Venerdì 19 febbraio, nella chiesa di San Valeriano a Gradisca, è iniziato il ciclo di catechesi quaresimali guidate dal vescovo Carlo e destinate quest’anno in modo particolare ai giovani della diocesi. Di seguito l’intervento del vescovo.
Fra’ Giovanni stava girando da una buona mezz’ora per tutto il convento. Aveva prima rovistato dappertutto nella sua cella, cercando persino sotto il letto e spostando lo scaffale di legno dove teneva appoggiati qualche decina di libri dalla copertina nera. Ma non lo aveva trovato. Allora aveva bussato alla cella dei suoi vicini, famosi predicatori come lui, ma tutti affermavano di non averlo preso e, anzi, di non averlo proprio visto negli ultimi giorni.
Si era allora precipitato nella chiesa del convento, ma anche lì nulla da fare. Gli era venuto in mente che poteva essere nella sacrestia. Vi era entrato di corsa. Si percepiva ancora il fumo d’incenso della recente celebrazione dei vespri, ma di lui nessuna traccia. Anche fra’ Beppe, il sacrestano, un fraticello sordomuto, un po’ ingenuo e perennemente sbadato, aveva scosso più volte la testa in segno negativo di fronte alle sue insistenti domande. Proprio non si trovava.
E se quel burlone di fra’ Cecilio glielo avesse rubato e lo avesse nascosto in cantina? Capacissimo di farlo… E allora, fra’ Giovanni aveva preso un lume e cercando di non inciampare per le scale sbrecciate della cantina era corso di sotto, cercandolo tra botti di vino, bottiglie di olio, salami appesi, … per non parlare delle ragnatele che pendevano da qualche angolo. Ma di lui nemmeno l’ombra.
Come poteva allora tenere tra mezz’ora il quaresimale nella cattedrale semibuia, lì sul pulpito di fronte a tutta la città radunata per ascoltare il famoso predicatore? Uomini severi vestiti di scuro, signore della buona società che per l’occorrenza avevano coperto alla bell’e meglio le scollature e indossato gioielli non troppo vistosi, giovani vestiti bene e un po’ inquieti, bambini silenziosi e già un po’ addormentati, servi e poveri seduti sulle ultime panche. Tutti in attesa della sua voce tonante e delle sue tremende parole. E già: un quaresimale deve essere tonante, deve spaventare, deve mettere un po’ di paura a quella gente gaudente, reduce dai bagordi del carnevale. Ma come predicare la penitenza a quelle persone dedite ai piaceri? Come far capire che c’è il giudizio tremendo di Dio e che la vita cristiana è penitenza, sacrificio, rinuncia? Basta risate sguaiate, basta barzellette sconce, basta parolacce, basta divertirsi con balli, vino, eccetera. Come fare a dire tutto questo efficacemente senza di lui?
Lui era … un teschio.
Un teschio lucido e ingiallito che fra’ Giovanni teneva di solito in mano mentre predicava minacciando morte e inferno ai peccatori irretiti dai piaceri. Senza teschio, come poteva spiegare che il cristianesimo è sofferenza e dolore?
Mentre, rassegnato dalla scomparsa del teschio, si era incamminato a piedi verso la cattedrale, chissà perché gli era venuto in mente il Vangelo delle beatitudini. Un brano che non capiva. Gesù parlava di povertà, pianto, afflizioni, persecuzioni,… tutto giusto. Ma perché collegarli con la beatitudine: meglio rapportarli con la penitenza e la sofferenza, altrimenti la gente poteva capire male e pensare che Gesù proponesse – non sia mai… – il piacere, la felicità…No, quella, caso mai, ci sarà in paradiso, ma anche lì si dovrà stare buoni buonini dietro le file dei cori angelici a cantare e a contemplare la visione beatifica. E sarà per pochissimi, perché la massa andrà sicuramente all’inferno, e quei pochi che andranno in paradiso si faranno prima milioni di anni di purgatorio per purificarsi dai tutti i piaceri cercati nella vita.
Quando era ormai nelle vicinanze della cattedrale, gli era venuto incontro un povero: il solito seccatore – aveva pensato dentro di sé – che appena vede un saio o una talare si precipita a chiedere soldi…
«Che cosa vuoi? Guarda che non ho soldi e non ho tempo…».
«Non voglio niente, non preoccuparti… Solo che ti vedo triste e di fretta».
«Ho i miei motivi per essere triste … Non farmi perdere tempo!».
«Io invece sono contento».
«Tu, contento?».
«Certo».
«Ma non sei un poveretto che chiede l’elemosina tutti i giorni …? Come fai ad essere contento?».
«Sono felice perché sono povero».
«Da quando in qua i poveri sarebbero felici?» aveva detto fra’ Giovanni, rallentando il passo e quasi fermandosi.
«Sono felici perché sanno che tutto gli è stato donato. I ricchi pensano di avere tutto e che tutto è merito loro. Invece anche loro hanno ricevuto ogni cosa. Il guaio è che non lo sanno e pensano di dover accumulare ancora altre ricchezze per essere felici e non smettono mai sino alla fine…».
«Non dirmi che tu sei sempre felice e non piangi mai?».
«No, anch’io piango qualche volta, soprattutto di notte, quando dormo sotto il portico della cattedrale avvolto in questo mantello, ma poi penso che c’è un Padre che pensa a me e questo mi consola e mi addormento (e qualche volta sogno persino di essere in braccio a mia madre…)».
«Tu la fai semplice perché sei un ingenuo, un mite, ma il mondo è fatto per i potenti, per i furbi, per chi sa gestire le cose…».
Il frate intanto aveva ripreso il cammino lentamente e spontaneamente il povero si era messo accanto a lui: sembravano quasi due amici che discorrevano per strada del più e del meno.
«Sì, forse sono un semplice, forse volevi dire… un sempliciotto. Un mite, ma la mitezza e non la violenza alla fine salva la terra».
«Già, la salvezza. Ne parlo spesso nelle mie prediche, ma non mi ascoltano. Nessuno cerca la giustizia».
«La giustizia: quella degli uomini ti delude sempre o quasi. Una volta sono stato arrestato per sbaglio: passavo per strada vicino a due gruppi di scalmanati che litigavano e si picchiavano forte, avevo cercato di intervenire e nel frattempo erano arrivate le guardie. Tutti erano fuggiti tranne me e siccome sono uno che non conta, mi hanno tenuto in carcere tre giorni prima di ascoltarmi e poi a convincersi a fatica che non c’entravo. Però ci credo nella giustizia, so che potrà esserci un mondo giusto, ne ho la necessità non solo per me ma per tutti, quasi come ho fame di un po’ di pane e sete di un sorso d’acqua».
«Hai forse ragione, ma la giustizia è mettere le cose a posto. Meglio sbagliare nell’incarcerare un innocente che lasciare in giro un ladro o un assassino! La giustizia è giustizia. La misericordia è un’altra cosa: la userà Dio, ma solo verso i pochi buoni. Perché Dio è anzitutto giusto e con la misericordia non può smentire la sua giustizia».
«Ne sei sicuro? Non è che con il nostro cuore offuscato non riusciamo a capire Dio e il suo amore. Io spero di avere da Lui misericordia e, guardando a Lui, di essere capace anch’io di misericordia».
«Misericordia, misericordia…, ma intanto vedi quante ingiustizie, quante guerre. Forse anche tu, poveretto, hai sentito che la nostra città si prepara ad andare in guerra contro quella vicina: ne parlano ormai tutti con un po’ di preoccupazione, ma sono certo che vinceremo e che Dio sarà con noi!».
«Io, quando posso, cerco di mettere pace. Sono felice quando succede come l’altra sera. Sono riuscito a dividere due miei colleghi “barboni “, che si erano presi a pugni sotto il portico del duomo. Litigavano perché l’uno accusava l’altro di avergli rubato il pezzo di pane».
«E come hai fatto a separarli?».
«Prendendo anch’io qualche pugno…».
«Capisco allora il tuo occhio nero…».
«… e regalandolo loro il mio pezzo di pane».
«Ma allora sei andato a dormire digiuno?».
«Certo, ma mi sono sentito contento, in pace, come deve esserlo un figlio del Dio della pace».
Ormai erano arrivati a poche centinaia di metri dalla cattedrale. Fra’ Giovanni era sempre più interessato a quanto gli stava dicendo il suo interlocutore e stava quasi dimenticando il suo teschio, ma non la sua predica:
«Scusa, è interessante quello che mi dici, ma dobbiamo affrettare il passo. È già suonata l’ultima campana … Vedo, però che hai anche un livido sulla gamba e mi accorgo ora che zoppichi da un piede. Che ti è successo? Sempre un litigio dei tuoi amici in cui ti sei intromesso?».
«Non sono stati i miei colleghi, ma le guardie del conte, mi hanno picchiato e malmenato perché ero intervenuto a difendere un povero, che neppure conoscevo, che stavano trattando male ingiustamente, insultandolo e picchiandolo. Le ho prese anch’io e purtroppo l’hanno portato via. Ma per me la giustizia è importante, anche se poi tutti mi prendono in giro e ne dicono di tutte contro di me: i ragazzi che passano per strada, le donne che vanno in chiesa, persino i miei colleghi barboni che mi considerano un po’ strano… Ma io sono contento lo stesso».
«Siamo arrivati alla cattedrale, devo entrare perché mi stanno aspettando. Grazie per quello che mi hai detto. Posso donarti qualche moneta?».
«No, non disturbarti, mi hai già regalato il tuo tempo».
«Ma almeno dimmi come ti chiami».
«Non mi conosci? Eppure di solito parli di me quando sei in chiesa, ne parli con uno strano aggeggio in mano, ma stasera, lo so, farai diversamente».
In quel momento fra’ Giovanni aveva visto il cerimoniere della cattedrale che era sul portone in sua attesa: «Arrivo, monsignore. Saluto prima un amico».
Si era voltato, ma lui non c’era più.
E così fra’ Giovanni era entrato in cattedrale tutto contento – il cerimoniere lo aveva osservato stupito – e pensando: “meno male che non ho trovato il teschio…, stasera parlerò della felicità, delle beatitudini, del Cristo che sorride”.
Già, perché gli era venuto in mente che in cattedrale si conservava un crocifisso che sorride. Gli era sempre sembrata una cosa strana, fuori luogo, ma quella sera aveva finalmente capito.
† Vescovo Carlo