Nel pomeriggio di venerdì 15 aprile 2016, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia nel corso della quale è stata chiusa la Porta della Misericordia che era stata aperta all’inizio del mese di gennaio nel santuario di Rosa Mistica a Cormons.
Stasera viene chiusa la porta della misericordia di questo santuario. Viene sbarrata una porta di una chiesa, ma non si chiude certo la porta del cuore misericordioso di Dio.
La porta della misericordia, che è stata aperta qui tre mesi fa, è stata solo un segno dell’abbraccio accogliente e misericordioso del Padre. Un segno che è stato un richiamo ascoltato, se dobbiamo prestar fede alla testimonianza dei sacerdoti che in queste settimane hanno accolto qui, a nome del Signore, tante persone. Uomini e donne che, magari dopo anni, hanno sentito la necessità di un abbraccio paterno, di un perdono, di un amore vero, di un ripartire sulle strade del Vangelo. Di questo dobbiamo dire grazie al Signore. Lui anche oggi e non solo duemila anni fa, come ha fatto con Paolo (lo abbiamo ascoltato nella prima lettura), è capace di convertire, di cambiare i cuori, di dare una direzione diversa alla vita, di offrire pienezza di senso e di gioia a un uomo, a una donna che accolgono il suo perdono. Ma è giusto che un segno abbia una sua conclusione. Non perché è venuta meno la realtà di cui è stato appunto “segno” – la misericordia di Dio in questo caso –, ma perché nel nostro sentire umano ciò che mantiene una eccezionalità ha una forza di richiamo molto più forte di ciò che diventa abituale.
Ci sono, però, dei segni che non sono destinati a finire almeno finché non saremo tutti nel Regno di Dio, dei segni della Chiesa che hanno una loro efficacia, una loro forza perché animati dallo Spirito. Si tratta dei sacramenti, in particolare la Riconciliazione e l’Eucaristia che qui sono vissuti e verranno ancora vissuti con pienezza e abbondanza anche in futuro. Colgo anzi l’occasione per suggerire ai sacerdoti del decanato e delle parrocchie che hanno in questo santuario un significativo punto di riferimento, di pensare, in accordo con i consigli pastorali (immagino che lo abbiano già fatto…), dei modi attraverso i quali l’esperienza vissuta in questi mesi, in particolare quella della programmata presenza per le confessioni, possa trovare una continuità. E con la disponibilità per le confessioni anche quella all’ascolto soprattutto delle situazioni di sofferenza, in particolare con riferimento alle famiglie.
La recentissima esortazione apostolica di papa Francesco Amoris laetitia, su cui prossimamente ci confronteremo in diocesi nel consiglio pastorale e in quello presbiterale, potrà offrirci molti spunti per un’attenzione realmente evangelica a chi è in difficoltà, ma anche a chi – penso in particolare ai giovani – non vuole rinunciare a vivere l’amore secondo la pienezza della proposta cristiana.
Il cammino indicato dal Vangelo è esigente, ma affascina perché è vero, è autentico, realizza la nostra umanità. E come potrebbe essere diversamente? Il Signore che ci ha creati e ci ama fin da prima della creazione del mondo, sa bene che cosa cerca il nostro cuore, sa bene che cosa ci può donare pace e gioia.
Il nostro percorso verso la verità e l’autenticità è lungo e spesso faticoso e contorto. Può capitare che, come Saulo, pensiamo in buona fede che sia giusto qualcosa di oggettivamente sbagliato: il futuro apostolo riteneva suo preciso dovere persino una cosa aberrante come perseguitare la Chiesa nascente, imprigionando chi credeva in Gesù. Altre volte ci imbroglia l’illusione di qualcosa che si presenta come una facile risposta al nostro desiderio di amore e di realizzazione, ma in realtà ci regala al più solo una momentanea soddisfazione lasciandoci in bocca un sapore di amaro. In certe circostanze sono la pigrizia, la distrazione, la dissipazione che ci portano lontano dal cammino vero. Non mancano poi situazioni di fatica dovute a scoraggiamenti e depressioni. Ma il Signore non cessa di chiamarci a una vita vera. Il Signore ha sempre misericordia di noi. Ci viene a cercare sulle nostre vie di Damasco, continuamente ci perdona e ci fa ripartire anche con l’aiuto della Chiesa.
A questo proposito è molto interessante notare, circa la conversione di Paolo, che il Signore non risolve tutto Lui, ma affida il futuro apostolo alla mediazione della Chiesa, in particolare ad Anania: «tu alzati, entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare», dice Gesù a Saulo, e poi appare ad Anania e lo manda da Saulo aiutandolo a vincere le sue comprensibili paure verso l’ormai ex persecutore.
Oltre a concederci il perdono, il Signore sostiene il nostro cammino con un cibo speciale: la sua Carne e il suo Sangue, presenti sacramentalmente nei segni eucaristici del pane e del vino. Ce ne parla Lui stesso nel Vangelo di oggi. L’Eucaristia non è il premio per i perfetti – altrimenti la potremmo ricevere solo in paradiso, dove però avremo la comunione diretta con il Signore non più mediata dai segni sacramentali –, ma il cibo che sostiene il nostro cammino. E’ vero, lo diciamo ogni volta: “Signore non sono degno…”, ma possiamo aggiungere: “e però Tu mi guarisci, ti doni a me come cibo, mi sostieni nel cammino della vita”. Un cibo speciale: non siamo noi ad assimilarlo, come avviene per qualunque cosa che mangiamo, ma siamo noi che veniamo progressivamente assimilati a Lui, acquisiamo i suoi sentimenti, la sua accoglienza della volontà del Padre, il suo amore, la sua capacità di servire. Non solo, ma l’Eucaristia diventa il cibo che ci dona la vita eterna, che vince la morte e la paura della morte che il diavolo usa per incatenarci nel nostro egoismo: «Chi mangia questo pane vivrà in eterno» è la promessa di Gesù.
Ringraziamo pertanto il Signore per tutte le grazie che ha voluto riversare su questo santuario in queste settimane. Ringraziamo Maria, Rosa mistica, che come madre premurosa e nostra sorella nell’essere discepola del Signore, ci ha sostenuto e ci sostiene con la sua intercessione. Continuiamo ad accorrere a questo luogo di grazia, ma anche a tutte le chiese dove ci vengono donati la Parola del Vangelo, il perdono del Padre, il Corpo di Cristo come cibo. E’ grazia, è gioia, è amore che Dio ci dona.
† Vescovo Carlo
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Nel pomeriggio di sabato 16 aprile 2016 è stata aperta solennemente la Porta della Misericordia nel santuario di Barbana sull’isola della laguna di Grado.
Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato mi ha fatto venire in mente certe rappresentazioni pittoriche della strage degli innocenti, dove si vedono i soldati strappare ferocemente dalle braccia delle mamme i piccoli bambini di Betlemme. Purtroppo non è un ricordo di un fatto lontano o la fantasia di qualche artista, ma è una scena che si è ripetuta tantissime volte nella storia e si ripropone spesso anche oggi, quando la ferocia umana non ha limiti e prova persino, se non gusto, almeno esaltazione nel prendersela con gli innocenti e i deboli.
“Strappare”: un verbo violento, forte, brutale. C’è la possibilità di essere “strappati” anche per noi. Strappati dalla vita, strappati dagli affetti, strappati da noi stessi. Strappati per essere – ormai inermi e indifesi – feriti, percossi, annientati.
Chi ci può strappare dal punto di vista spirituale? Non è difficile riconoscerlo. L’apostolo Pietro, nella sua prima lettera, scrive: «Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8-9). Il nemico vuole divorare il cristiano, allontanarlo da Dio, avvolgerlo nel male, annientarlo nel nulla.
Altro avversario che ci vuole strappare via dalle mani di Dio è il male diffuso nel mondo, che a volte prende la forma della ingiustizia, della violenza, della cattiveria umana; altre volte è molto più subdolo e si presenta ben vestito ed elegante, come «le pie donne della nobiltà e i notabili della città» di Antiochia di Pisidia, di cui ci parla la prima lettura, che suscitano una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciano via dalla città. La parte migliore della città, l’élite, la creme, che si oppone al Vangelo!
Ma qualche volta il nostro avversario siamo noi stessi che ci strappiamo via dal Signore, spesso senza renderci conto di fare qualcosa di assurdo, come se un ramo si volesse staccare dall’albero: il destino è perdere la linfa vitale, è lasciarsi sfuggire la vita. E’ un’immagine che anche Gesù utilizza quando paragona se stesso alla vite e noi ai tralci, che solo attaccati alla vite, rimanendo quindi in Lui, possono vivere e portare frutto.
A questo punto possiamo domandarci: come si riesce a mettere insieme tutte queste possibilità di essere “strappati” con le parole che Gesù dice nel Vangelo? Le riascoltiamo: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» e aggiunge «nessuno può strapparle dalla mano del Padre». Ha ragione Gesù nel dire che le sue pecore non possono essere strappate né dalle sue mani, né da quelle del Padre (perché precisa: «Io e il Padre siamo una cosa sola») o nella realtà non è così, perché in molti casi sembra vincere chi vuole strapparci e allontanarci da Dio?
Una soluzione potrebbe essere quella di dire che quanto affermato da Gesù non riguarda tutti, ma solo alcuni, non tutte le pecore, ma solo le “sue”. Non quelle di fuori, ma solo quelle dentro il recinto. Ma è proprio così? Nel rito dell’apertura della porta della misericordia ci è stato proclamato un brano di Vangelo molto significativo, che pure parla di pecore. Si tratta della parabola della pecora smarrita. Viene detto che il pastore lascia le novantanove pecore nel deserto per andare a cercare quella perduta e – cito il Vangelo – «quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro ”Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”». Gesù commenta Lui stesso la parabola: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione». Papa Francesco alla luce di questo brano afferma nella sua recentissima esortazione apostolica sulla gioia dell’amore: «Gesù stesso si presenta come Pastore di cento pecore, non di novantanove. Le vuole tutte» (n. 309).
Possiamo allora domandarci: c’è qualche uomo o qualche donna che non è sua pecora, che resta escluso, che resta fuori? No. Il Signore – come afferma Paolo nella prima lettera a Timoteo – infatti «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). Nessuno quindi può essere strappato dalle sue mani.
La salvezza è allora automatica? No, perché esiste la nostra libertà che Dio rispetta, una libertà che può giungere fino alla tremenda possibilità del rifiuto di Dio e del suo amore. Possiamo dire allora che solo noi siamo in grado di decidere di scappare dalle mani di Dio. Ma siamo certi che Lui non si arrende e ci verrà comunque a cercare per liberarci e salvarci. Attuando così quella bellissima profezia di Isaia in cui il Signore fa una domanda precisa e dà la sua risposta: «Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? Eppure, dice il Signore: “Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno. Io avverserò i tuoi avversari, io salverò i tuoi figli. […] Allora ogni uomo saprà che io sono il Signore, il tuo salvatore e il tuo redentore, il Potente di Giacobbe”» (Isaia 49,24-26).
Alla luce di queste considerazioni, vorrei che vedessimo questo santuario come segno delle mani di Dio: mani aperte per accogliere tutti; mani che accarezzano chi è ferito e sfiduciato; mani che asciugano lacrime di tristezza, di sofferenza, di pentimento; mani che incoraggiano e benedicono; mani che proteggono e difendono. Mani che ci insegnano a nostra volta ad avere mani e cuori accoglienti verso i bisognosi con lo stesso coraggio e la stessa generosità che papa Francesco sta testimoniando in queste ore sull’isola greca di Lesbo.
Questo di Barbana è anche un santuario mariano. La prima che è nelle mani di Dio è proprio Maria. Lei a sua volta ci accoglie e ci protegge. Ci sono bellissime immagini della Madonna che esprimono tutto questo presentandola con un grande mantello aperto sotto il quale si vedono collocati uomini e donne che ricorrono alla sua protezione. Vorrei che, pensando a questo, oggi la venerassimo con il titolo che utilizziamo ogni volta che diciamo la Salve regina: “madre di misericordia”. Maria, madre di misericordia, ci vuole insieme con lei nelle mani di Dio, mani da cui niente e nessuno, ne siamo certi, può strapparci.
Questo è il messaggio dell’anno della misericordia che la porta qui aperta ci ricorda e ci invita ad accogliere con fiducia e con gioia.
† Vescovo Carlo