Tornare alle origini per sentirci mandati (2015)

Thursday 2 April 2015

Giovedì Santo, 2 aprile 2015, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale la Messa crismale pronunciando la seguente omelia:

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato…». Anche su ciascuno di noi, vescovi, presbiteri e diaconi è stato invocato lo Spirito al momento della nostra ordinazione; anche noi siamo stati consacrati con il Sacro Crisma che in questa Messa crismale viene benedetto. La conclusione inevitabile è che anche noi siamo mandati.

“Mandati”. Non ci si automanda, ma Qualcuno manda, perché non si sceglie, ma si vieni scelti: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Quel Qualcuno che sceglie e invia è Gesù, che ci manda come Lui è stato mandato dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).

Non ci si può fermare se si è mandati, occorre andare. Il nostro percorso potrà finire solo quando arriverà ai confini del mondo, perché ci è stato detto: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). E niente e nessuno deve bloccare o distrarre il nostro andare: «non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada» (Lc 10,4), ordina Gesù ai settantadue che vengono inviati.

Non si decide da sé il contenuto del mandato, spetta a chi invia affidare il compito:

«vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto». Il compito che deve fruttificare è lo stesso di Gesù: «portare ai poveri il lieto annuncio, proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Ma è proprio così per ciascuno di noi? Se guardiamo con realismo la nostra situazione può sorgere qualche dubbio sul nostro essere mandati con le caratteristiche appena descritte. Sì, è vero, all’inizio del nostro ministero c’è stata una chiamata, non un’autopresentazione. Anche l’incarico che svolgiamo ci è stato dato e non lo abbiamo scelto (qualche volta, anzi lo abbiamo accolto con fede e disponibilità, ma anche con qualche sofferenza…); come pure il contenuto del mandato è l’esercizio del ministero di

presbitero e di diacono.

Ma poi? A volte il nostro essere mandati si è fermato per decenni dopo qualche passo iniziale e gli orizzonti si sono ristretti. Qualche volta le giuste relazioni sono diventate legami non sempre liberanti. I contenuti del nostro parlare e del nostro agire, senza magari volerlo ma sentendoci chiamati per dovere a comportarci così, spesso non sono il portare il Vangelo ai poveri, il proclamare la liberazione ai prigionieri, ecc. ma il tenere in piedi le strutture, il cercare le risorse, il mantenere l’esistente e la “tradizione”, il rispondere alle esigenze e talvolta alle pretese delle solite persone o dei soliti gruppi cercando di salvare la comunione con tutti.

Anche la nostra comunità nel suo insieme, l’intero popolo di Dio che è oggi questa Chiesa diocesana, fa fatica a mantenere il dinamismo dell’essere mandati, pur consapevole e riconoscente per la ricchezza della tradizione che affonda le sue radici nell’epoca apostolica, per la generosità di tanta gente, per l’impegno profuso senza risparmio dai sacerdoti, dai diaconi e da chi con loro condivide il carico del lavoro pastorale.

Come è possibile recuperare la freschezza, la dinamicità e l’entusiasmo di essere mandati sia a livello di singoli, sia di comunità?

Una strada da percorrere è quella di “tornare alle origini”. Il senso della proposta, lo scorso anno, della redazione degli “atti della comunità” era proprio questo: riscoprire “chi è la Chiesa” e quindi chi sono o devono essere le nostre parrocchie, partendo dall’esperienza fondante e normativa della prima comunità cristiana. Questo è stato l’impegno suggerito a tutti, che non deve considerarsi terminato. E’ necessario, infatti, tornare sempre a Gerusalemme, ad Antiochia, a Roma, a Corinto, ecc. per essere sicuri di essere comunità cristiane autentiche a Gorizia, Monfalcone, Cormons, Gradisca, Duino, e così via.

Completerò nelle prossime settimane l’incontro con le realtà parrocchiali e non che mi hanno inviato i loro “atti”. Colgo l’occasione per ringraziare le comunità e i consigli pastorali, con i loro parroci, sacerdoti e diaconi, che hanno lavorato con impegno e mi hanno accolto dimostrando un vero desiderio di rinnovamento per essere “sale e luce della terra” (cf Mt 5,13-16). Ogni sera sono rientrato a casa molto consolato.

E’ vero, qualche comunità si è rapportata molto profondamente con la prima Chiesa, per qualche altra il confronto è stato invece più formale, altre infine si sono limitate ad autodescriversi senza un esplicito riferimento agli Atti degli apostoli (ma non mancava certo quello implicito…). Non era, però, un compito da portare a termine per fare bella figura con il vescovo o con le altre parrocchie: occorreva essere autentici. Mi pare sia stato così. Ma ora è necessario proseguire con pazienza, con i tempi necessari, con umiltà e dedizione, ma con la voglia di essere una comunità “mandata”.

Un passo su cui stiamo già riflettendo, ma che dovremo affrontare prossimamente, è quello della relazione pastorale più intensa tra comunità nelle forme che già si stanno sperimentando o in altre che, facendo tesoro anche dell’esperienza di altre diocesi, si riterrà opportuno mettere in atto.

A proposito delle “unità pastorali” vorrei, però, correggere una visione che non coglie il vero motivo del loro nascere. Questo non è la scarsità presente o futura di clero: per ora il numero di sacerdoti e di diaconi è sufficiente e, se fosse solo questo il problema, oggi sarebbe ancora possibile chiedere aiuti ad altre Chiesa o accogliere qualche prete proveniente da altre esperienze. Ma la questione non è questa. La spinta a mettersi insieme tra comunità – un mettersi insieme che non deve assolutamente far perdere l’identità e i carismi di ogni realtà ma deve porli a servizio di altri – è la missione.

Faccio un semplice esempio concreto, che ricavo da quanto ho ascoltato in diversi consigli pastorali. Pensiamo a due o tre parrocchie che da sole non riescono a garantire un percorso significativo e unitario per i sacramenti della iniziazione cristiana e per le proposte giovanili, un itinerario che vada dal Battesimo all’ingresso nell’età adulta. Mettendo insieme persone, risorse, strutture, soprattutto se ci si trova in un tessuto sociale e in un contesto geografico omogenei, si può invece avere una forza sufficiente per una proposta seria. Non necessariamente destinata al successo, perché in ogni caso c’è lo spazio per la libertà. Ma sarebbe una libertà chiamata a confrontarsi non con qualcosa di frammentario o di insufficiente, ma con un progetto ben pensato e organizzato.

Il ritorno alle origini vale anche per ciascuno di noi, vescovi, presbiteri e diaconi. Tornare alle origini in questa Eucaristia in cui, tra l’altro, con molta gioia ricordiamo diversi anniversari di ordinazione e in cui tra poco rinnoveremo le promesse sacerdotali. Tornare alle origini con la coscienza di aver sperimentato noi per primi quanto siamo chiamati ad annunciare agli altri: noi siamo i poveri, continuamente segnati dalla fragilità, cui è stato proclamata la buona notizia; noi siamo i prigionieri, ingabbiati spesso dall’egoismo, cui è stata donata la libertà; noi i ciechi, incapaci di vedere l’opera del Signore con occhi di fede, cui è stata data la vista; noi gli oppressi, schiacciati dal peso dei peccati, cui è stata offerta la grazia. Tornare alle origini in una preghiera che faccia memoria dei passi compiuti e in una riflessione che ci faccia rivivere – certo purificato dall’esperienza maturata – l’entusiasmo per il Vangelo. Tornare alle origini sentendoci sotto l’azione dello Spirito, con nessuna altra realtà che ci stia a cuore più del Regno di Dio.

Vorrei “tornare alle origini” con ciascuno di voi. Un nostro sacerdote mi ha scritto tempo fa lamentando il fatto che non gli ho mai chiesto della sua vocazione, della sua storia, del suo cammino. Ha ragione e faccio mea culpa.

Vorrei rendere tutto ciò concreto. Dopo aver riflettuto, essermi confrontato e aver pregato, ritengo utile, terminato il giro di incontri per gli atti della comunità (e, naturalmente, se qualche parrocchia vuole aggiungersi c’è sempre tempo…) dedicare per qualche mese alcuni pomeriggi per andare a incontrare ogni sacerdote lì dove vive. Vorrei stare insieme un po’ di tempo per conoscere il cammino fatto da ciascuno partendo dalle “origini”, per essere al corrente del modo di vivere di ognuno, per avere qualche dato in più sulla parrocchia, per condividere la stessa passione per il Vangelo, per intuire qualche prospettiva futura per il sacerdote e per la comunità o le comunità da lui seguite, per ascoltare suggerimenti per il cammino della diocesi, e così via.

Qui, però, non interessa elencare i dettagli dell’iniziativa, che si avrà modo di precisare anche a partire da qualche prima esperienza (e, in ogni caso, attendo suggerimenti…). Ciò che conta è vivere una modalità di incontro che ci aiuti a far crescere la consapevolezza di essere insieme, vescovo e presbiteri, un unico presbiterio “mandato” ad annunciare e testimoniare il Vangelo in questa nostra bella terra (naturalmente anche con i diaconi cui proporrò la stessa esperienza).

Da ultimo vorrei condividere con voi una riflessione che ho maturato in questi giorni sullo stile di papa Francesco. Mi hanno colpito, infatti, le scelte operate a favore dei senzatetto – chiamiamoli così – che stazionano in piazza San Pietro. Mi sono domandato che cosa avrei fatto se fossi stato il papa o, meglio, un suo collaboratore incaricato della cosa. Probabilmente avrei istituito una commissione per studiare il problema, le sue cause, le sue possibili soluzioni e, in concreto, avrei solo suggerito di essere più generosi con le elemosine a loro favore.

Che cosa ha fatto invece papa Francesco e il suo ottimo collaboratore? Semplicemente si sono chiesti di che cosa hanno bisogno questi uomini per essere persone: il mangiare lo hanno già dalla mensa delle suore di Madre Teresa, ma non hanno da lavarsi: ecco pronte le docce; sono per definizione “barboni”, trascurati nella cura della persona: ecco i barbieri volontari e gratuiti; sono visti male dalla gente e tenuti ai margini: ecco che le persone devono ricevere proprio da loro i doni del papa durante l’Angelus; non hanno occasione di vedere e gustare qualcosa di bello: ed ecco la visita guidata nei giardini vaticani e alla cappella Sistina, perché una persona è tale quando gioisce per il bello. Obiezione: ma sono ancora senzatetto… E’ vero, forse sarà un problema affrontato nel futuro, ammesso di poterlo risolvere, però intanto è stata data loro la dignità di persone.

Come mi piacerebbe che non solo nel campo della carità, ma anche in quello della catechesi, della formazione, della liturgia, ecc. avessimo questo stile, insieme realistico, concreto, immediato e capace di promuovere la persona e la comunità… Un sogno? O un modo semplice e autentico per vivere il nostro essere mandati?

† Vescovo Carlo