«Noi siamo martiri di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. … E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di rendere martirio che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questo martirio». Immagino che vi siete accorti: ho riletto una parte dell’intervento di Pietro, presentato nella prima lettura, sostituendo ai sostantivi “testimoni”, “testimonianza” e al verbo “testimoniare” l’italianizzazione dell’originale greco martures, marturein, diamarturein.
Certo, fa un effetto diverso parlare di “testimoni” o parlare di “martiri”, usare la parola “testimonianza” o la parola “martirio”. Soprattutto oggi quando il martirio è tornato di attualità: in certi paesi basta essere cristiani per andare incontro alla persecuzione e alla morte.
Ma siamo chiamati a essere “martiri” del Risorto o ad essere semplicemente suoi “testimoni”? Tutti naturalmente ci auguriamo di non finire martiri e che le nostre terre siano preservate dalla persecuzione e che i paesi dove esistono tensioni, violenze, guerre, motivate anche dall’odio verso i cristiani e non solo, trovino presto la pace.
Il cristiano non cerca la persecuzione, né il martirio, perché se c’è la persecuzione, se c’è il martirio significa che c’è qualcuno che, con il cuore pieno di odio, perseguita e uccide. Il cristiano desidera e implora nella preghiera che nessuno, a qualunque religione appartenga, abbia nel cuore sentimenti di odio e di malvagità. Non tanto per evitare fastidi, ma perché chi odia fa male in primo luogo a se stesso.
Ciò che però vorrei sottolineare è il fatto che non ci viene chiesto di essere testimoni solo nel senso di persone che riferiscono un avvenimento accaduto o una parola ascoltata, un avvenimento esterno a noi, una parola che ci lascia indifferenti. Occorre invece essere testimoni di qualcosa su cui ci giochiamo la vita. Niente di meno. Di qualcosa di così importante per noi, da non potervi rinunciare, al punto che se – Dio non voglia – si dovesse scegliere tra quella realtà e la nostra vita, dovremmo essere pronti a rinunciare a quest’ultima. Ma la risurrezione di Gesù, la sua Pasqua è così decisiva per noi o è solo l’occasione per un po’ di festa e per un simpatico scambio di auguri con parenti e amici? Una domanda che lascio in sospeso perché ognuno di noi è tenuto a rispondervi.
Piuttosto ricavo dalle altre due letture di oggi delle indicazioni per sostenere e vivere una testimonianza autentica. La prima ci viene suggerita dal brano del Vangelo. A conclusione dell’episodio della corsa al sepolcro di Pietro e di Giovanni, l’evangelista fa una significativa annotazione: «Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti». Non avevano ancora compreso la Scrittura. E’ una questione su cui spesso ritornano i racconti della risurrezione come per esempio quello che narra la manifestazione di Gesù ai due discepoli che se stavano andando via da Gerusalemme, delusi e scoraggiati, per tornarsene a casa a Emmaus. Si dice che a loro il Risorto «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui».
Una prima strada per essere realmente testimoni del Risorto è quindi incontrarlo nella Scrittura, nella Parola di Dio, meditata, pregata, vissuta. La Bibbia, in particolare il Vangelo, non deve restare un libro messo su uno scaffale, ma deve diventare il nostro riferimento quotidiano. Non occorre essere specialisti per leggere il Vangelo: basta appunto leggerlo; domandarsi che cosa fanno, ascoltano, dicono, ecc. i personaggi, mettersi al loro posto; riprendere le invocazioni delle varie persone e farle nostre, come ho cercato di indicare nella scuola di preghiera durante la Quaresima. Solo chi si nutre quotidianamente del Vangelo, può conoscere il Signore, entrare in rapporto con Lui, lasciarsi convertire il cuore, diventare vero testimone perché attraverso la Parola lo ha incontrato.
Una seconda indicazione per essere testimoni ci viene offerta da san Paolo. Con la consueta immediatezza, scrive ai Corinti – lo abbiamo ascoltato nella seconda lettura –: «se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra». Cercare le cose di lassù non significa estraniarsi dalle cose della terra, dagli impegni e dalle esperienze di ogni giorno: il cristiano non è un extraterrestre, che vive in una dimensione tutta sua. Occorre, invece, che la nostra vita abbia il suo punto di riferimento, il suo baricentro nel Signore risorto. E a partire dal radicamento in Lui vivere in pienezza le realtà, gli avvenimenti, le responsabilità, le gioie e le fatiche di questa vita. Il cristiano non è fuori del mondo, ma vive secondo i criteri del Vangelo e non secondo quelli del mondo. I criteri del Vangelo li vede realizzati in Gesù. La sua testimonianza consiste nel far vedere, in famiglia, nei luoghi di studio e di lavoro, nelle relazioni sociali, nelle responsabilità della vita, che vivere secondo il Vangelo, vivere riferendosi al Signore, rende più veri, più autentici, più sereni, più contenti.
Il Vangelo ha un’incredibile forza umanizzante che rende appunto più umana la società. Questa è la testimonianza, il martirio, che vien chiesto ai cristiani, in particolare ai fedeli laici, chiamati lì dove sono a essere lievito, a essere sale, a essere luce. Come? Sono convinto che ciascuno di voi, se ci pensa un momento, lo sa bene: con un sorriso, con un’attenzione verso gli altri in particolare i poveri, facendo bene il proprio dovere, cercando rapporti costruttivi, sforzandosi di vivere l’onestà e la fedeltà lì dove ci si trova, sostenendo le responsabilità assunte come un servizio, ecc.
«Noi siamo martiri, noi siamo testimoni» del Risorto, nutrendoci della sua Parola e vivendo secondo il Vangelo: che ciò sia vero per ciascuno di noi. E’ il mio augurio di Pasqua.
† Vescovo Carlo