Non è facile per noi in Italia avere un’idea della lebbra e del suo forte impatto sociale. Per nostra fortuna, i malati del morbo di Hansen sono molto pochi, anche se ne esistono (ci sono ben quattro centri specializzati in giro per la penisola). Ho avuto l’opportunità di visitare un lebbrosario in Brasile ed è stata un’esperienza che mi ha toccato profondamente.
Comunque, sia il brano di Vangelo che la prima lettura, tratta dal libro del Levitico, ci indicano con molta chiarezza che la lebbra è ben più di una malattia fisica. In realtà, se ci pensiamo, tutte le malattie sono più di una questione fisica, perché coinvolgono, in misura diversa, il ruolo di ciascuno nella famiglia, nella società, nella comunità ecclesiale. La malattia è una questione di relazioni tra le persone. Vorrei soffermarmi su questo, senza la pretesa di fare un’analisi dell’impatto psicologico-sociale della malattia, ma richiamando alcuni dati di comune esperienza per poi vedere come tutto ciò ci interpella come comunità cristiana, alla luce della Parola di Dio.
Anzitutto è una constatazione ovvia quella del fatto che una malattia, anche non particolarmente grave, è vissuta diversamente da chi è solo e con scarse relazioni sociali, rispetto a chi ha dei familiari vicini (o persino conviventi) e una rete di amicizie e di conoscenze. Una persona sola, in particolare se anziana e dotata di poche risorse anche economiche, si trova subito in difficoltà quando ha una malattia. Anche i semplici adempimenti legati a una visita, a un ricovero, all’assunzione regolare di medicine, diventano questioni complicate, in cui la persona rischia di smarrirsi e di peggiorare la sua situazione di solitudine e di inadeguatezza nell’affrontare la vita. Quando, per fortuna, la persona malata è inserita in una rete di relazioni, ci sono comunque dei problemi e delle difficoltà. Se la malattia, pure seria, è affrontabile con buone speranze, dura un tempo non eccessivo, non porta con sé particolari sofferenze fisiche, la persona malata può avere – pur con tutte le preoccupazioni del caso… – la consolante sensazione di essere al centro dell’attenzione degli altri e un po’, per così dire, “coccolata” da familiari e amici. Se poi la malattia viene superata ed è possibile riprendere presto il lavoro, gli impegni, gli interessi, tutto si risolve per il meglio.
Ma se la malattia è grave, dura a lungo, si cronicizza o se è orientata inevitabilmente alla morte, le cose cambiano. La persona malata può vedere progressivamente diradate le visite, può sentirsi sempre più sola, può avere la sensazione di essere un peso per i suoi (e magari persino si colpevolizza per questo…), intuisce, anche se fa fatica ad ammetterlo, che le relazioni e gli impegni di prima sono ormai una prospettiva chiusa. Le persone vicine, in particolare i familiari, a loro volta possono vedere la loro vita sconvolta per lungo tempo: nei ritmi quotidiani, negli impegni, nelle relazioni (o anche, banalmente, nella possibilità di prendersi qualche giorno di vacanza) e spesso non per lungo tempo, ma anche in maniera stabile. Pur con tutta la buona volontà e l’affetto, si trovano così in seria difficoltà nel voler garantire attenzione, vicinanza, cura alla persona malata. Ogni malattia, se non è un semplice raffreddore, ha, in un modo più o meno intenso, questi effetti relazionali molto seri. Potremmo a questo punto domandarci: la malattia coinvolge anche la relazione con Dio e con la comunità cristiana? La domanda è retorica, perché la risposta è sì. La malattia mette comunque in questione il rapporto con Dio, sia nel caso in cui il malato abbia una vita cristiana intensa (un fedele che prega e che va in chiesa), sia nel caso che si tratti di una persona più tiepida nei confronti della fede o persino lontana e indifferente.
Le domande che nascono nel cuore sono molte. Per esempio: se Dio esiste, perché la sofferenza, in particolare la mia? Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Perché Dio non mi guarisce? Domande che si intrecciano con altre sul senso del vivere, sul che cosa conta davvero nella vita, sul se vale la pena tirare avanti, ecc. Punti interrogativi che riguardano tutti e che possono avere diverse risposte anche a seconda dei momenti e delle circostanze in cui ci si trova. L’essere credente e praticante non offre risposte pronte. E questo vale per il malato, ma anche per le persone che gli stanno attorno e che si pongono questioni simili. Qualche volta la malattia fa avvicinare alla fede il malato e, spesso, chi gli sta intorno; altre volte avviene esattamente il contrario. Recentemente un sacerdote, cappellano di un reparto oncologico, mi ha raccontato la reazione di una signora molto devota che veniva a trovare il marito in ospedale con attorno al collo una corona del rosario. Quando è morto, disperata, si è strappata la corona, l’ha rotta in mille pezzi e l’ha buttata per terra arrabbiata con Dio.
Che la malattia riguardi la relazione con Dio – anche al di là degli esiti – è una buona cosa. Vuol dire che la malattia c’entra con la vita e che anche Dio c’entra con la vita, la mia vita concreta e non quella che in teoria dovrebbe essere.
Ma Gesù che cosa fa davanti alla malattia? Intanto la prende molto sul serio, anzi potremmo dire che è al centro della sua azione: se dal Vangelo, prescindendo dalla parte relativa alla passione, togliessimo i passi che riguardano i malati, resterebbe ben poco. Gesù poi guarisce per far vedere che la salvezza portata da Lui è una salvezza che riguarda tutta la persona e non solo l’anima o lo spirito. L’uomo intero viene salvato da Gesù e non solo un pezzo. Gesù ci libera dal peccato e da tutte le rotture che il peccato ha provocato, compresa la morte e la sofferenza. Gesù, però, non è un semplice guaritore. I suoi miracoli non sono dei prodigi, ma dei “segni” che vogliono portare alla fede, cioè alla relazione decisiva con Lui che sola può dare senso – “salvezza” – alla vita. Essere guariti da una malattia, senza però ottenere un senso alla vita, fa’ guadagnare solo qualche tempo, ma non risponde all’anelito di “vita per sempre” che abbiamo nel cuore: primo o poi inevitabilmente ci si riammalerà o comunque certamente si morirà… Gesù non vuole guarirci, ma salvarci: ed è tutta un’altra cosa.
Vorrei concludere accennando alla relazione tra una persona e la comunità cristiana in occasione della malattia. Una relazione che la malattia mette inevitabilmente in crisi. Chi è malato spesso non può andare in chiesa, magari deve interrompere – se è un cristiano ben inserito – i propri impegni nella comunità. Ha talvolta la tentazione di chiudersi in se stesso o, più semplicemente, ha paura di disturbare se chiede la Comunione con frequenza o la Confessione.
La malattia poi di chi è poco praticante o lontano, resta spesso sconosciuta alla parrocchia, perché nessuno pensa di avvisare il parroco o qualcuno vicino alla parrocchia, se non al momento della morte. A sua volta la comunità cristiana – a cominciare dai sacerdoti, dai diaconi, dalle religiose e dalle persone più coinvolte – rischia di non dare sufficiente attenzione agli ammalati: si sa, gli impegni sono tanti, come si fa a seguire tutto…
Ringraziando il Signore, non sempre è così, anzi ci sono comunità, realtà associative e persone molto attente verso i malati.
Una comunità cristiana, in ogni caso, se vuole essere con il suo Signore e scegliere come priorità quello che per Lui è importante, non può non avere un’attenzione discreta, affettuosa, concreta a chi è malato, portando a tutti vicinanza e sostegno. Aprendo così, attraverso la carità – una carità fattiva… – una prospettiva di speranza e disponendo così il malato ad accogliere il dono della fede. Fede, speranza, carità: virtù cristiane decisive anche per chi è malato e per chi se ne prende cura.
† Vescovo Carlo