All’inizio del libro degli Atti degli Apostoli viene narrato l’ultimo dialogo tra Gesù Risorto e i suoi discepoli. Il contesto è molto bello e molto familiare. Il Risorto è a tavola con i suoi. Possiamo solo immaginare la loro gioia e la loro commozione nell’aver ritrovato vivo e glorioso – eppure così vicino nella sua umanità – il loro Maestro e Amico, morto in croce il venerdì santo. In quel momento di grande intimità, gli presentano la richiesta che a loro stava più a cuore: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (Atti 1,6). Come dire: “adesso che sei risorto, che hai sconfitto la morte, puoi portare finalmente a compimento le antiche promesse di Dio circa il suo Regno. Del resto ti avevamo seguito per questo, fidandoci del tuo messaggio – «il Regno di Dio è vicino» –. Poi eravamo rimasti delusi vedendoti catturato, condannato, flagellato, crocifisso. Ma ora sei risorto e tutto cambia…”.
Chissà che cosa avrà pensato Gesù, sentendosi rivolgere questa domanda. Probabilmente avrà constatato che nonostante tutto il suo insegnamento sul Regno di Dio, i discepoli non avevano per niente compreso il suo messaggio. Ma il Risorto non si inquieta, né rimprovera i suoi ascoltatori. Dice invece: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,7-8).
Una risposta evasiva? Sta di fatto che dopo queste parole – sempre stando agli Atti degli apostoli – Gesù sale al cielo e gli apostoli stanno a guardare in alto, finché due angeli li richiamano e vanno nel cenacolo per attendere in preghiera lo Spirito Santo e dare poi avvio all’avventura della Chiesa che è arrivata ai nostri giorni.
Ho pensato più volte in questo tempo a questo episodio con cui si apre il libro degli Atti. Mi sono immaginato a tavola con il Risorto, condividendo la gioia dei discepoli e la loro familiarità con Gesù. Avrei cambiato però la domanda: «Signore, è questo il tempo in cui ci donerai la pace?». Così gli avrei chiesto. Una domanda certamente non fuori luogo: non solo per quello che stiamo vivendo con grande preoccupazione, ma soprattutto perché la pace è il dono proprio del Risorto. Quando Gesù risorto appare, infatti, saluta sempre dicendo: «Pace a voi!». Non si tratta del semplice saluto in uso tra gli ebrei “shalom”, è molto di più. È una pace che è la pienezza di vita, di gioia, di amore. D’altra parte già durante l’ultima cena Gesù aveva promesso il dono della pace: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27). Pienamente legittima, dunque, la mia richiesta. E anche basata sulla convinzione, che è in realtà una costatazione del tutto condivisibile, che la pace o ci viene donata dal Signore o noi non siamo capaci di realizzarla e di renderla vera e stabile. Per i più ottimisti di noi, infatti, la storia umana è una realtà di pace purtroppo interrotta da tanti episodi e periodi di guerra. Non dico per i più pessimisti, ma per i realisti – e mi iscrivo in questa categoria –, la storia umana è invece una lunga teoria di guerre e di conflitti, interrotta da qualche tregua più o meno lunga, che chiamiamo pace. Anche Gesù sa molto bene come va il mondo e al suo dono della pace aggiunge queste parole: «Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). E sempre nell’ultima cena più avanti afferma: «Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).
«Allora, Signore, ci doni o no la pace?». L’abbiamo chiesta, tutta la Chiesa, anche per l’intercessione di Maria, tua e nostra Madre, il 25 marzo. Ma non vediamo segni di pace. Come mai? Quanta sofferenza ci deve essere ancora nel mondo? Quante guerre? Quanti morti? Quanto odio? È vero: non spetta a noi conoscere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato a sé e sappiamo che alla fine si compirà il regno di Dio – perché Dio è il «Dio della pace» (Rm 15,33) –, regno che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17) e che ci saranno «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). Ma intanto perché non intervieni?
La mia richiesta assomiglia molto a ciò che più volte viene ripetuto a Gesù inchiodato sulla croce: «salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!», «ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!» (Mt 27,40-43), «non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (Lc 23,39). Ma Gesù non scende dalla croce e muore. Lui che è Dio rispetta la nostra libertà, non interviene nelle nostre scelte, anche quando sono scelte di morte. Piuttosto le prende su di sé con tutte le loro drammatiche e tremende conseguenze. La risposta di Dio alla guerra, alla violenza, alla morte non è la condanna di chi uccide e neppure l’intervento miracoloso che disarma chi uccide, ma è la croce. Si fa fatica ad accettare questo, anche perché i crocifissi continuano a moltiplicarsi nella storia, che siano i bambini, ma anche gli uomini e le donne dell’Ucraina, della Siria, dello Yemen o di qualsiasi altra guerra non importa. La storia è una lunga via crucis, una strada con infinite croci piantate lungo i bordi. Sarà sempre così?
Ho scritto che la risposta di Dio è la croce: è vero, ma la risposta va completata. La vicenda di Gesù non si ferma al venerdì santo, ma arriva al mattino di Pasqua, la croce diventa risurrezione. La risurrezione non smentisce la croce, non la cancella: il Risorto ha le mani, i piedi e il costato piagati. Però ne svela il senso paradossale, misterioso, ma vero di vita e di amore. E questo apre alla speranza. Alla fine tutte le croci diventeranno risurrezioni.
Dobbiamo allora avere solo pazienza e attendere il compimento finale rassegnandosi a un mondo che sembra un unico calvario? Ma Gesù è già risorto, il suo Spirito è comunque all’opera già ora. Anche dentro questa storia spesso di morte e di cattiveria, ci sono segni di vita, di pace, di amore. Germogli di risurrezione. Occorre accorgersene, come già invitava a farlo il profeta Isaia a nome di Dio: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Isaia 43, 19). Papa Francesco in una sua catechesi di alcuni anni fa (23 agosto 2017), commentando un testo simile, questa volta tratto dall’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse («Ecco, io faccio nuove tutte le cose»: Ap 21,5), affermava, con la sua capacità di trovare metafore sfolgoranti, che noi cristiani «siamo gente più di primavera che d’autunno». A primavera non ci sono ancora i frutti, ci sono solo i germogli e non dappertutto. Alcuni campi sembrano ancora aridi; dei boschi sono ancora sconvolti dalle ultime tempeste di inverno. Ma anche lì, sotto terra, ci sono dei semi pronti a germogliare.
Auguro a tutti in questa Pasqua di essere “gente di primavera”. Nonostante tutto. Buona Pasqua, Vesela Velika Noč, Buine Pasche.
✠ Carlo Roberto Maria Redaelli
Arcivescovo
(immagine: Sarcofago di Raimondo della Torre, cappella dei Torriani, basilica di Aquileia, opera di maestranze aquileiesi del 1299)