Una “restituzione” della visita pastorale

Wednesday 7 June 2023

Si è svolta lunedì 5 giugno 2023 nella parrocchia di san Nicolò a Monfalcone la prima serata dell’Assemblea diocesana 2023.  Pubblichiamo di seguito l’intervento del vescovo Carlo. 

Un caro saluto a tutti e grazie come sempre per la disponibilità a questo momento assembleare posto verso la conclusione del cammino di quest’anno pastorale ma con l’attenzione alla prossima tappa. Vorrei dare un primo riscontro della visita pastorale che si è svolta in questi mesi. La visita decanale cosiddetta “leggera” o “light”, che si sta concludendo in questi giorni, trova il suo fondamento in alcune righe della lettera pastorale per l’anno 2022-2023 “A Betania”.

Al n. 12 scrivevo: “In attesa di riprendere la visita pastorale interrotta dalla pandemia, vorrei comunque in questo anno pastorale incontrare singolarmente tutti i responsabili delle unità pastorali, le équipes (dove costituite), i consigli pastorali unitari”. Non molto.

Ma, come spesso succede, qualcosa cui non si dà magari inizialmente molta importanza si manifesta poi come una realtàsignificativa ed efficace. Nella progettazione pastorale capita anche il contrario: una proposta, un’iniziativa su cui si è investito molto dà dei risultati nettamente inferiori alle attese e, in qualche caso, è del tutto fallimentare. Difficile capire il perché: se è merito o colpa nostra, se è un caso, se c’è un disegno di chi con amore guida la nostra vita nel cammino verso il Regno.

Quest’anno l’impegno doveva essere soprattutto quello dei quattro cantieri del secondo anno della prima fase del cammino sinodale e, in parte, lo è stato, come anche sentiremo stasera (e colgo l’occasione per ringraziare l’équipe sinodale e le comunità che si sono date da fare). Ma non c’è dubbio che la “mini-visita” pastorale è diventata una realtà importante almeno per il quarto cantiere, quello della iniziazione cristiana. Per altro, perché la vita è sempre più complessa del previsto e soprattutto appunto – viva, la visita pastorale si è svolta in concreto in modo in parte diverso anche rispetto alla lettera che ho inviato a suo tempo ai Responsabili delle Unità Pastorali per offrire alcune indicazioni pratiche sul modo con cui svolgere la visita.

Riprendo allora alcuni passaggi di quella lettera. In essa veniva anzitutto spiegato il motivo della visita: «Scopo di questa visita pastorale un po’ particolare è triplice: incontrare anzitutto “sul campo” i sacerdoti e i diaconi impegnati nelle unità pastorali e nelle parrocchie vivendo qualche ora con loro; verificare come sta procedendo l’esperienza dell’unità pastorale, come potrebbe svilupparsi o anche nascere, coinvolgendo in particolare i consigli pastorali; fare il punto sulla iniziazione cristiana dei bambini, ragazzi e adolescenti in vista della delineazione di un progetto pastorale».

Questi tre scopi si sono in parte realizzati, ma se ne aggiunto un altro: come sta andando la ripresa dopo la pandemia. Un evento questo, durato praticamente tre anni, che ha segnato profondamente le nostre comunità, anzitutto in negativo.

In molti casi mi sono sentito dire: prima del Covid facevamo molte cose, riuscivano diverse iniziative, partecipavano tanti, ora molti hanno lasciato l’impegno, scarseggiano i catechisti, gli animatori, l’estate-ragazzi non si può fare, dobbiamo rinunciare al campo-scuola in montagna, non riusciamo a proporre niente per il dopo-cresima. Come vedete, gli esempi si riferiscono soprattutto alle attività con i ragazzi, anche per l’accento che si è voluto dare al tema dell’iniziazione cristiana. Ma ritengo che situazioni analoghe si presentino anche in altri ambiti come nel campo della liturgia e della carità. In positivo che cosa ha portato la pandemia o, meglio, la post-pandemia? Mi sembra di rilevare comunque la voglia di ripartire, spesso però tentando di riprendere come prima o rassegnandosi a ritenere chiuse certe esperienze e opportunità. Ma volendo con tenacia riprendere almeno gli elementi essenziali della vita cristiana. Non ci sono altri aspetti positivi? Forse non come ce li aspettavamo o come li desideravamo. Per esempio, non so in quante chiese il servizio di sorveglianza all’ingresso si sia trasformato in un ministero stabile di accoglienza.

Anche l’uso dei social, esploso nella pandemia, si è ovviamente ridimensionato, ma è difficile capire se ci ha insegnato un modo di comunicare più efficiente e coinvolgente. Si sono però moltiplicati le forme di collegamento tra le persone: ormai ognuno di noi è dentro molti gruppi per esempio di WhatsApp (e tenta il modo di difendersi…: in ogni caso ci sono aspetti positivi in questo, circa la velocità di comunicazione, ma anche negativi: basta che un influencer del gruppo dica che non viene o non partecipa per fare in modo che tutti la diano “buca”).

Che cosa si può fare? Ho trovato questi suggerimenti:

La pandemia ha messo a dura prova la vita pastorale delle parrocchie, impedendo la celebrazione dei sacramenti e la partecipazione alle attività comunitarie. Per riprendere il cammino di fede e di evangelizzazione dopo questo periodo difficile, si suggeriscono alcune azioni:

– Favorire la riconciliazione e il perdono tra i fedeli che hanno vissuto conflitti o incomprensioni a causa della pandemia.

– Organizzare momenti di preghiera e di riflessione sulla Parola di Dio, sottolineando il valore della speranza e della solidarietà cristiana.

– Promuovere iniziative di carità e di servizio verso i più bisognosi, soprattutto i malati, gli anziani e i poveri.

– Stimolare la creatività e la collaborazione tra i vari gruppi parrocchiali, valorizzando i doni e le competenze di ciascuno.

– Rinnovare lo stile comunicativo della parrocchia, utilizzando i mezzi digitali per raggiungere anche chi è lontano o isolato.

Come vi sembra? Questo testo che vi ho appena letto non è mio ma è stato generato da un programma di intelligenza artificiale cui ho chiesto: comporre un testo corto con stile professionale sul tema “suggerimenti per riprendere la vita pastorale delle parrocchie dopo la pandemia”. Interessante, no? O preoccupante? Ma l’intelligenza artificiale è una realtà con cui dovremo sempre più confrontarci.

Torno alla lettera che dava indicazioni sulla visita pastorale (questa l’ho scritta io, ve lo assicuro…).

Il primo ambito della visita pastorale riguardava l’incontro con i sacerdoti e così mi esprimevo:  

come primo punto dell’incontro vorrei avere una sintetica presentazione dell’Unità Pastorale (o delle Parrocchie affidate ai sacerdoti): situazione delle strutture ed economica, orari delle sante Messe e delle celebrazioni, situazione pastorale e sociale, situazione dei collaboratori;

vorrei poi incontrare personalmente ciascuno in riferimento in particolare a tre temi: l’impegno pastorale nella unità pastorale o nella/e parrocchia/e: le forme di fraternità tra sacerdoti e diaconi (in particolare se nell’unità pastorale o nelle parrocchie sono presenti più sacerdoti o diaconi); la gestione della vita quotidiana del sacerdote.

come testo di riferimento indico l’omelia del giovedì santo del 2015: “Tornare alle origini per sentirci mandati” e quella del 2022.

Di fatto, tranne in alcuni casi, l’incontro si è limitato al primo punto, cioè a uno sguardo complessivo sulla realtà dell’Unità Pastorale. Uno sguardo che mi è sempre apparso lucido, preciso e propositivo. Devo dire che i nostri preti sono “sul pezzo”, hanno una approfondita conoscenza della situazione, uno sguardo disincantato sui problemi, ma non perdono la passione per annunciare il Vangelo. Nessuno mi ha detto: mi sono stancato, sono deluso, lascio perdere, mi ritiro da qualche parte, … No, tutti desiderano con impegno, con passione e direi con lungimiranza servire il regno di Dio oggi, qui e ora dove il Signore ci ha collocato.

L’incontro personale si è invece limitato, anche per mancanza di tempo, solo ad alcuni e anche il tema della fraternità sacerdotale non è stato approfondito, come meriterebbe, e anche quello della gestione della vita quotidiana del sacerdote non è stato affrontato. In alcuni casi ho incontrato anche le religiose e alcuni diaconi, ma potrà essere interessante prevedere un incontro più sistematico in futuro con tutte le comunità religiose presenti in diocesi e anche con il gruppo dei diaconi.

Un secondo punto di confronto, questo sì invece sviluppato in tutti gli incontri, ha riguardato lo stato di salute della unità pastorale. Queste erano le domande indicate nella traccia:

come è il cammino comune? come si valorizza ciascuna comunità in un quadro di comunione? quali sono i ministeri e gli incarichi presenti e quali potrebbero essere potenziati in riferimento a una ministerialità diffusa? quali iniziative comuni si sono avviate o rafforzate tra le diverse parrocchie o potrebbero esserlo in un futuro? come è lo stato e l’uso delle strutture? come è l’orario delle celebrazioni? si può rivedere? come sta andando l’ascolto del cammino sinodale?

Indicavo come testi di riferimento i nn. 29-41 della lettera pastorale “… anch’io mando voi”, che sono tuttora molto attuali, oltre ad alcuni passaggi della lettera “A Betania”.

Devo dire che con mia grande soddisfazione ho constatato un approccio positivo verso le unità pastorali. Pur con la consapevolezza di qualche difficoltà e della necessità di un certo tempo per maturare una vera comunione tra le parrocchie interessate all’unità pastorale, mi sembra di poter dire che l’idea che l’unità pastorale possa essere in questo tempo una forma saggia e utile della presenza della Chiesa sul territorio è ormai acquisita.

Una presenza che non ha nessuna fretta di forzare l’unificazione delle parrocchie, che anzi vuole rispettare e valorizzare le diverse comunità con la loro identità, la loro storia, le loro caratteristiche evangeliche, le loro iniziative liturgiche, catechetiche, caritative, educative, ecc., ma in una sempre più profonda comunione, stima e azione comune.

Ho constatato che molte unità pastorali stanno crescendo anche attraverso semplici iniziative che però sono importanti come momenti di conoscenza comune; iniziative belle e coinvolgenti fatte insieme come pellegrinaggi, via crucis, processioni, feste, ecc.; attività educative affrontate insieme; occasioni di rapporto con le istituzioni civili del territorio e anche con il mondo delle associazioni vissute come unità pastorale.

Mi ha favorevolmente colpito anche il rapporto sereno tra preti e comunità. Salvo che al vescovo si sia voluto presentarsi con il volto truccato e con il vestito della festa (magari preso in prestito…), mi sembra che nessuna realtà stia vivendo situazioni di contrasto e di sofferenza. Questo è qualcosa di cui essere molto grati al Signore.

Sicuramente – e di questo sono molto convinto e sarà necessario trovare le strade per attuarlo – c’è ancora un lungo cammino per riprecisare la figura del sacerdote e il suo rapporto con la comunità e viceversa. Nell’immaginario dei preti e anche della comunità, esiste ancora l’idea di un prete a servizio della comunità con una molteplicità di ruoli che lo presentano, un po’ retoricamente, quasi come un eroe tutto dedito al Signore e alla comunità. Una comunità solo recettiva e che a sua volta attende tutto dal prete. Un prete, tra l’altro, tendenzialmente isolato dal presbiterio (e dal rapporto con il vescovo) e anche la comunità rischia di essere a sua volta isolata dalla diocesi.

Pur apprezzando la generosità dei sacerdoti e la disponibilità delle comunità, occorre dire che questo modo di vedere non si avvicina ancora alla figura del prete proposta dal Concilio Vaticano II e corrispondente a una Chiesa sinodale. La carità pastorale, chiave interpretativa proposta dal Concilio, vede il presbitero, inviato dal vescovo e in comunione con il presbiterio, dentro la comunità, una comunità che è il vero soggetto della missione (non anzitutto o da solo il prete) e che vive una reale partecipazione e una vivace ministerialità in un’ottica di sinodalità.

Ho parlato di “immaginario”, perché la realtà è già diversa: i nostri preti non sono isolati tra loro, ma hanno un bel rapporto soprattutto con alcuni (caso mai deve crescere il nostro presbiterio diocesano nel suo insieme); non sono al di sopra delle comunità, ma hanno in genere una rapporto cordiale e collaborativo con chi con loro condivide la vita quotidiana e le molte iniziative pastorali; le comunità sono attive, disponibili, sanno dire il loro parere con libertà (l’ho visto in molti consigli pastorali) e sanno impegnarsi. Ma anche l’immaginario conta (ha anche riflessi sulla pastorale vocazionale) e va quindi modificato a partire dal linguaggio: per esempio, per me la diocesi di Gorizia non è la “mia” diocesi, ma io sono il “suo” vescovo. Non è la stessa cosa.

Tra i tanti aspetti della vita delle comunità, molto positivi, che mi sono stati presentati nei resoconti fatti sia dai sacerdoti, sia dai consigli, ne sottolineo ancora solo un altro: la consapevolezza della necessità di un uso saggio ed evangelico delle strutture che porta a interrogarsi sul come utilizzare al meglio gli immobili che in questo momento sono vuoti o solo in parte impiegati per qualche attività. Occorre dire che già ci sono esempi molto significativi in questo: cito solo la disponibilità di canoniche vuote per accogliere gli ucraini o i migranti.

Sempre restando sul tema delle unità pastorali, in diverse occasioni ho richiamato due questioni su cui occorre ancora camminare. La prima è l’attenzione a chi da poco è venuto ad abitare nel territorio dell’unità pastorale. Ho l’impressione che si faccia fatica a superare l’etichetta di “foresti” subito appiccicata a queste persone e a queste famiglie per considerarli invece membri a pieno titolo della comunità. A volte la divisione tra il “noi” della comunità per così dire originaria e tradizionale e il “loro” costituito da chi è arrivato dopo non riguarda solo chi si è trasferito da poco, ma anche chi vive sul territorio da molti anni. Tra l’altro, in alcune unità pastorali, la richiesta dei pochi battesimi (e poi degli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana) vengono da queste famiglie: dovrebbe essere l’occasione per accogliere queste persone, farle sentire “a casa”, offrire loro la possibilità di partecipare con il loro stile e le loro capacità alla vita della comunità.

C’è molto da fare anche in questo ambito, soprattutto coinvolgendo insieme la pastorale battesimale e quella familiare e anche quella ecumenica e di attenzione al dialogo religioso quando queste persone appartengono ad altre confessioni cristiane o ad altre religioni.

Una seconda questione di cui si è parlato soprattutto in alcuni consigli pastorali è quella di una maggior apertura missionaria sul territorio, che deve partire da una sua conoscenza, da una relazione ancora più positiva (che in buona parte c’è già) con le amministrazioni, un rapporto più collaborativo con le realtà associative e sociali, un’attenzione e una presenza significativa nel mondo del lavoro. Su questa linea non vanno sprecate le occasioni di ascolto e di dialogo che il cammino sinodale ha attivato in diversi casi. Sono una vera “grazia” di cui essere riconoscenti al Signore e a chi si è dato da fare (e anche a chi ha accolto l’invito all’incontro e al dialogo).  

 

Non entro sul terzo punto che ha caratterizzato la mini visita pastorale, cioè l’iniziazione cristiana. Ne parlerà tra poco fra’ Luigi, vero e proprio “convisitatore” paziente, accogliente e con una capacità di lettura della realtà basata su un serio approfondimento e insieme con una saggia e propositiva attenzione all’esistente e ai piccoli passi che si possono fare. Un’ottima risorsa per la nostra diocesi.  

Concludo ricordando due elementi tutt’altro che secondari della visita: la celebrazione della Santa Messa, che talvolta ha coinvolto una buona rappresentanza della comunità (in qualche caso con la presenza del sindaco) e il momento conviviale. Un’occasione, quest’ultima, per constatare ancora una volta la “golosità” del vescovo e il suo rinviare “sine die” i propositi di dieta…, ma soprattutto per un incontro cordiale con molte persone, tutte – lo dico con molta ammirazione – appassionate del Signore e della loro comunità.

Grazie a tutti della vostra accoglienza e buon lavoro.

+ vescovo Carlo