L’immagine scelta per questa Pasqua riproduce un antico affresco, presente nella Chiesa di Fratta (Romans d’Isonzo), che presenta un episodio molto noto del Vangelo: la lavanda dei piedi. Si tratta di un gesto di Gesù che viene ripreso anche nella liturgia e precisamente il giovedì santo. Del resto è stato Lui stesso a chiederlo: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Giovanni 13,14-15).
La ripresa del gesto in un contesto liturgico non rende però la qualità dirompente di quell’azione di Gesù, che porta l’apostolo Pietro a opporsi in un modo deciso: «Signore, tu lavi i piedi a me?» e ancora: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!» (Giovanni 13, 6-8). Pietro, infatti, reagisce con forza perché Gesù non sta compiendo un rito e comunque un gesto qualsiasi, ma si sta comportando da schiavo. Nel contesto sociale di allora spettava infatti agli schiavi lavare i piedi al padrone di casa e ai suoi ospiti. Piedi non certo profumati e ben curati. Non usando le nostre calze e le nostre scarpe, camminando spesso a piedi nudi o comunque con dei sandali su strade polverose e infangate, si può immaginare come fossero quei piedi. Quello che sta facendo Gesù in una cena dove Lui è evidentemente il Signore (negli altri Vangeli si dice che è Lui a organizzare quella che sarà l’ultima cena, una cena pasquale, incaricando due suoi discepoli e usufruendo dell’ospitalità di una casa amica), è quindi totalmente al di fuori delle consuetudini sociali di allora. Si capisce quindi molto bene il disagio di Simon Pietro e degli altri apostoli.
Sempre riferendosi al Vangelo di Giovanni, ci si rende conto che la lavanda dei piedi non è un momento di passaggio, ma è centrale in quella cena: prende persino il posto dell’istituzione dell’Eucaristia che l’evangelista Giovanni non racconta, amplificando ancora di più il significato particolarissimo del comportamento di Gesù. Cosa che fa introducendolo con parole solenni: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Giovanni 13,1-5). Qualcuno ritiene che le parole con cui si inizia il capitolo 13 del Vangelo di Giovanni siano la solenne introduzione a tutto il racconto della passione. Non si può negarlo, ma la vera introduzione a ciò che Gesù sta per subire è proprio il gesto da schiavo che Lui compie.
Nel lavare i piedi, Gesù dimostra il suo amore per i discepoli, un amore che lo fa diventare servo, schiavo non solo in quel momento, ma anche e soprattutto sulla croce. Lì è la seconda volta in cui si presenta come schiavo, in questo caso non per sua scelta diretta, ma perché altri lo trattano come schiavo. Occorre ricordare che per i romani la crocifissione era la pena capitale riservata agli schiavi. I cittadini romani potevano anche essere condannati a morte, ma dopo un regolare processo, e in ogni caso con un’esecuzione della sentenza capitale che comunque rispettava la loro dignità di cittadini. Non era così per gli schiavi, inchiodati nudi su una croce, esposti al ludibrio e al dileggio di tutti, costretti a morire dopo una lunga e penosissima agonia. Gesù muore così, come uno schiavo. Il fatto, però, che Lui stesso nel gesto della lavanda dei piedi abbia scelto di essere schiavo per amore, manifesta il fatto che il suo morire in croce non è un caso fortuito. Certo è voluto da altri, ma Gesù lo sceglie come la manifestazione piena del suo amore «sino alla fine». La lavanda dei piedi, quel gesto da schiavo, è quindi ciò che svela il senso della croce.
Gesù non chiede ai suoi discepoli, a noi, di morire come Lui e di dare fisicamente la vita per amore: lo domanda solo a qualcuno, ai martiri. A tutti noi, però, chiede di compiere il suo gesto di servizio, il lavarci i piedi gli uni gli altri: questo sì. D’altra parte il dare la vita per amore non lo si improvvisa, ma è preparato da un amore che si fa concreto servizio agli altri. E il più delle volte si realizza non in un gesto eroico, ma nella continuità di un servire quotidiano.
Quale può essere allora il messaggio per questa Pasqua? Obbedire al comandamento di fare come Lui, cioè di amare gli altri nei semplici e preziosi gesti di ogni giorno. Una Pasqua da schiavi? In un certo senso sì, ma di persone che si fanno servi per amore dei fratelli e delle sorelle che incontrano nel cammino della vita, soprattutto di coloro che sono più in difficoltà. Sapendo che l’umile servizio per amore è ciò che fa crescere in fraternità. E tutti abbiamo coscienza di quanto abbia bisogno di ciò il nostro mondo, scosso e turbato da incomprensioni, divisioni, ingiustizie, odi, omicidi, guerre. Un augurio, allora, di una Pasqua di umile servizio, di una Pasqua di fraternità, di una Pasqua di amore.
+ vescovo Carlo