il Giordano, come della Galilea delle genti. E il Vangelo di Marco riprende la citazione del profeta.

Gesù sa molto bene che è chiamato a svolgere la sua missione all’interno di Israele – lo afferma con chiarezza nel Vangelo, per esempio quando la donna siro-fenicia insiste per avere un miracolo: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24) – eppure va abitare sul confine e qualche volta lo travalica.

Lui è il Salvatore di Israele, ma è insieme inevitabilmente luce anche per i pagani, per quel popolo che «abitava nelle tenebre».

E dopo la sua morte e risurrezione invierà i suoi discepoli in tutto il mondo, per essere luce, per annunziare a tutte le donne e a tutti gli uomini che c’è una salvezza, che c’è una misericordia, che c’è un amore di un Padre per tutti, che tutti siamo fratelli e sorelle in Lui, Gesù, perché animati dallo stesso Spirito.

Nei duemila anni della sua storia, la Chiesa ha cercato di vivere questa missione affidatagli da Gesù, con alterne vicende: qualche volta dando testimonianza di unità e di concordia, altre volte scandalizzando con le sue divisioni. Ancora: talvolta impegnandosi in una missione universale e cercando di annunciare il Vangelo a tutti, ma con attenzione alla cultura, al modo di pensare di ogni popolo; altre volte chiudendosi in se stessa o cercando di imporre – qualche volta persino con la spada… – il proprio modo di intendere il Vangelo.

Dobbiamo essere consapevoli delle vicende del passato, se non altro per non ripetere gli stessi errori: l’ottavario di preghiera e riflessione per l’unità dei cristiani che si chiude oggi, è anche un’occasione per ricordarci che i cristiani spesso si sono divisi e combattuti e che tuttora sono divisi.

In fondo le divisioni della prima Chiesa di Corinto, di cui parla la seconda lettura, erano ben poca cosa rispetto a quello che sarebbe successo nei secoli seguenti, ma erano anche l’inizio di un dividersi, di uno schierarsi con riferimento ai diversi apostoli, invece che restare uniti in e con Gesù.

Ma oltre a essere consapevoli del passato – e noi qui sul confine abbiamo tuttora un passato recente che pesa ancora… – dobbiamo domandarci che cosa chiede il Signore a noi, in questo preciso momento storico: come vivere il Vangelo della salvezza, dell’unità e della pace oggi? Come testimoniarlo? Come collaborare insieme a chi, con diverse responsabilità, si impegna o si dovrebbe impegnare per la pace, per la comprensione tra le persone, per la convivenza tra diverse lingue e culture, per l’accoglienza di chi è straniero e in difficoltà?

Sono domande non facili, che esigono riflessione, confronto, onestà, disponibilità, generosità e saggezza. E anche azione concreta. E sono contento che l’Azione Cattolica diocesana si faccia promotrice di questo accogliendo quanto papa Francesco continuamente ci ricorda non solo parlando in generale del tema della pace, ma scendendo nella concretezza dell’oggi.

Anche il suo messaggio di quest’anno, che ha come tema: «La pace come cammino di speranza: dialogo, riconciliazione e conversione ecologica» offre delle indicazioni molto puntuali.

Vorrei soffermarmi su due aspetti. Il primo è la “conversione ecologica” di cui parla papa Francesco. Il rischio è che vada intesa come un invito ad adeguarsi alle problematiche su cui oggi l’opinione pubblica ha una certa sensibilità o persino di indulgere a una moda passeggera, magari per cercare facili consensi. Non è così. E vi indico una semplice prova. L’ho ricordato già in più occasioni, da ultimo l’altro giorno a un incontro tra vescovi: l’enciclica di papa Francesco dedicata alla “cura della casa comune” (questo è il sottotitolo), parla per ben 44 volte dei poveri e fa continuamente riferimento all’ecologia integrale che comprende tutte le dimensioni umane e sociali, dalla dignità della persona, al lavoro, alla salute, al superamento della povertà, alla pace, ecc.

Capite che non si tratta solo di fare un po’ di raccolta differenziata o di limitare l’uso della plastica…

Il secondo tema, estremamente attuale, è quello delle migrazioni. Papa Francesco insiste molto su questo, non perché si tratta di una questione di moda (anzi in questo caso, qualcuno consiglierebbe al papa e ai vescovi di non parlarne per non perdere il favore dell’opinione pubblica…), ma una questione di persone.

Vorrei ricordare qui la persona morta qualche giorno fa nel CPR di Gradisca in circostanze che la magistratura sta verificando. Vi invito a pregare per lui e per i suoi familiari. Si chiamava Vakhtang Enukidze, un nome per noi difficile da pronunziare ma è giusto citarlo, perché quell’uomo non è un numero né genericamente un “migrante” o “straniero”, ma una persona con nome e cognome.

Non ho ovviamente elementi per entrare nel merito dell’episodio, solo mi domando se nella nostra nazione che non vuole rinunciare ai principi costituzionali, ispirati a una visione cristiana e direi umana della dignità della persona, non si possano trovare leggi, disposizioni e modalità concrete per regolare il fenomeno dell’immigrazione in maniera, insieme giusta, generosa, prudente e rispettosa dei diritti e dei doveri di tutti.

In ogni caso, come affermava papa Francesco mercoledì scorso: «Noi, come cristiani, dobbiamo lavorare insieme per mostrare ai migranti l’amore di Dio rivelato da Gesù Cristo. Possiamo e dobbiamo testimoniare che non ci sono soltanto l’ostilità e l’indifferenza, ma che ogni persona è preziosa per Dio e amata da Lui».

+ vescovo Carlo