«Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!». Una conclusione sorprendente, questa, delle istruzioni molto dettagliate che il libro dell’esodo dà per la cena pasquale: «Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto…» eccetera.
Ma come? Si precisa fin nei particolari il banchetto e poi si dice che è una specie di buffet o, forse, qualcosa di simile a uno spuntino veloce al bar di un autogrill, quando ci si ferma per una breve sosta durante un viaggio. Qualcosa da consumare velocemente in piedi e per di più usando una mano sola, perché nell’altra c’è un bastone. E’ questa la grande cena pasquale?
Ancora più sorprendente il pasto dei cristiani di Corinto. Non c’è carne di agnello, non ci sono erbe amare di contorno, ma soltanto del pane e del vino. Si mangia un po’ di pane e si beve un po’ di vino, sapendo che sono il Corpo e il Sangue del Signore, annunciando una morte e attendendo una venuta: «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga». Un banchetto ridotto ai minimi termini e con una tensione tra una morte e un ritorno.
Nel Vangelo il banchetto addirittura sparisce. Si dice che si è durante una cena, ma la persona che è a capotavola, il capo riconosciuto del gruppo, non sta lì a mangiare, ma si alza da tavola e compie un gesto riservato agli schiavi e non certo a un commensale ragguardevole. Il Vangelo non lascia dubbi e descrive minutamente la scena: «si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto».
Una descrizione molto dettagliata, ma anche molto dinamica, basta vedere i verbi di azione utilizzati: alzarsi, deporre, prendere, cingersi, versare, lavare, asciugare. Non viene però descritto il banchetto, bensì un passaggio marginale preparatorio a una cena. Sarebbe come se, dovendo scrivere di una serata attorno alla tavola, si perdesse tempo per raccontare il lavarsi le mani: dove si va, che sapone si usa, se c’è un asciugamano o se si utilizza per asciugarsi un getto di aria calda… Particolari banali e ininfluenti sulla riunione conviviale.
Uno spuntino veloce in piedi, uno strano pranzo a base di un po’ di pane e di un po’ di vino con la pretesa di raccontare di una morte e indicare un’attesa, un indugiare su un particolare marginale, come il lavare i piedi, dimenticandosi del banchetto… Una strana presentazione per l’Eucaristia che celebriamo tutte le domeniche…
Eppure le tre letture ne colgono profondamente il significato. Ci dicono che si tratta della celebrazione di chi è in cammino, di chi, salvato grazie alla croce e alla risurrezione di Cristo nel cui mistero è stato immerso attraverso il Battesimo, vive l’attesa del Regno non fermo o seduto, ma annunciandolo agli altri, impegnandosi a testimoniarlo. Una testimonianza che diventa un concreto servizio al prossimo, un servizio umile e autentico come quello svolto dal Maestro e Signore.
Ogni domenica veniamo a Messa per celebrare e ricordare tutto questo. Se avessimo maggiormente questa consapevolezza, allora anche le nostre celebrazioni sarebbero diverse: si coglierebbe in esse non una certa assuefazione che può portare a una stanca ripetitività, ma una forte tensione. Perché l’Eucaristia ci fa entrare in comunione con il dono di se stesso che Gesù ha fatto sulla croce, ci spinge ad assumere la sua stessa logica d’amore nella concretezza della vita di ogni giorno che si manifesta nel servizio agli altri, ci ricorda che qui siamo pellegrini verso la meta dove lì sì ci sarà il banchetto definitivo, perché finalmente saremo arrivati.
Lì, infatti, nel compimento del Regno di Dio, non ci sarà più l’Eucaristia, non ci sarà più il Corpo e il Sangue di Cristo presenti nel sacramento perché finalmente vedremo il volto del Signore e saremo in comunione piena con Lui.
Sembrerebbe logico pensare che non ci sarà nemmeno più il servire, perché ormai tutti si sarà arrivati, tutti si sarà salvati e i bisogni della vita terrena non esisteranno più. Ma davvero non ci sarà più il servire, il lavare i piedi, il prendersi cura a vicenda?
In una splendida pagina del Vangelo di Luca, Gesù afferma una cosa diversa. Richiamando i suoi discepoli alla vigilanza e all’attesa operosa, rivela anche quello che succederà alla fine: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Lc 12,35-37).
«Si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli»: ma è esattamente quello che Gesù ha compiuto nell’ultima cena. Tutt’altro allora che un gesto occasionale e banale: è stato infatti solo un anticipo di ciò che Gesù farà per noi in paradiso.
E noi lo lasceremo fare e non faremo niente a nostra volta? Certo che lo lasceremo fare, ancora più stupiti di Pietro: «Signore, tu lavi i piedi a me?» ha detto l’apostolo al Signore. E poi ha aggiunto: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Non si è accorto di aver detto: non sarò in paradiso con te, perché in paradiso il Signore ci servirà. E in effetti Gesù gli risponde: «Se non ti laverò, non avrai parte con me», cioè, se non vuoi che ti lavo i piedi non potrai stare in paradiso con me dove continuerò a servirti…
Ma solo il Signore ci servirà o non saremo chiamati piuttosto a imitarlo? Se ci ha chiesto di seguire il suo esempio qui, vuoi che non ci chieda di essere come Lui in paradiso?
Il paradiso sarà allora un grande lavarsi a vicenda i piedi, un servirsi gli uni gli altri per tutta l’eternità. E sarà nella gioia: perché avremo finalmente capito che il servire, l’amare non è un gesto di generosità, un di più da fare, ma la realizzazione di quello che siamo: immagine e somiglianza di un Dio che ama, di un Dio che serve. Per sempre.
† Vescovo Carlo