Ci troviamo qui, in una fredda mattina di autunno, in questo santuario di Sveta Gora/Montesanto nel giorno anniversario della morte di un grande arcivescovo di Gorizia: mons. Francesco Borgia Sedej. Non si tratta di un anniversario di quelli che numericamente giustificano una particolare celebrazione: cinquanta, sessanta, … cento anni. Mons. Sedej è morto infatti nel 1931, quindi 83 anni fa. Abbiamo voluto però questa celebrazione non per commemorare mons. Sedej in quanto grande personalità della nostra terra in ambito religioso, civile e culturale e neppure primariamente per pregare in suo suffragio, ma per ricordare il suo essere stato pastore della Chiesa goriziana durante l’immane tragedia della prima guerra mondiale.
Una tragedia che ha segnato e ferito profondamente queste regioni fin dal 1914, esattamente cento anni fa, portando i giovani di Gorizia e delle altre città e paesi del Litorale a combattere in terre lontane. A partire dal maggio del 1915 fino al 1918 e, in particolare, nei due anni tra il 1915 e il 1917, queste valli e questi monti – compreso questo Montesanto – hanno visto la strage di decine di migliaia di soldati, mandati all’assalto gli uni contro gli altri per conquistare poche decine di metri di terreno; la sofferenza di intere popolazioni profughe in paesi sconosciuti; la distruzione di case, di chiese e di edifici pubblici; il disorientamento spirituale di tante comunità.
In quegli anni la vita delle persone, in primo luogo dei soldati, era realmente appesa a un filo, totalmente esposta nella sua fragilità alla continua insidia della morte tragica. Non c’era certo bisogno dell’esortazione del Vangelo odierno a essere pronti alla improvvisa venuta del Signore, perché la morte era continuamente in agguato.
Con il termine delle ostilità, la nostra terra ha visto un nuovo assetto statuale e la messa in questione di precedenti equilibri e relazioni tra le diverse nazionalità, culture e lingue, che la rendevano un territorio unico e speciale, anche sotto il profilo religioso. Messa in questione diventata sempre più grave con l’avvento del fascismo, l’accentuazione dei nazionalismi contrapposti, l’imporsi di ideologie anti umane prima ancora che anti cristiane: tutte realtà che sarebbero sfociate nella ancora più grande tragedia della seconda guerra mondiale con le gravi e irreparabili ferite del dopo guerra, ferite che dopo decenni stentano a rimarginarsi sia pure in un contesto finalmente di pace e di collaborazione che ha visto – almeno all’esterno – il superamento dei confini.
Negli anni della guerra e del primo dopoguerra, Mons. Sedej, con la grazia del Signore e con il sostegno e la collaborazione di molti sacerdoti e di gran parte dei fedeli della diocesi, ha saputo essere realmente pastore di questa Chiesa. Non bisogna chiedere a lui l’attuale sensibilità sui temi della pace, né la condivisione ante litteram del magistero conciliare e postconciliare circa la pace. Sarebbe un pretesa antistorica. L’arcivescovo Sedej è stato uomo del suo tempo avendo a disposizione, per interpretare gli avvenimenti di quegli anni, l’elaborazione teologica di allora e venendo inevitabilmente condizionato dall’essere fedele a una delle parti in conflitto, cosa del resto ovvia per tutti i vescovi di quel tempo appartenenti a qualunque stato e nazione.
Mons. Sedej si è, invece, dimostrato pienamente pastore secondo il Vangelo per la cura che ha assicurato ai propri fedeli nel tempo della guerra, per il successivo impegno nella ricostruzione materiale e spirituale, per lo sforzo di assicurare i diritti di tutti e di garantire un clima di pacifica convivenza nelle mutate condizioni politiche-istituzionali.
Di questo l’attuale Arcidiocesi di Gorizia con la vicina Diocesi di Koper devono essergli riconoscenti (e ringrazio mons. Jurij Bizjak di avere accolto con grande disponibilità l’invito a partecipare a questa celebrazione, unitamente a mons. Dino De Antoni). Con mons. Sedej vogliamo oggi ricordare anche tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i fedeli laici, uomini e donne, delle nostre parrocchie che negli anni della prima guerra mondiale sono passati dal “crogiuolo” di una grave prova senza perdere però la fede, conservando la speranza in un futuro migliore e vivendo un’operosa carità per lenire le sofferenze di moltissimi e per operare concretamente per la pace e la riconciliazione. Come ci ha ricordato la prima lettura, «le loro anime sono nelle mani di Dio», «il Signore regnerà per sempre su di loro» e sicuramente vivono «presso di lui nell’amore». Vogliamo però pregare indistintamente anche per tutti coloro che cento anni fa hanno vissuto e patito negli anni della guerra e per tutti coloro, in particolare, che in quel periodo sono morti tragicamente. Il Signore, nella sua grande misericordia, abbia pietà di tutti.
Ma il ricordo di quegli anni deve diventare per noi preghiera e impegno per l’oggi. La pace non è mai un dono scontato, non va mai data per presupposto. Non è vero che se non si fa niente, rimane lo status quo. Se non si lavora continuamente per la pace, qualcun altro lavora per la guerra. Se i rapporti di conoscenza, rispetto e collaborazione non vengono continuamente coltivati, continuamente nutriti – per noi cristiani – alla scuola della Parola di Dio e dei sacramenti, inevitabilmente si deteriorano. Se non c’è un continua vigilanza, le forze della divisione, dell’odio, della contrapposizione prevalgono molto facilmente e in fretta. La storia dimostra che se non c’è una continua azione per la pace, è sufficiente l’intreccio – facile e immediato – tra interessi, ideologie, schieramenti, manipolazioni dell’opinione pubblica, ecc. per far scoppiare nuove violenze, nuove guerre, nuove e immani tragedie.
Papa Francesco, che ci esorta continuamente alla speranza, ha ricordato più volte – anche nella sua recente visita a Redipuglia – che siamo in presenza già ora di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Il fatto che non coinvolga le nostre terre non significa che non ci debba preoccupare. Preghiamo allora e lavoriamo per la pace. Il ricordo di quanto successo cento anni fa ci spinga oggi, ciascuno di noi, ad assumere le proprie gravi responsabilità verso la pace. Il Signore ci doni la sua pace. Naj nam Gospod podeli svoj mir.
† Carlo R. M. Redaelli