Che cos’è la testimonianza cristiana?
L'intervento dell'Arcivescovo Carlo all'incontro delle Caritas parrocchiali a Monfalcone
18-11-2012

Sono molto contento di trovarmi qui questo pomeriggio con molte persone impegnate nelle caritas parrocchiali. Ho ascoltato con grande attenzione e direi con molta soddisfazione quanto avete illustrato circa le attività promosse in diversi ambiti dalle varie caritas. Aggiungo subito che mi piacerebbe ancora di più incontrarvi “sul campo” quando siete concretamente all’opera nelle vostre comunità a servizio dei poveri, dei bisognosi, degli emarginati. Ma sono sicuro che ci sarà tempo e modo di farlo e mi piacerebbe che avvenisse in situazioni quotidiane e in modo familiare…

Sono certo che mi sarete di grande consolazione e, perché no?, anche di vanto… Il vescovo avrà anche dei fastidi – e chi non ce gli ha? – ma già da queste prime settimane mi sono accorto che ha grandi soddisfazioni compresa anche quella (un po’ forse troppo umana) di “farsi bello” davanti agli altri per il lavoro e l’impegno dei fedeli della sua diocesi. Insomma, lasciatemi essere un po’ orgoglioso di voi…

Il tema di questo convegno è alquanto impegnativo. La frase di Giacomo – «A che cosa serve fratelli miei se uno dice che ha la fede, ma non ha le opere?» – come in generale l’intera lettera di Giacomo, non ha avuto una vicenda tranquilla nella storia della Chiesa e, anzi, è stata un campo di polemica e di divisione, in particolare tra cattolici e protestanti.

Detto in termini da tifoseria, si potrebbe affermare che i cattolici sono per le “opere”, i protestanti o riformati per la “fede” e, se si volesse complicare la vita, basterebbe aggiungere che gli ortodossi sono per la “contemplazione”. Ma non siamo alla partita fede contro le opere e viceversa… Piuttosto siamo chiamati a cogliere il legame profondo e autentico tra fede e opere.

Per illustrarlo è più facile partire dal negativo: quali sono oggi i modi sbagliati o comunque poco corretti di comprendere questa relazione?

Cerco di presentarli in maniera semplice e forse un po’ semplicistica, ma sono certo che saprete fare voi i distinguo e gli approfondimenti necessari.

Parto dal lato della fede, ma per dire subito che ciò che oggi mi sembra si possa contrapporre alle opere non sia tanto la fede- intesa sia nella sua accezione di adesione personale a Dio, sia nei suoi contenuti -, bensì due distorsioni della fede: il devozionalismo e il formalismo di carattere ritualistico. Non siamo quindi a livello di alto dibattito teologico, ma di modalità concrete con cui vivere la fede.

Per devozionalismo non intendo certamente le varie e belle forme di religiosità anche di carattere popolare di cui la nostra realtà è ricca – e guai a perderle… – ma quelle forme distorte che esprimono la continua ricerca del sensazionale, del miracolismo, del magico o quasi. Una ricerca che estranea dalla vita e dall’impegno concreto e si attende sempre un miracolo dall’esterno.

Anche per formalismo ritualistico non intendo la sobria e solenne bellezza della liturgia – che va continuamente cercata e custodita nella sua autenticità – bensì le forme distorte che pongono attenzione solo all’esteriorità dei riti più o meno sontuosi e barocchi, riti che non incidono minimamente sulla vita.

Se ora guardiamo la relazione fede e opere dal punto di vista di quest’ultime, mi sembra che il rischio di oggi non sia più quello di ormai molti anni fa, quando si sottolineava per i cristiani molto o quasi esclusivamente l’impegno terreno con il rischio di ridurre il cristianesimo a un’ideologia di salvezza solo intramondana perdendo ogni orizzonte di eternità, quanto piuttosto quello di appiattire la testimonianza cristiana sul più vasto e certamente apprezzabile fenomeno del “volontariato”.

La Chiesa e neppure la Caritas non sono un’organizzazione no profit, ma la il segno e lo strumento del Regno di Dio, cioè la comunità dei credenti in cammino verso la pienezza della comunione e della salvezza che Dio vuole per l’intera umanità.

Quale è allora la modalità corretta e fruttuosa per esprimere il rapporto tra fede e opere? Mi sembra che il termine giusto sia “testimonianza” nella linea dell’affermazione di papa Benedetto XVI: «l’anno della fede sarà anche un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità» (P.F. n. 14).

Che cos’è la testimonianza cristiana? Non è, come qualche volta la si intende, un’aggiunta alla vita cristiana: sono credente, sono cristiano e se sono bravo devo farmi vedere come tale facendo qualcosa o assumendo un atteggiamento piuttosto di un altro. No, la testimonianza cristiana è semplicemente la trasparenza della vita cristiana, cioè di una vita secondo il Vangelo.

In questo senso non si decide di diventare testimoni, ma si decide di essere cristiani veri. E allora è per così dire automatico essere testimonianza del Vangelo.

Questo vale per i singoli fedeli – per ciascuno di noi, vescovo compreso – ma vale anche per le comunità. Una parrocchia dà testimonianza anzitutto non perché fa tante iniziative caritative, ma perché vive come autentica comunità cristiana: nutrita dalla Parola e dai Sacramenti, unita in una vera comunione fraterna, capace di vedere negli altri e soprattutto nei poveri il volto di Cristo.

Sono in fondo le caratteristiche della prima comunità cristiana descritte nel capitolo secondo degli Atti degli apostoli, caratteristiche che sono e devono essere quelle della comunità cristiana di sempre: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati» (Atti 2, 42-47).

Interessante notare, anche se spesso lo si trascura, che questa descrizione non è posta in un punto qualsiasi degli Atti degli apostoli, ma chiude la giornata di Pentecoste e ne rappresenta il frutto. Il dono di Pentecoste, quindi, non è prima di tutto il parlare le lingue e così intendersi tra le persone capovolgendo quanto avvenuto a Babele, ma la nascita della comunità cristiana che è frutto dello Spirito. È lo Spirito Santo, non in prima battuta il nostro impegno e le nostre iniziative, ciò che rende un insieme di persone realmente credenti, discepoli di Cristo e perciò testimoni. Non dobbiamo dimenticarlo mai.

Chi ce lo ricorda sono i santi. Sono loro che ci fanno vedere che cosa può fare lo Spirito quando trova un cuore disponibile. Sono loro che presentano una testimonianza luminosa non perché si impegnano a fare, ma perché si sono impegnati a essere cristiani autentici.

Uno di questi è Egidio Bullesi, questo giovane semplicemente e autenticamente cristiano, come marinaio, operaio dei cantieri, militante dell’Azione Cattolica, terziario francescano, grave ammalato. Ha vissuto il Vangelo autenticamente lasciandosi guidare dallo Spirito Santo, anche con e dentro i limiti del suo carattere e della sua epoca travagliata.

Testimonianze come la sua – e ribadisco che la testimonianza non è un’aggiunta alla vita cristiana, ma è la luminosità della vita cristiana autentica (Gesù ci ha infatti detto: «voi siete la luce del mondo) – ci dicono che il Vangelo è credibile e può essere vissuto nel e con l’amore di Dio e dei fratelli.

La sua testimonianza sarà particolarmente di aiuto a chi opera a favore dei marittimi nella “Stella Maris”, ma anche per tutti noi, che dove siamo e con la nostra vocazione, siamo chiamati a essere semplicemente cristiani con una fede operosa e con opere che esprimono la fede. Che sia così per tutti noi in quest’anno della fede, che non può non essere l’anno della carità.

† Vescovo Carlo