Sabato 11 aprile monsignor Redaelli ha presieduto la Veglia Pasquale in cattedrale a porte chiuse. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
Nel periodo che va dal mattino di Pasqua all’ascensione, un tempo simbolicamente racchiuso, stando agli Atti degli apostoli, in quaranta giorni, non sono poche le apparizioni del Risorto. Diverse sono raccontate o solo accennate dai Vangeli e dagli Atti degli apostoli; altre sono elencate da san Paolo, in particolare nella prima lettera ai Corinti dove parla di apparizioni a Cefa, ai Dodici, a Giacomo, agli apostoli, a cinquecento fratelli e allo stesso Paolo (cf 1Cor 15,5-8).
Una cosa che meraviglia in queste apparizioni è la presenza di poche parole di Gesù Risorto. In realtà Luca dice che nell’episodio di Emmaus il Signore spiega le Scritture ai due discepoli increduli collegandole alla sua persona e alla sua passione, morte e risurrezione; lo stesso fa con gli apostoli nel loro insieme quella stessa sera di Pasqua. Ma l’evangelista non ci riporta l’insegnamento di Gesù. Sempre Luca, nel primo capitolo degli Atti, afferma che il Risorto si trattiene con gli apostoli «parlando delle cose riguardanti il regno di Dio» (Atti 1,1), ma non riferisce che cosa egli abbia detto loro. Anche gli altri evangelisti riportano molto poco delle parole dei Risorto: quasi solo quelle che si presentano come un mandato che Gesù affida ai discepoli.
Perché questa poca presenza delle parole del Risorto? Non avrebbero potuto essere molto importanti anche per noi? E forse soprattutto oggi dove sentiamo profondamente il bisogno di una parola che sveli il senso di ciò che stiamo vivendo?
Potremmo tentare alcune risposte. La prima è la constatazione che c’è continuità tra il Risorto e il Gesù terreno che aveva annunciato il regno di Dio, raccontato parabole, compiuto miracoli. Il Risorto è Gesù, sia pure in una dimensione di vita nuova. E Gesù aveva già parlato con abbondanza negli anni della sua missione. Parole che la Pasqua non ha reso inutili, ma caso mai confermato nella loro profonda verità.
Una seconda risposta può venire da quanto affermato da Gesù nei discorsi nell’ultima cena: sarà lo Spirito Santo a far conoscere ai discepoli ciò che sta a cuore a Lui, ciò che il Padre vuole rivelare («Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future»: Gv 16,12-13). E in effetti, grazie all’ispirazione dello Spirito Santo, gli apostoli completeranno l’insegnamento di Gesù, spiegandoci per esempio, come partecipare alla sua morte e risurrezione attraverso il Battesimo, come ci ha ricordato Paolo stasera nel brano della lettera ai Romani (e sempre Paolo, per fare un altro esempio che oggi ci può particolarmente interessare, saprà spiegare bene ai cristiani di Tessalonica e a quelli di Corinto la sorte dei credenti dopo la morte e il tema della nostra risurrezione).
Esiste però una terza e fondamentale risposta alla domanda sul perché non si dà molto rilievo negli scritti del Nuovo Testamento alle parole del Risorto, ed è il fatto che ciò che conta nella Pasqua è l’incontro con Lui. Tutto il resto è secondario. Lui è il messaggio pasquale, anzi il cuore del messaggio cristiano, quello che tecnicamente viene chiamato il kerygma: Gesù, morto e risorto, è il nostro Salvatore. In Lui c’è la remissione dei peccati, in Lui la morte è sconfitta, in Lui c’è la salvezza, in Lui ci viene data la pienezza della vita. Chi incontra Gesù, trova tutto questo.
Come incontrare allora il Risorto, noi che non siamo tra le donne che al mattino di Pasqua vanno al sepolcro, non siamo gli apostoli e non siamo nemmeno tra i cinquecento che lo hanno visto Risorto? Verrebbe da dire attraverso la Parola e i Sacramenti e la Carità. La Parola possiamo ascoltarla e meditarla, ma ai Sacramenti oggi non possiamo partecipare. Possiamo vivere la carità anche solo in casa e nelle relazioni che riusciamo in qualche modo a mantenere con gli altri, ma la nostra vita comunitaria, il nostro agire è comunque molto limitato. Impossibile allora quest’anno incontrare il Risorto?
Ma il Signore non è dentro di noi? Non è, per usare una bellissima immagine di sant’Agostino, «più interno a me del mio stesso intimo» (Confessioni III,6,11)? Papa Benedetto XVI, grande studioso di Agostino, commentando questa espressione diceva: «La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo» (Udienza generale 30 gennaio 2008). E se quest’anno ci venisse chiesto proprio di incontrare il Signore, quasi senza mediazioni, nella profondità e nella verità della nostra coscienza?
Quest’oggi mi hanno ricordato un’antica tradizione friulana tipica di quando si celebrava la risurrezione la mattina del sabato santo. C’era allora l’usanza di lavarsi gli occhi (alcuni lavavano la faccia intera) con l’acqua fresca. Un gesto che voleva simboleggiare purificazione e insieme rinascita. Ma era anche un gesto che voleva togliere dagli occhi il velo di oscurità, che impediva di vedere la novità della Pasqua. Un vedere che non riguarda tanto gli occhi fisici, ma gli occhi interiori, gli occhi della fede all’interno della nostra coscienza.
Quegli occhi – i nostri – che anche in questa strana Pasqua e, forse, proprio in questa strana Pasqua possono vedere il Risorto e vivere la gioia dell’alleluia.
+ vescovo Carlo