Essere fratello: responsabili verso la pace
La celebrazione di suffragio della Chiesa goriziana per tutti i suoi caduti nella prima guerra mondiale nella cattedrale di Gorizia
08-11-2014

Sabato 8 novembre, l’arcivescovo mons. Carlo ha presieduto in cattedrale un rito di suffragio per i caduti che la Chiesa goriziana ha dovuto piangere durante il primo conflitto mondiale. Alla liturgia hanno presenziato le massime autorità civili e militari della provincia di Gorizia e rappresentanti delle associazioni d’arma. Pubblichiamo di seguito l’omelia dell’arcivescovo.

Perché siamo qui quest’oggi? A 100 anni dall’inizio della guerra che ha ucciso tanti nostri giovani, ha insanguinato le nostre pianure, colline e montagne, ha riempito di cadaveri i nostri fiumi, ha distrutto case, chiese, monumenti … siamo qui per un doveroso ricordo e per una preghiera a favore di tutti coloro che, da una parte e l’altra del fronte e, prima ancora, in terre lontane, sono morti, sono stati feriti e hanno sofferto nel corpo e nell’anima a causa della guerra.

Il tempo, che è sempre un buon medico, può certo portare progressivamente a un oblio di ciò che è stato – affidandolo al più ai libri di storia o a qualche ripresa romanzata -, ma può anche aiutare ad avvolgere in uno sguardo di pietà e di misericordia tutti, proprio tutti. Quelli considerati eroi, come quelli ritenuti imboscati; coloro che erano andati in guerra inebriati da un ideale e coloro che venivano considerati disertori; coloro che erano convinti di far bene a partire per il fronte come volontari e coloro che, loro malgrado, si erano trovati sbattuti in trincea senza sapere un perché; coloro che erano partiti per dovere verso una patria e al ritorno se ne erano trovata un’altra che non li riconosceva come propri figli. Tutto ciò vale già a livello di umanità, prima ancora che di fede.

A questo proposito mi piace citare le parole piene di umanità e di poesia del grande poeta Ungaretti, nella grande guerra soldato sul Carso, pronunciate quasi mezzo secolo fa: «Il nome di Gorizia, dopo cinquant’anni, mentre si compie il primo cinquantenario della vicenda che l’ha mutata, torna a significare per me ciò che per noi, soldati in un Carso di terrore, significava allora. Non era il nome di una vittoria – non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega – ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevamo il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro dovere, chiamavano nel nostro cuore fratello». E più oltre il poeta alludeva al fragile ma vero sentimento nato allora nelle trincee del Carso: «il sentimento che ogni uomo è, senza limitazioni né distinzioni, quando non tradisce se stesso, il fratello di qualsiasi altro uomo, fratello come se l’altro non potesse essergli meno simile d’un altro se stesso».

Il tema dell’essere fratello caratterizza le letture di questa Messa. Volutamente sono state scelte quelle utilizzate due mesi fa da papa Francesco nella sua visita al cimitero austro-ungarico e al sacrario italiano di Redipuglia. Ricordiamo tutti le sue parole, che come un ritornello insistente hanno più volte indicato nella frase di Caino la causa profonda di ogni guerra: «L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: “A me che importa?”. “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà… “A me che importa?”. Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto beffardo della guerra: “A me che importa?”. Tutte queste persone, che riposano qui, avevano i loro progetti, avevano i loro sogni…, ma le loro vite sono state spezzate. Perché? Perché l’umanità ha detto: “A me che importa?”. Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni… Ad essere onesti, la prima pagina dei giornali dovrebbe avere come titolo: “A me che importa?”. Caino direbbe: “Sono forse io il custode di mio fratello?”».

A queste parole del papa vorrei aggiungere un accenno a quanto ci viene annunciato dal brano di Vangelo. Un brano che ben conosciamo – quello del giudizio universale – che però non ci lascia mai indifferenti e deve comunque inquietarci. Gesù evidenzia come criterio su cui la nostra vita verrà valutata non la riuscita umana, il successo, l’intelligenza, le ricchezze, … ma neppure gli atteggiamenti religiosi, l’andare in chiesa, il pregare, bensì l’aver soccorso l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, l’ammalato, il carcerato. E non importa l’avere o meno consapevolezza che nel bisognoso c’è la presenza dello stesso Signore Gesù. Ciò che conta è che comunque sia stato trattato da fratello. Appunto il contrario di quel “a me che importa?”, causa e fonte di ogni divisione, cattiveria, odio, guerra.

Come vivere questo Vangelo, che si sia credenti o non credenti? Ci sono tanti modi. Ne vorrei sottolineare solo uno, in apparenza non immediato, ma che oggi ritengo particolarmente importante ed è la responsabilità. In una società complessa e globalizzata come la nostra, è decisivo che ognuno si senta responsabile verso gli altri secondo i compiti che le scelte personali, familiari e professionali, ma anche la società, la vita, la storia gli hanno affidato.

Nella lettera sulla pace, che ho scritto in preparazione alla visita del papa a Redipuglia, facevo riferimento alla responsabilità nei confronti della pace di due categorie di persone: chi ha compiti nella difesa e chi esercita una professione riferita ai mezzi di comunicazione sociale. Nei riguardi della prima categoria scrivevo: «Nella Chiesa e nella società civile è giusto che ci siano persone che assumano ruoli profetici di forte richiamo ai valori della pace, disposti a pagare anche di persona. Ma insieme ci devono essere persone che con realismo e speranza (non quindi un realismo cinico, bensì un realismo evangelico e umano), affrontino con responsabilità le scelte anche in campo militare finalizzate a garantire la pace qui e nelle situazioni di palese e prolungata ingiustizia». E per il mondo dei media facevo accenno a «esperienze degli ultimi anni [che] dimostrano – se ce ne fosse ancora bisogno – come i mass media, tradizionali e moderni, possano manipolare con estrema facilità le emozioni della gente, far emergere paure e insicurezze spesso inconsce, costruire in pochi giorni il profilo di un “nemico” da temere, prospettando pericoli non realistici»

Ma non ci sono solo queste due categorie di persone che hanno responsabilità verso la pace, una pace – scrivevo allora – che richiede verso l’altro conoscenza, accoglienza, giustizia. Si possono citare i politici e gli amministratori pubblici, chiamati spesso a gestire situazioni complesse senza lasciarsi condizionare da emozioni e paure e senza cadere nella tentazione di sfruttarle per interessi immediati della propria parte; i genitori, gli educatori, gli insegnanti che hanno il compito affascinante e difficilissimo di educare le nuove generazioni ai valori della pace, della giustizia, della solidarietà; tutti coloro poi che hanno responsabilità nel mondo del lavoro che devono cercare di garantire a tutti, in un momento di grave crisi (anzi ormai in anni di crisi…), la possibilità di un lavoro dignitoso e l’impegno a viverlo con intelligenza e creatività. L’elenco potrebbe continuare coinvolgendo tutti perché tutti, se non altro per il fatto di essere persone, abbiamo responsabilità gli uni verso gli altri circa la pace e la giustizia.

Preghiamo allora per i morti della prima guerra mondiale, in particolare per i nostri di Gorizia. Ma affinché il loro sacrificio non sia stato vano, chiediamo al Signore – noi che abbiamo avuto il dono troppe volte considerato scontato di decenni di pace – di vivere oggi un atteggiamento di autentica responsabilità gli uni verso gli altri perché nel mondo, e non solo qui da noi, ci sia pace e giustizia.

† Vescovo Carlo