I decenni che ci separano dall’inizio della riforma liturgica, voluta dal concilio Vaticano II, ci hanno educato a prestare attenzione alla Parola di Dio annunciata in ogni celebrazione, anzitutto ascoltandola, ma poi anche leggendo e meditandola prima e poi riprendendola come – per usare l’espressione del salmo 118 – “lampada per i nostri passi”. La celebrazione liturgica, però, non presenta solo la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio: c’è tutta la ricchezza della eucologia, delle orazioni che arricchiscono l’ordinario della Messa e offrono il senso delle singole celebrazioni, in particolare la prima orazione o colletta. Rileggo quella che oggi la Chiesa mette sulla bocca di colui che presiede l’Eucaristia: «O Dio, che nel Serafico Padre san Francesco, povero e umile, hai offerto alla tua Chiesa una viva immagine dei Cristo, concedi a noi di seguire il tuo Figlio nella via del Vangelo e di unirci a te in carità e letizia». E’ un testo notevole, perché con poche parole coglie con profondità quello che potremmo chiamare il “segreto” della vicenda di Francesco d’Assisi: ciò che lo ha caratterizzato come discepolo del Signore e ha costituito il suo dono alla Chiesa di allora e di sempre. La conseguenza è un’indicazione concreta per la nostra vita di discepoli di Cristo.
Fondamentale è la definizione di Francesco come “viva immagine di Cristo”. Si tratta di una definizione che rispecchia la realtà storica, ciò che i suoi contemporanei – a cominciare dai suoi concittadini di Assisi – hanno colto di lui. Lo testimoniano i testi raccolti nelle “Fonti Francescane” (raccolta che consiglio a tutti per la lettura spirituale e la conoscenza diretta di san Francesco). Mentre di solito i contemporanei colgono in un santo o in una santa una o più caratteristiche, appunto, di santità – la dedizione ai poveri, la capacità di approfondire e predicare la Parola di Dio, l’impegno educativo, la carità verso i malati, l’atteggiamento contemplativo, ecc. – così non è stato per san Francesco. Anche la sua povertà, che sembra l’elemento più evidente del suo stile di vita, non è stata ciò che ha più colpito chi lo incontrava e ascoltava. Anche perché per molti contemporanei di Francesco la povertà, l’estrema povertà, non era una scelta, ma una normale condizione di vita: i poveri non erano a quel tempo un’eccezione. In realtà la gente di allora ha visto in Lui semplicemente l’immagine di Gesù Cristo. Non un’idea, un racconto, una pittura, una scultura, … ma un’immagine viva. Un uomo, che, essendo se stesso con la realtà della sua umanità, realizzava quanto scritto dall’apostolo Paolo: «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
La povertà per Francesco non è stata quindi qualcosa di cercato per se stesso, ma un’esigenza richiesta dal suo essere discepolo di Cristo, dal suo imitarlo. Sintetizzando la sua vita, Francesco dirà a un suo compagno: “conosco Cristo povero e crocifisso” (FF 692). In effetti la frase della lettera ai Galati che ho appena citato, nella sua interezza dice: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,19-20). Francesco è stato allora l’immagine viva di Cristo povero e crocifisso. In questo modo ha fatto vedere con la sua vita, che era possibile vivere il Vangelo sine glossa, semplicemente il Vangelo. Francesco conosceva il Vangelo, si è nutrito di Vangelo, ma soprattutto lo ha vissuto come un altro Cristo. A un certo punto la Scrittura non gli è stata più necessaria, perché la Parola, la Parola incarnata, cioè Cristo, è diventata per lui come una seconda natura.
Vorrei leggervi a questo proposito l’episodio in cui Francesco rivela il segreto della sua vita. Si trova nel cap. LXXI della Vita Seconda di Celano: «Francesco era infermo e pieno di dolori da ogni parte. Vedendolo così, un giorno gli disse un suo compagno: “Padre, tu hai sempre trovato un rifugio nelle Scritture; sempre ti hanno offerto un rimedio ai tuoi dolori. Ti prego anche ora fatti leggere qualche cosa dai profeti: forse il tuo spirito esulterà nel Signore “. Rispose il Santo: “E’ bene leggere le testimonianze della Scrittura, ed è bene cercare in esse il Signore nostro Dio. Ma, per quanto mi riguarda, mi sono già preso tanto dalle Scritture, da essere più che sufficiente alla mia meditazione e riflessione. Non ho bisogno di più, figlio: conosco Cristo povero e Crocifisso “» (FF 692).
Francesco ha cercato nelle Scritture il Signore Gesù, lo ha trovato e, per grazia dello Spirito Santo – per usare un’altra espressione cara a san Paolo –, si è realmente rivestito di Lui (cf Rm 13,14). Francesco ci dice allora che il Vangelo è una strada possibile, che è possibile essere poveri, umili, miti, misericordiosi, amorevoli come Cristo. La strada è quella di mettersi al seguito di Gesù, meditando il suo Vangelo e, con la grazia dello Spirito e l’esempio dei santi e della sante, assorbirlo a poco a poco nella vita. Alla fine non sarà nemmeno più necessario il Vangelo, perché lo si vivrà. Prima, però, occorre che il Vangelo divenga ciò che sentiamo, proviamo, pensiamo, sogniamo. Il Vangelo deve diventare il nostro orizzonte culturale, lo sfondo di ogni nostro pensiero, la tavolozza da cui ricavare i colori delle nostre emozioni. Per conoscere il Signore di Gesù, innamorarsi di Lui, affascinarsi di Lui. Così come è stato per Francesco. Ciò che ho proposto nella lettera pastorale di quest’anno è esattamente questo. Il Vangelo deve diventare il nostro nutrimento quotidiano. Lo suggerisco, lo chiedo a ciascuno di voi, di noi. Ma non basta essere affascinati dal Vangelo, essere innamorati di Gesù. Occorre seguirlo in concreto sulla strada della povertà e della carità. Sappiamo che la vera svolta della vita di Francesco è stata quando è sceso da cavallo e ha baciato un lebbroso. Finché restiamo a cavallo, anche a cavallo del nostro cristianesimo convinto e perfetto, la nostra vita non può cambiare.
Chiediamoci allora: chi è il lebbroso che il Signore ha messo sulla strada di ciascuno di noi?
† Vescovo Carlo