Assemblea diocesana: mercoledì 23 la conclusione a S. Nicolò

Monday 21 June 2021

Dopo il primo incontro del 9 giugno a Cervignano e la successiva fase decanale, l’assemblea diocesana vive il suo momento conclusivo mercoledì 23 giugno alle 20.15 quando i consigli delle varie parrocchie e unità pastorali sono convocati a Monfalcone – S. Nicolò per ascoltare quanto emerso dagli incontri e le conclusioni dell’arcivescovo a partire da questo esercizio di discernimento e sinodalità.

***

Il duomo di Cervignano ha ospitato mercoledì 9 giugno, la prima tappa dell’Assemblea diocesana svoltasi quest’anno in modo diffuso nel tempo e nello spazio.

Nell’introduzione della serata, don Nicola Ban, vicario episcopale per l’evangelizzazione ed i sacramenti, ha sottolineato la dimensione sinodale di questo appuntamento (sulla scia anche di quanto sollecitato da papa Francesco alla Chiesa italiana) per rileggere insieme il tempo complesso che anche la Chiesa diocesana ha vissuto nei mesi scorsi invitando però tutti ad un contributo capace di guardare al futuro con speranza, camminando insieme.

All’inizio della propria riflessione, don Giovanni Cesare Pagazzi (teologo e docente della diocesi di Lodi, Ordinario, fra l’altro, di Teologia presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia e autore di numerose pubblicazioni) ha invitato a non rapportarsi in modo retorico al termine “fraternità”.

La fraternità non è una nostra decisione. Nella “Fratelli tutti”, è papa Francesco stesso a evidenziare che non siamo noi a poter decidere se essere o meno fratelli degli uomini e delle donne create dal Signore e come tali comportarci: lo siamo già, indipendentemente dalla nostra volontà, per il semplice fatto di essere venuti al mondo.

La Sacra Scrittura ci ricorda che la prima morte che ha colpito l’umanità è stata la conseguenza di un fratricidio: la Bibbia ci presenta quello fraterno come il legame più duraturo ed indissolubile ma anche più difficile da vivere perchè, solitamente, è proprio in esso che sbocciano le rivalità.

La fraternità è quindi “una specie di risonanza magnetica che ci fa vedere oltre la pelle pulita o truccata della nostra anima: un esame che mette a nudo gli organi interni dell’anima, dandoci esiti che, magari, non vorremmo conoscere”.

Don Pagazzi ha fatto riferimento a quello che ha definito “il testo fondamentale della fraternità” nell’Antico Testamento, ovvero la vicenda di Caino ed Abele invitando a leggerla alla luce del concetto di “abbandono”.

Dio predilige Abele accettando solo il suo sacrificio ed escludendo in questo modo Caino: eppure al primo Dio non dice neanche una parola, non esprime alcun ringraziamento mentre con il secondo instaura un dialogo. È convinto che Caino ce la farà, lo accusa dell’omicidio del fratello ma sembra quasi contemporaneamente difenderlo.

Il problema di Caino sta nella paura derivante dalla convinzione che la scelta del fratello significhi automaticamente la sua esclusione: lui teme che Dio abbia un solo posto, che sia troppo povero per salvare anche la sua vita.

La fraternità è il legame che porta a galla la rivalità fra i due fratelli; una rivalità, però, che è segnale di quella paura che è la regina della nostra anima e a cui tutti i nostri peccati vogliono essere maldestra risposta. Se osserviamo un avaro, ad esempio, ci rendiamo conto che il suo problema non è l’avarizia (che è sintomo del suo stato d’animo) ma la paura di non avere a sufficienza per il proprio futuro, condizione che lo porta a ritenere di non poter condividere i propri beni con gli altri,

Ma la paura – ed è questa la lettura che papa Francesco propone anche… – è già una reazione: la vera radice amata e profonda è il sentirsi lasciati soli. Ed è proprio il senso dell’abbandono a scatenare quella paura a cui ciascuno da ragione secondo modi propri: ci sembra di essere figli e figlie di uno che ci ha messo al mondo ma che non è capace di custodire la nostra vita, obbligandoci ad arrangiarci da soli.

Il senso di abbandono è la conseguenza del nostro giudicare Dio profondamente incompetente: quando pecchiamo lo pensiamo anche buono ma incapace quando le cose diventano concrete tanto che ci sembra quasi di essere figli e figlie di uno che ci ha messo al mondo ma non è capace di custodire la nostra vita tanto che dobbiamo arrangiarci da soli.

In questa stagione della storia dell’uomo e della Chiesa, profondamente segnata dal Covid-19, il senso di abbandono è emerso in un modo che in precedenza non avremmo mai pensato di poter sperimentare: i mesi che abbiamo alle spalle ci hanno fatto perdere tutte le sicurezze, anche quelle elementari, tanto da farci sentire ancora più abbandonati.

La stagione della vita in cui ci sentiamo più abbandonati è probabilmente l’età di mezzo ma su di essa la Chiesa ha investito molto meno che sulla stagione giovanile. La mezza età – perno fra la giovinezza e l’anzianità – è quella dove ci si trova per certi versi al culmine della propria vita ma è anche quella dove la morte comincia, in vari modi, a bussare all’esistenza di ognuno. In questo tempo – dove i fallimenti affettivi e professionali diventano dieci volte più seri di quelli che ci colpiscono in altri periodi – ci si sente un po’ abbandonati anche da quella Chiesa che ci chiede ma non sempre ci dà.

Nello svezzamento, il bambino comincia ad essere ogni giorno un po’ più autonomo e la mamma allunga, progressivamente, il tempo in cui lo lascia da solo. Si tratta di un’esperienza magica nella vita di ogni persona: se la mamma ha dato prova della sua affidabilità, il bambino sa che la può aspettare e sarebbe tornata e riesce a stare sempre più solo. L’andirivieni della mamma – che si allontana ma poi torna a farsi vedere – a poco a poco assume una frequenza sempre più distesa: probabilmente le prime volte il piccolo piange disperato ma se la mamma è sempre pronta ad accorrere ad ogni vagito non lo farà crescere. Il bambino ha anche necessità di provare la solitudine e l’abbandono per cominciare a riempire questo vuoto con qualcosa di nuovo – che molto spesso è il gioco – imparando in questo modo a crescere, a diventare grande.

Questa esperienza di effettivo abbandono che proviamo – come avviene in questa stagione segnata dal Covid – rappresenta un frammento dell’andirivieni di Dio madre anche in questo inizio di terzo millennio.

Se ci sentiamo abbandonati, Dio ci dice: “crea, gioca, non aspettare che io sia sempre lì”.

Gesù ha parlato di questo continuo andirivieni di Dio nella parabola del re che distribuisce un po’ di denari ai suoi servitori prima di allontanarsi per tanto tempo. Mentre il terzo servo si deprime e sotterra quanto ricevuto, gli altri due inventano modalità diverse per farlo fruttare.

Anche Gesù nel momento dell’abbandono non sente il Padre sempre presente tanto che Luca racconta nel suo vangelo un angelo giunge a consolarlo e poi se ne va.

La cura del senso di abbandono, quindi, è la consolazione: la vera consolazione la offre la mamma proprio lasciando solo il bambino nella sua stanza perchè in questo modo è come se gli lanciasse un messaggio preciso: “Io lo so che tu puoi stare da solo ed inventarti un mondo nuovo”.

Ecco allora l’importanza di sentirsi addosso questa “tifoseria di Dio” che pare rivolgerci a ciascuno di noi eclamando: “Tu puoi! Riesci! Inventa!”, anche in una stagione non esaltante come quella che stiamo vivendo.

La fraternità ci rivela la nostra paura e ci espone al male ed alla tristezza ma l’abbandono è anche la grande opportunità che Dio ci porge per inventare il presente ed il futuro della Chiesa.

La teologa Moira Scimmi (consacrata nell’ordo virginum della diocesi di Milano, teologa, docente di religione nella scuola secondaria di secondo grado, svolge la sua diaconia presso la Casa della Carità) è partita nel proprio intervento (dal titolo “Ministri a servizio della diakonia di tutti”) riferendosi quelli che sono stati i suoi compagni di studio nei mesi dell’isolamento dovuto al Covid-19: Giovanni Crisostomo e Olimpia, impegnati nel quinto secolo a servire la Chiesa di Costantinopoli, lui come vescovo, lei come diaconessa.

In una delle loro lettere, indicando i criteri da seguire per vivere il servizio nella Chiesa, il teologo sottolinea che bisogna essere come la donna di cui parla il Vangelo che ha offerto due spiccioli: con questo suo atteggiamento ha superato tutti quelli che presentavano oboli maggiori perchè ha rinunciato a tutto quello che aveva.

Similmente la relatrice ha voluto offrire “due spiccioli” alla riflessione dell’assemblea.

Il primo spicciolo ha preso spunto dalla parte iniziale del titolo del suo intervento “la diakonia di tutti”, evidenziato l’importanza di una Chiesa capace di essere tutta ministeriale.

Il dato maggiore di dignità che portiamo è il nome iscritto nel nostro battesimo: alla base del nostro battesimo c’è, infatti, il Credo e di esso la relatrice ha proposto una rilettura alla luce della diakonia gli articoli che riguardano la Chiesa.

Credo la Chiesa:

“una”: servire la Chiesa una significa uscire dalle trappole dei conflitti ed impegnarsi per la comunione nelle differenze. Si serve la “Chiesa una” quando si entra in dialogo, quindi, anche con chi non la pensa come noi

“santa”: servire la santità nella Chiesa significa non chiudersi nella propria idea della santità ma ricordarsi che essa è incarnata e che cerca sempre di incarnarsi nella realtà di oggi, realizzando opere di giustizia.

“cattolica”: si serve la cattolicità nella Chiesa sapendo essere comunità in cammino, coi piedi per terra e gli occhi aperti su tutto. Questo avviene quando non si è ossessionati da questioni limitate o particolari ma, senza sradicarsi, si allarga lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porta beneficio a tutti. Parole come “fratelli tutti”, “laudato si’” sono cattoliche, quindi, proprio perchè offrono un respiro ampio rimanendo radicati nella realtà.

“apostolica”:  il servizio all’apostolicità si esprime non cercando di occupare spazi ma avviando processi a lunga scadenza, lavorando senza l’ossessione dei risultati immediati, sopportando con pazienza situazioni difficili e avverse o la necessità di cambiamenti repentini dei piani iniziali.

Moria Scimmi ha proposto come conseguenza di queste riflessioni la possibilità di sviluppare incontri di catechesi parrocchiali, esercizi spirituali comunitari in cui ripensare nella dinamica del servizio il nostro essere nella Chiesa: questi momenti potrebbero concludersi con la consegna di un grembiule bianco, in memoria della veste ricevuta il giorno del battesimo a testimoniare che la chiamata alla diakonia è iscritta già nel momento del battesimo.

Il secondo spicciolo ha riguardato l’essere “Ministri a servizio”.

In una Chiesa tutta ministeriale, uno presiede, alcuni sono posti a servizio e poi ci sono i “tutti”.

Gli alcuni sono coloro che esplicano dei ministeri ordinati con il sacramento (diaconi, presbiteri, vescovi) ma anche coloro che sono istituiti con la parola di benedizione (accoliti, lettori, catechisti…) e pure uomini e donne di buona volontà disponibili a servire all’altare, a fare la catechesi ai ragazzi…

Come pensare, allora, le relazioni fra i vari ministeri della Chiesa, fra uno, alcuni e tutti?

Si può partire dall’uno, l’autorità che ordina, il vertice; gli alcuni rappresentano l’autorità ed i tutti finiscono per dividersi in clero e laici. A fare la differenza è chi presiede: è lui, in relazioni così istituite, a dare il tono al tutto. Quando cambia chi presiede in una comunità cambia, muta il tono dello stare insieme e delle relazioni.

Si può poi, pensare alla relazione a partire dagli alcuni. L’uno che presiede, in questo caso, è l’autorità che organizza e tiene le fila mentre gli alcuni sono i responsabili dei vari settori ed i tutti formano un gruppo organizzato. In questo caso sono i ruoli dei vari responsabili a fare la differenza. In questo tipo di relazione chi presiede deve mantenere le fila fra i vari responsabili e si formano a volte dei gruppi.

In entrambe le due relazioni precedenti c’è insito un forte pericolo di clericalismo: corriamo però molto meno questo rischio se poniamo ciò che fa la differenza non nell’uno o negli alcuni ma al posto giusto, cioè nel tutti.

Siamo tutti differenti e se, quindi, pensiamo alle relazioni nella Chiesa fra vari ministeri proprio partendo dal tutti abbiamo dinanzi agli occhi l’immagine del poliedro proposta da papa Francesco. Qui colui che presiede facilita, autorizza le relazioni fra i vari ministeri; gli alcuni sono testimoni di fede, di umanità e di diakonia; i tutti sono un cantiere aperto.

Solo in questo caso si eviterebbe la discriminazione perchè tutti siamo differenti: non si parlerebbe più, ad esempio, del ruolo delle donne nella Chiesa perchè sarebbe il guardare dal punto di vista di alcuni rispetto ad altri mentre piuttosto bisogna chiedersi quale sia il ruolo di ciascuno di noi in una Chiesa tutta ministeriale.

In questo caso i ruoli partirebbero dalle competenze, dai carismi di ciascuno e non dal semplice rivestire un ruolo.

Le conclusioni sono state portate dal vescovo Carlo.

***

Questi i materiali suggeriti dai relatori per l’approfondimento negli incontri decanali

Assemblea Diocesana 2021 fase decanale

Assemblea diocesana di Gorizia Serena Noceti,

Corresponsabili nella Chiesa

Gli incontri si terranno:

  • per il decanato di Cervignano-Aquileia-Visco lunedì 14 giugno a Cervignano;
  • per il decanato di Gorizia martedì 15 giugno alle ore 20.30 presso la chiesa di Santa Maria Assunta dei Padri Cappuccini;
  • per il decanato di Monfalcone-Ronchi-Duino giovedì 17 giugno alle 20.30 a S. Nicolò-Monfalcone;
  • per il decanato di S. Andrea martedì 15 giugno alle 20.30 presso la chiesa di S. Andrea.