Domenica 10 maggio 2020, V^ domenica di Pasqua, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la messa a porte chiuse in cattedrale. La liturgia è stata trasmessa in diretta streaming sui canali social della diocesi. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
Il Vangelo di oggi ci porta nel contesto dei discorsi di addio di Gesù nell’ultima cena. Una situazione di grande intimità tra il Signore e gli apostoli, ma anche di forte intensità emotiva e di turbamento. C’è stato il gesto della lavanda dei piedi e poi Gesù ha annunciato il tradimento di Giuda e parlato dell’imminente rinnegamento di Pietro. Ma soprattutto ha detto con chiarezza che se ne sta andando e ha lasciato quasi come testamento il comandamento dell’amore.
I discepoli sono turbati. Gesù li vuole tranquillizzare dando loro delle certezze. Non parla però di quello che succederà dopo la sua morte in croce, cioè della sua risurrezione, ma di quando non sarà più visibile a loro perché sarà nella casa del Padre. La certezza che Gesù dà è che la casa del Padre è destinata a tutti. Non c’è carenza di posti e Gesù va solo a preparare un posto per noi perché poi si possa stare con Lui. Gli apostoli non capiscono e lo dicono con chiarezza attraverso le parole di due di loro: Tommaso e poi Filippo. Non sanno dove Gesù va, anche se lo ha appena detto, e non sanno quindi neppure che strada percorrere per arrivarci. E del resto come possono sapere quale sia la casa del Padre se non conoscono il Padre. Gesù spiega che la via è Lui, Lui che è insieme la verità, cioè il senso profondo dell’esistenza, e la vita stessa. E afferma anche che attraverso di Lui si conosce il Padre e si può entrare in comunione con il Padre. Anzi si può diventare come Gesù e compiere le sue stesse opere.
Tutto ciò è possibile attraverso la fede e la preghiera: occorre rivolgere a Gesù le nostre richieste e la prima richiesta è proprio il dono di una fede che ci faccia entrare nel mistero di Dio, diventare figli di Dio. Le parole di Gesù sono di grande consolazione in questo tempo dove più di altri momenti siamo confrontati con la morte e quindi con la vita e con il suo senso. Il nostro destino è la casa del Padre, dove sarà il compimento del nostro essere figli. Gesù è la strada per arrivarci. Si arriva vivendo come Gesù, facendo la volontà del Padre come Lui, operando come Lui. E avendo la consapevolezza che grazie a Lui siamo diventati qualcosa di grandioso.
Lo ricorda molto bene con espressioni pregnanti san Pietro che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: «avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo». Uniti a Gesù, siamo quindi pietre vive di un edificio spirituale per un sacerdozio santo. E poco oltre Pietro afferma: «Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa». Edificio spirituale e sacerdozio santo, stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di Dio. Parole molto forti che non vanno intese come licenza poetica, ma come realtà. Realtà attuale, perché svelano la nostra dignità di figli di Dio. Figli che devono essere onorati: «Onore dunque a voi che credete» afferma ancora Pietro.
Ma crediamo davvero in questo? Percepiamo con gioia e grande riconoscenza la bellezza di quello che già siamo in attesa di un compimento nella casa del Padre ancora più meraviglioso? Nel frattempo si è in cammino. La Chiesa è infatti un popolo in cammino, come talvolta anche affermiamo cantando. Un cammino che impegna e responsabilizza perché è dentro la concretezza della storia. Così è stato fin dalle origini. Il racconto di Atti 6, che abbiamo ascoltato come prima lettura, ci presenta una tappa significativa di questo itinerario e ci dà indicazioni anche per il cammino di questo tempo, di noi che oggi siamo Chiesa, certo uniti ai cristiani delle origini nella comunione dei santi, ma ora responsabili di quel tratto di strada del percorso verso il Regno che è affidato a noi.
La prima comunità di Gerusalemme vive una crisi di crescenza: i cristiani stanno diventando numerosi, tra loro ci sono molti poveri, cresce anche il bisogno delle mense e i dodici apostoli fanno fatica a seguire tutti. Come spesso succede, nella difficoltà si infilano malumori e tensioni e vengono a galla anche pregiudizi che già covavano sotto traccia, in questo caso tra i cristiani provenienti dai giudei abitanti di Gerusalemme e quelli provenienti dalla diaspora di lingua greca.
Gli apostoli non hanno una soluzione pronta per risolvere la questione, non ci sono indicazioni specifiche date da Gesù. Per questo devono operare un discernimento guidato dallo Spirito Santo e così i Dodici possono affidarsi alla scelta della comunità indicando però dei precisi criteri («cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico»). Si arriva così alla scelta dei sette, tutti significativamente con nomi greci (quindi capaci di venire incontro al gruppo che si era lamentato). In realtà – e questo è importante sottolinearlo – non viene risolto solo un problema contingente, ma si scopre un ministero (quello che oggi chiamiamo il diaconato) che si affianca a quello degli apostoli. E la comunità cristiana può riprendere il cammino con rinnovato coraggio e con la gioia di veder moltiplicare coloro che diventano discepoli del Signore.
La Chiesa che è indirizzata verso la casa del Padre, verso il compimento del Regno, lo fa dentro le gioie, ma anche le fatiche interne ed esterne presenti in ogni tempo. La stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato non è quindi una realtà astratta, ma cammina dentro la storia nella concretezza delle vicende umane. Lo può fare riferendosi a Gesù via, verità e vita, e assumendo le proprie responsabilità, utilizzando con l’aiuto dello Spirito le proprie capacità di discernimento, attivando i diversi ministeri, mantenendo la fedeltà alla preghiera e all’ascolto della Parola, garantendo il servizio ai poveri, impegnandosi per la comunione.
E’ quanto ha cercato di fare la prima comunità ed è quanto deve attuare anche la Chiesa di oggi in questa situazione di particolare difficoltà che stiamo vivendo. Una situazione dai contorni incerti di cui non si conoscono molti dati, si fa fatica a comprenderne l’evoluzione e persino le scansioni temporali. Come comunità cristiana siamo interpellati e non solo sulla non facile ripresa della vita liturgica che tra otto giorni ci verrà concessa, ma su tutto ciò che oggi e nel prossimo futuro riguarda il nostro essere Chiesa: la fede nel Risorto, l’annuncio del Vangelo, la testimonianza della vita, il servizio dei poveri, l’esperienza comunitaria, la catechesi, l’impegno educativo, ecc. C’è da preoccuparsi e a ragion veduta. Però anche a noi il Signore dice: «Non sia turbato il vostro cuore». E sappiamo che Lui è “via, verità e vita” anche per noi oggi, di noi che siamo comunque “stirpe eletta, sacerdozio santo, ecc.”, come ricordato da Pietro, e che come la prima comunità siamo chiamati con l’aiuto dello Spirito Santo – che non manca e non mancherà – a vivere con fiducia la responsabilità di oggi e di domani.
Preghiamo affinché questo avvenga.
+ vescovo Carlo