L’altra sera, parlando a un incontro, ho notato un certo sconcerto nei miei ascoltatori quando ho accennato a una visione del paradiso, del Regno di Dio, che vede in esso la presenza del mondo e di tutte le realtà belle che lo compongono e di cui qui in terra facciamo esperienza.
Dicevo, tra l’altro, che in paradiso ci sarà anche del buon vino, visto che lo stesso Gesù ha affermato nell’ultima cena che avrebbe bevuto con noi il vino nuovo nel Regno di Dio. Non so se sarà l’ottimo vino delle nostre parti…
Non sono fantasie: la Parola di Dio parla chiaramente di «nuovi cieli e una nuova terra» (2Pt 3, 13; cf Ap 21, 1) e afferma che «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto» nell’attesa del compimento del Regno di Dio (cf Rm 8, 20-22).
La perplessità che ho notato mi porta oggi a proporvi di riflettere proprio sul paradiso, partendo dalle due ricorrenze che caratterizzano l’inizio del mese di novembre: la solennità di tutti i santi e la commemorazione dei fedeli defunti, celebrazioni che spontaneamente ci spingono a guardare oltre la nostra esperienza terrena per domandarci che cosa c’è dopo la morte, quale sia il futuro che ci attende, che cosa dobbiamo credere e sperare. Detto con altre parole, in questo anno della fede, penso sia utile riflettere su un dato del credere che spesso trascuriamo e che il nostro credo di Aquileia sintetizza in modo molto significativo con l’espressione: «credo la risurrezione di questa carne».
È opportuno pertanto partire con la nostra riflessione da una domanda: che cosa vorrei per me nell’aldilà o, se volete, che cosa vorrei che restasse di me al di là della morte?
Mi sembra si possa rispondere semplicemente così: vorrei che io, con tutto ciò che sono, esistessi per sempre e vorrei essere felice. Se ci pensate, questo è, ridotto all’essenziale, ciò che ognuno di noi desidera per un futuro al di là della morte.
Anzitutto vorrei esserci ancora “io”: una persona precisa, ben individuata, potremmo dire con nome e cognome e con un volto riconoscibile. Non mi basta una sopravvivenza indistinta, confuso in una specie di massa informe, assorbito dalla natura o da una generica realtà divina.
Vorrei poi esserci con tutto ciò che compone la mia persona, quindi anzitutto non con solo l’anima o il principio spirituale, ma con tutta la mia realtà anche fisica. L’affermazione del credo aquileiese è, a questo proposito, molto chiara: crediamo, e quindi speriamo, «la risurrezione di questa carne». Notate la concretezza: si parla di “carne” per indicare la dimensione fisica, biologica della persona e si precisa che si tratta di “questa carne”. Quell’aggettivo – “questa” – afferma due cose: che crediamo la risurrezione non di un corpo spiritualizzato a tal punto da non essere più individuabile come un corpo umano, simile a quello di cui facciamo esperienza qui sulla terra, e, poi, che ciascuno di noi aspetta la risurrezione del suo proprio corpo, con le caratteristiche fisiche che lo rendono riconoscibile e distinguibile rispetto a quello degli altri.
La persona però non è solo corpo, ma è costituita anche e soprattutto dalle relazioni. Una prima relazione, assolutamente fondamentale, è quella con gli altri: senza di essa non esistiamo. Ci sono infatti una serie di rapporti fondamentali per ciascuno di noi. Anzitutto quelli familiari. Ogni uomo e ogni donna, per esempio, è sicuramente figlio o figlia: nessuno esiste senza genitori. Ma poi ci sono le altre relazioni di fraternità, di coniugalità, di genitorialità, di parentela.
Ci sono poi altri rapporti che costituiscono la mia persona, in particolare quelli ecclesiali (sono parte della Chiesa e specificamente di una comunità cristiana), quelli sociali (ciascuno di noi è sé stesso perché parla una lingua precisa, è parte di una cultura, di una storia, di una realtà socialmente strutturata, ecc.) e quelli amicali.
Si può essere se stessi senza queste relazioni? Nel credo che tra poco reciteremo, tutto ciò è sintetizzato in un’altra importante affermazione di fede: «credo la comunione dei santi», perché il nome che la fede cristiana dà alla trama delle relazioni umane è “comunione”. La prima lettura di oggi ci dice che questa comunione sarà estesa a «una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua».
Un’altra relazione che mi costituisce come persona è il rapporto con la natura, con la creazione così come modificata dal lavoro dell’uomo. È possibile avere un corpo senza un terreno su cui appoggiare i piedi? Al di là della battuta, fa parte della fede cristiana affermare che ci saranno – come già si ricordava – cieli e terra nuovi e che la creazione, finalmente redenta e trasformata, sarà la dimora dei figli di Dio. Ma sempre la Parola di Dio ci parla anche di ciò che è il tipico risultato dell’azione trasformatrice dell’uomo, cioè della città: il compimento del Regno di Dio sarà costituto infatti, secondo l’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, dalla “città santa” (cf Ap 21-22).
Come vedete, tutto quanto finora abbiamo detto evidenzia una continuità tra la nostra esperienza attuale e l’aldilà. Certo non dobbiamo dimenticare che c’è di mezzo la morte con tutta la sua tragicità e la carica dirompente di rottura parziale di legami e di relazioni. Però il dopo morte – stando alla fede cristiana – sarà qualcosa certamente di novità, ma insieme di continuità con l’esperienza di oggi.
C’è un ultimo elemento, a cui prima si è accennato, sul quale riflettere a proposito del nostro destino nell’aldilà. Va bene attenderci tutto quanto finora descritto, ma occorre aggiungere che lo speriamo come realtà di felicità. Sopravvivere dopo la morte senza la felicità sarebbe la peggiore condanna per una persona; sarebbe meglio allora finire per sempre, piuttosto che essere infelici per l’eternità.
Ma quale è la felicità che ci attende? La Parola di Dio, utilizza il termine “felicità”, ma preferisce parlare di “beatitudine”: l’uomo felice è l’uomo beato. Questo vale anche per l’aldilà: non per niente parliamo dei beati, pensando a chi è in paradiso, o di beatitudine eterna.
Il Vangelo di oggi ha come tema la “beatitudine”, è il Vangelo delle beatitudini con cui si inizia il cosiddetto discorso della montagna nel capitolo quinto del Vangelo secondo Matteo. Se però ascoltiamo questo brano evangelico e lo confrontiamo con la nostra immagine di felicità non possiamo non restare sconcertati: sarebbero felici i poveri, quelli che sono nel pianto, i miti, i perseguitati, ecc.? E il nostro destino futuro sarebbe questo?
Per comprendere il Vangelo delle beatitudini e il suo significato per la nostra fede nell’aldilà occorre però avere presenti due considerazioni. Anzitutto il fatto che le parole di Gesù mettono in continuità l’adesso con il futuro, come una realtà dinamica. Già ora, ad esempio, c’è la beatitudine dei poveri in spirito perché di essi è e sarà il Regno dei cieli; già ora c’è la beatitudine, la felicità di chi è nel pianto perché è certo che sarà consolato; già ora sono beati i misericordiosi, perché è certo che troveranno misericordia e così via per tutte le altre beatitudini. Esiste quindi una continuità tra la situazione attuale, descritta in termini molto realistici (perché a volte è di povertà, pianto, persecuzione, ecc.) ed impegnativi (perché si è chiamati ad avere fame e sete di giustizia, a essere operatori di pace, ecc.) e quello che sarà, ma in un certo senso è già, il nostro destino futuro.
Una seconda considerazione, che ci può aiutare a comprendere il Vangelo delle beatitudini, è il fatto che Gesù, più che elencare delle categorie di persone, sta in realtà tratteggiando il proprio ritratto. È Lui il povero, il mite, il misericordioso, l’affamato di giustizia, l’operatore di pace, il perseguitato, ecc. Ciò significa che la vera beatitudine, l’autentica felicità è essere come Gesù, essere come Lui, il Figlio. Lo dice anche la seconda lettura di oggi, ricordandoci che già ora siamo figli di Dio e che «noi saremo simili a lui». Non per niente i santi e le sante – quelli riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa ma anche quelli che compongono la moltitudine immensa di cui parla la prima lettura e che oggi ricordiamo in modo speciale – possono essere tutti definiti come imitatori di Gesù al di là delle loro differenze.
Guardando a loro, già presso il Signore, possiamo allora comprendere ciò che ci attende, ciò che dobbiamo credere e sperare. Guardando a loro possiamo anche capire come vivere per essere già beati oggi e avere la gioia della beatitudine piena nell’aldilà. Per questo chiediamo oggi la loro intercessione.
† Vescovo Carlo