«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» [gridato].Scusatemi se mi sono messo a gridare. Ma il libro dell’Apocalisse dice proprio così: «gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”». Ed è un grido fortissimo perché proviene da «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua».
Probabilmente la cosa vi sorprende. Immaginavate il paradiso come un luogo tranquillo con una soave musica di sottofondo proveniente dai cori di angeli musicanti e i santi e le sante che passeggiano presi da devote conversazioni… E invece ci viene presentata una folla immensa che urla peggio che allo stadio o a un concerto rock. E tutti – precisa l’Apocalisse – stando «in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani». Immaginate la scena grandiosa: una folla enorme di gente vestita di bianco che agita rami di palma e grida la gioia della salvezza davanti al trono di Dio e all’Agnello.
Ma perché quel grido? Penso lo possiamo capire se ci rifacciamo a un altro grido. Al grido che esplode istintivo dalla bocca di ciascuno quando c’è una situazione di pericolo imminente. Magari un improvviso vuoto d’aria in un viaggio aereo, la brusca frenata che tenta di evitare un incidente, il rischio di una caduta, una persona che vediamo in pericolo, qualcuno che ci minaccia…
Pericolo, rischio, minaccia, incidente… tutte situazioni che mettono in forse l’incolumità fisica, la salute, la stessa vita. E allora si grida. Ma c’è anche il grido di chi soffre un dolore non controllabile, magari cronico. E ci sono poi – la cosa può apparire paradossale – delle grida silenziose: lacrime versate di nascosto per la malattia propria o altrui, sofferenze per delusioni e tradimenti, angosce che attanagliano il cuore per i più svariati motivi: la salute compromessa, gravi problemi di famiglia, un figlio che non fa giudizio, e così via. Ma ci sono anche rimpianti per occasioni perdute e rimorsi per il bene non fatto e per il male compiuto, male che alla fine – che ci piaccia o no – si chiama peccato. Grida silenziose, ma autentiche, che spesso conosciamo solo noi.
Sono lacrime e grida che chiedono comunque un soccorso, sia quando si urla “aiuto”, sia quando quell’invocazione resta soffocata in gola. Aiuto perché da soli non ce la facciamo. Spesso ci dispiace riconoscerlo, ma è così. Anche persone famose, ricche, potenti, forti, spesso alla fine chiamano o gridano “mamma”, come tutti. Abbiamo bisogno di essere salvati. Questo è il dato. Invece vorremmo non aver necessità di aiuto, di salvezza, di perdono, di misericordia. E per questo talvolta oggi, piuttosto di riconoscere questo bisogno, ci si autoconvince che la vita è così e occorre rassegnarsi al suo non senso: si vive e poi si muore ed è finita.
Ma il rifiuto di essere salvati o anche solo l’idea che sarebbe meglio non aver bisogno di essere salvati, perché l’ideale sarebbe riuscire a cavarcela da soli, è qualcosa di giusto? E se provassimo a tradurre la necessità di essere salvati con la necessità di essere amati come figli?
Sì, perché noi siamo figli. Lo afferma con chiarezza la seconda lettura: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente». E per dei figli l’essere amati da un Padre non è un’offesa, non è una limitazione alla propria dignità o libertà, ma è la realizzazione di se stessi. E per dei figli l’essere aiutati quando si è in difficoltà e chiedere aiuto non è una cosa sbagliata, ma è qualcosa di spontaneo. Caso mai – ed è spesso una tragica esperienza umana – non avere nessuno che ti ama, non avere nessuno che pensa a te, essere abbandonati, è il vero guaio.
La salvezza allora non è che l’amore di Dio, l’amore tenero di un Padre che diventa, a fronte del nostro peccato, perdono, misericordia, riconciliazione. Ma se anche l’uomo non avesse peccato fin dagli inizi, avrebbe avuto comunque bisogno di amore. Perché anche Dio ha bisogno di amore: Lui è amore, Lui è comunione. E noi siamo chiamati a entrare in quella comunione, d’amore che c’è tra Padre, Figlio e Spirito Santo, “noi” e non solo i singoli “io” perché la nostra comunione con Dio è una comunione di figli e quindi tra di noi è una comunione di fratelli.
Ma se è ovvio che siamo figli, che siamo amati da Dio, perché il grido dei salvati? Perché vedono la salvezza come una novità? La risposta è semplice: perché il male, il peccato, la sofferenza, il non senso sono così forti nel mondo e nella nostra vita, sono così evidenti, che è facile perdere la consapevolezza di essere figli amati. Sì, Gesù nel Vangelo ha un bel affermare che i poveri, quelli che piangono, i miti, i perseguitati sono beati. Ma a noi risulta evidente il contrario.
E questo risultava anche ai santi e alle sante, che non erano uomini e donne fuori dal mondo. Anzi spesso loro stessi hanno provato povertà, pianto, persecuzioni, sofferenze. E anche loro hannosperimentato dentro di sé fragilità, debolezze, oscurità e persino peccati. Però hanno creduto. Attraverso la fede in Gesù hanno capito che c’era una speranza, che c’era una salvezza, che c’era un amore. Un amore concreto perché Gesù ci ha amati fino a donare la sua vita per noi. La moltitudine dei salvati che grida la salvezza – dice la prima lettura – «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». È il sangue di Cristo, sparso sulla croce, ciò che ci salva e ci purifica.
Festa dei santi, oggi. Festa dei salvati, festa degli amati, festa dei figli. Festa anche nostra? Di noi che ancora siamo in cammino, che ancora spesso siamo provati dalla sofferenza, insidiati dal dubbio, portati allo scoraggiamento, presi dalla paura e dall’angoscia?
Sì, festa anche nostra, se nella fede riconosciamo che Colui che ci può salvare, come afferma la lettera agli Ebrei, non è un Dio lontano, ma Colui che «è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (4,15). E per questo – è sempre la lettera agli Ebrei che lo dice – «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (2,18).
Oggi è quindi la nostra festa. Dobbiamo viverla nella fede di Colui che ci salva, viverla nella speranza di essere un giorno anche noi in mezzo ai santi che gridano la loro salvezza, viverla certi dell’amore di un Padre che ci ha voluto figli e ci vuole rendere simili a Lui, attraverso il sangue di Cristo e il dono dello Spirito.
Buona festa.
+ vescovo Carlo