Domenica 12 luglio 2020, in occasione della celebrazione dei santi Ermagora e Fortunato, patroni dell’Arcidiocesi di Gorizia e della regione Friuli Venezia Giulia, il vescovo di Treviso mons. Michele Tomasi ha tenuto una Lecio magistralis in piazza Capitolo sul tema “Ri-partire per essere ri-generati. Alle radici della fede in ascolto del Vangelo”.
Successivamente mons. Tomasi ha presieduto la liturgia eucaristica in basilica concelebrata dal vescovo Carlo, da mons. Mazzoccato, arcivescovo di Udine, da mons. Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto, da mons. Crepaldi arcivescovo – vescovo di Trieste, da mons. Causero, arcivescovo titolare di Grado unitamente a numerosi sacerdoti. Il rito si è svolto alla presenza delle massime autorità civili e militari e di molti fedeli.
Pubblichiamo di seguito il testo della Lectio magistralis di mons. Tomasi.
Dopo una brutta avventura che aveva messo a repentaglio la loro vita, i protagonisti del romanzo di Tolkien Il Signore degli anelli si rimettono in sesto per l’intervento di Tom Bombadil, il gioioso signore dei boschi che vive della forza stessa del creato, e tornano ad assaporare la semplice evidenza della vita che pareva perduta in un incantesimo misto di apatia, nebbia ed oscurità. L’autore descrive così quel momento così intenso e particolare: “Poi si sdraiarono al sole crogiolandosi come qualcuno di colpo trasferito da un inverno rigido a un clima accogliente, o come chi, confinato a letto da una lunga malattia, un mattino si sveglia e scopre inaspettatamente di star bene e che il giorno è ancora pieno di promesse”[1].
Capita a volte, dopo esperienze particolarmente intense di privazione o di angoscia, comunque di seria preoccupazione della vita, una volta passato il peggio, che “lo star bene” venga vissuto con sorpresa e trepidazione. Il momento in cui «si scopre inaspettatamente di star bene» è un momento di grazia, in cui quello che non sembrava più possibile improvvisamente è di nuovo attuale, e d’improvviso si può tornare ad assaporare la vita. E sì, si sente che «il giorno è ancora pieno di promesse».
Questo passaggio mi pare evocativo del momento che abbiamo vissuto dopo la fine del regime stretto di isolamento, passato il primo timore di uscire e riscoperta la possibilità di muoversi e di incontrarsi. È un momento di sollievo.
Nel racconto di Tolkien le avventure sono appena incominciate e la tregua per i protagonisti durerà davvero poco.
In fondo anche per noi oggi è così. Il passaggio della riapertura è già forse alle nostre spalle, e ci confrontiamo con molti impegni che avevamo lasciato in sospeso e con nuovi problemi da affrontare, in un clima che risente di tante incertezze e di incognite sul futuro. Ma in molti hanno percepito che al di là delle difficoltà inedite e di vasta portata che ci stanno di fronte, c’è la possibilità di un futuro ricco di promesse.
Si tratta di un compito che viene proposto, prima ancora e piuttosto che di un auspicio. Non peraltro il consolatorio «andrà tutto bene» che ci ha accompagnato nel periodo della chiusura, quasi ad esorcizzare paura e senso di impotenza.
Ormai abbiamo preso atto di esserci fermati. Non alcuni tra noi soltanto, bensì tutti insieme. E questo ha messo in luce tante caratteristiche della nostra società, della nostra vita in comune. Abbiamo scoperto tante cose che avremmo già dovuto sapere, o che avevamo dimenticato di sapere.
Una su tutte: la persona umana è individuo in relazione. La società non è una somma di individui, che vivono in uno splendido isolamento tra di loro a meno di non aver bisogno gli uni degli altri e incontrandosi soltanto per il tempo necessario a soddisfare i propri bisogni. Noi siamo sempre e da sempre «noi» e non solamente «io più tu»: veniamo dal noi dei nostri genitori, siamo intrecciati nel noi della famiglia, del gruppo, della collettività, dell’umanità intera e il tutto è maggiore della somma delle parti. La persona non è però nemmeno particella di un tutto sociale monolitico, di cui la stessa sia un elemento sostituibile o sacrificabile. Come evidenzia infatti con chiarezza papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate: “la comunità degli uomini non assorbe in sé la persona annientandone l’autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo, ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto verso un altro tutto.” (CiV, 53).
E qui – lo vedremo – risiede l’importanza, direi quasi la necessità del riferimento al bene comune per raggiungere il bene di ciascuno, e viceversa la necessità del contributo di ogni singola persona al bene di tutti.
Ci siamo accorti della realtà di ciò cui questa prospettiva di pensiero si riferisce quando non abbiamo più potuto incontrarci liberamente e abbiamo dovuto mantenere distanze fisiche che comportavano anche l’interruzione di consuetudini, di rapporti, di collaborazioni. Abbiamo vissuto tante solitudini, ne abbiamo rischiate altre. Abbiamo d’altro canto sperimentato quanto le relazioni siano tenaci e costitutive quando eravamo in attesa di un contatto, quando abbiamo messo in gioco fantasia e creatività per comunicare, contattare persone, esprimere e realizzare autentica vicinanza. Il nostro essere in relazione è diventato eloquente ed evidente, in maniera del tutto paradossale, proprio nel momento in cui le consuete relazioni ci sono venute a mancare o hanno cambiato forma. Nella sosta ci è stato meno facile ignorare la realtà del nostro essere, la profondità dei legami di cui siamo intessuti. Ci siamo imbattuti, volenti o nolenti, nel nostro mistero di esseri spirituali.
Secondo una formulazione del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa “Con la sua spiritualità l’uomo supera la totalità delle cose e penetra nella struttura più profonda della realtà”. (CDSC, 128).
Questo è un passo decisivo. Se nel silenzio assordante e nelle solitudini di questo tempo abitate di ansia, di attesa, di insicurezza e contemporaneamente motivate dalla speranza di poter contribuire con i nostri comportamenti al bene di tutti, siamo riusciti ad imbatterci in noi stessi, ci siamo anche avvicinati ad incontrare la struttura più profonda di noi stessi. Ci siamo accorti con evidenza dei nostri limiti e dei limiti complessivi della convivenza umana. Abbiamo toccato con mano il grande rimosso del nostro essere mortali. Percependo di essere fragili abbiamo potuto cogliere che ciò che è fragile in noi è anche un tesoro prezioso. Impotenti, non abbiamo potuto rinunciare a percepire la nostra infinita dignità. Rimasti soli nel silenzio di un mondo fermo d’improvviso abbiamo potuto cogliere la rivelazione del fatto che non siamo soli. La Scrittura fin dall’antichità ci aveva donato le parole giuste, ora abbiamo avuto l’esperienza della fonte di quelle stesse parole:
“che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell’uomo, perché te ne curi?
Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,
di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal 8, 5-6).
L’incontro con la nostra creaturalità ci apre spazi all’incontro con il Creatore. E incontrare Lui ci apre ad incontri nuovi, profondi e liberi con gli altri e con tutto il creato.
Se nella sosta siamo almeno andati vicini a questa consapevolezza, o ancora di più se ne abbiamo fatto esperienza piena, allora la ripartenza può assumere caratteristiche nuove e ricche di speranza. Se la sosta ci ha trasformati, se abbiamo colto la nostra umanità reale come voluta ed amata. Se la Quaresima è stata quest’anno il tempo di portare la nostra croce (conversione non cercata ma vissuta), se la Pasqua è stato l’incontro con il Risorto che già c’era (e già mi aspettava, in cammino con me a narrarmi di nuovo la mia vita), allora la ripartenza non vorrà dire semplicemente rimettere in moto una macchina e rimettersi in viaggio. Sarà un evento «spirituale» e concretamente materiale al tempo stesso. Sarà profondamente umana.
Siamo ora nelle condizioni per rispondere ad un appello che papa Francesco ci aveva rivolto già cinque anni fa nella sua enciclica sulla cura della casa comune Laudato si’: “La pace interiore delle persone è molto legata alla cura dell’ecologia e al bene comune, perché, autenticamente vissuta, si riflette in uno stile di vita equilibrato unito a una capacità di stupore che conduce alla profondità della vita. La natura è piena di parole d’amore, ma come potremo ascoltarle in mezzo al rumore costante, alla distrazione permanente e ansiosa, o al culto dell’apparire?”
Se siamo stati in viaggio verso il profondo di noi stessi, intuiamo almeno cosa possa significare essere condotti alla profondità della vita. Forse potremo mantenere un briciolo di memoria della sottile capacità di cogliere l’essenziale – o anche solo la nostalgia di esso – che in alcuni momenti ci è stata donata nelle fasi acute della crisi. E Papa Francesco continua ancora: “Molte persone sperimentano un profondo squilibrio che le spinge a fare le cose a tutta velocità per sentirsi occupate, in una fretta costante che a sua volta le porta a travolgere tutto ciò che hanno intorno a sé. Questo incide sul modo in cui si tratta l’ambiente. Un’ecologia integrale richiede di dedicare un po’ di tempo per recuperare la serena armonia con il creato, per riflettere sul nostro stile di vita e i nostri ideali, per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò che ci circonda, e la cui presenza «non deve essere costruita, ma scoperta e svelata» (Evangelii Gaudium, 71)”.
Vogliamo davvero ripartire come se nulla fosse stato, rimettendo in moto la macchina e rimettendoci in carreggiata, quanto possibile come prima? Contemplando le possibilità di prenderci cura per la nostra casa comune, lasciando spazio alla conversione ecologica, vale a dire al “lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che [ci] circonda” (LS, 217), il Papa ci consegna un “atteggiamento del cuore, che vive tutto con serena attenzione, che sa rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo, che si consegna ad ogni momento come dono divino da vivere in pienezza. Gesù ci insegnava questo atteggiamento quando ci invitava a guardare i gigli del campo e gli uccelli del cielo, o quando, alla presenza di un uomo in ricerca, «fissò lo sguardo su di lui» e «lo amò» (Mc 10,21). Lui sì che sapeva stare pienamente presente davanti ad ogni essere umano e davanti ad ogni creatura, e così ci ha mostrato una via per superare l’ansietà malata che ci rende superficiali, aggressivi e consumisti sfrenati” (LS, 225-226).
Ecco un atteggiamento giusto per questo nostro mondo che vuole ripartire.
Lo sottolineo ancora. Non può essere come la ripartenza di una macchina. Non può bastare inserire la chiave, girarla e aspettare che il motore si rimetta in moto, e ripartire. Perché la società, la cultura, l’economia sono qualcosa di più complesso e delicato di una macchina. Sono piuttosto un organismo vivente, un sistema interconnesso e vitale, un «ecologia» perché sono una rete complessa e articolata di persone. Ad una macchina puoi cambiare qualche pezzo di ricambio ed essa continua a funzionare, magari anche meglio di prima. Se all’economia e alla società togli una parte, quella parte era un’impresa, una bottega artigiana, un negozio, un operaio, un impiegato, una cooperativa, un’associazione. E ciò sempre insieme ad altre persone, famiglie, colleghi, dipendenti, fornitori, soci. E non è la stessa cosa che dopo la ripartenza ci siano ancora tutti oppure no.
A maggior ragione questo vale per la Chiesa, che non è una qualche associazione od un ente erogatore di servizi. È il corpo vivo del Cristo vivente. Il Corpo suo presente nella storia, che da Lui riceve vita, e che vive nell’intreccio fitto tra le differenti membra, tra tutti noi: “Noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri” (Rom 12,5).
L’organismo sociale cresce e si sviluppa solo se altrettanto fanno le persone che lo compongono, e queste a loro volta possono fiorire solamente se sono date le condizioni sociali, politiche, economiche che permettono loro di “raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” (Gaudium et spes, 26). È questo il senso del bene comune: tu devi essere messo in condizione di crescere al meglio delle tue possibilità, realizzando la tua vocazione, e così permetterai a me, con il tuo apporto, di fare lo stesso. E questo vale reciprocamente anche per me. Dipendiamo gli uni dagli altri.
Comunità e persona si presuppongono a vicenda.
“Tutto nel mondo è intimamente connesso” (LS, 16).
Non ne abbiamo fatto esperienza in questo periodo?
Forse possiamo allora suggerire che in effetti la società non ha tanto bisogno di ri-partire, quanto di ri-generarsi. Di essere ri-generata. Dovremmo essere rimessi al mondo. Il parto è un’immagine usata da Gesù stesso per farci comprendere il nostro rapporto con Lui morto e risorto: “La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla. (Gv 16, 21-23).
“Per la Bibbia non c’è metafora più potente di quella del parto per dire l’emergere del nuovo nella storia”[2], ci spiega Jean-Pierre Sonnet. E allargando in modo quasi vertiginoso lo sguardo a tutto l’universo, ricordiamo con l’apostolo Paolo che “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rom 8,22).
Chiara Giaccardi e Mauro Magatti – che hanno riflettuto molto sulla generatività – a proposito della realtà del partorire, del mettere al mondo, ricordano tra l’altro la circolarità insita nelle relazioni che danno vita:
“l’enfasi sul «consumo produttivo» ci ha fatto perdere il gusto di mettere al mondo […] mettere al mondo qualcosa che vale; dare vita a sé, mentre si dà vita ad altro”[3].
Possiamo certamente consumare da soli, ma da soli non possiamo generare vita nuova:
“E poi mettere al mondo non è un evento isolato, ma un’azione che si inserisce, infittendola, in una trama che la contiene e la supera” […] “si può generare perché si è stati generati. Per mettere al mondo, dobbiamo riconoscere di essere stati messi al mondo. Di venire da qualcuno. Dobbiamo vederci come «figli», e non solo in senso biologico, se vogliamo generare. Riconoscere il dono di cui siamo portatori. E poi riconoscere, avendo generato, che si è a propria volta messi al mondo da coloro cui abbiamo consentito di venire alla luce”[4].
Possiamo sperare perché facciamo memoria. Possiamo essere padri e madri perché siamo e ci riconosciamo con gratitudine figli e quindi fratelli e sorelle tra noi. Lo sguardo nuovo sugli altri è un passaggio di conversione che ci aiuta a diventare «soggetti di benevolenza»: “vedermi con gli occhi dell’altro mi costituisce come persona nuova, che può aprirsi alla bontà”[5].
Solo così potremo dare anche a chi viene al mondo dopo di noi – e anche un poco grazie a noi – l’opportunità di trovare spazi in cui poter contribuire al significato e alla pienezza del senso della vita.
Ritrovarci in questo luogo a fare memoria dei santi patroni Ermacora e Fortunato, significa rinsaldare i legami che ci hanno «messi al mondo». Questo di Aquileia è un luogo generativo della fede di tutti noi, il luogo in cui la tradizione viva della Chiesa ci consegna il legame storico attraverso S. Marco con il Vangelo, con la comunità apostolica.
Qui possiamo imparare sempre di nuovo a lasciarci generare nella fede e a mettere al mondo vita buona partendo da uno sguardo di futuro aperto dalla “speranza che non delude” (Rom 5,5). Qui possiamo riconoscere quanto amore vi sia nelle doglie del parto, nell’afflizione del discepolo – nostra, dell’umanità, che è associata a quella del Cristo sulla croce. Essa genera – come chicco di grano che muore nella terra (cf. Gv 12,34) – la vittoria della Risurrezione.
Ora siamo di nuovo in movimento, sono ricominciati i contatti di persona e non solo a distanza, gli scambi e le interazioni riassumono sempre più rapidamente la dimensione ampia ed anche complessa che è propria del nostro vivere associato. Scampato (per ora?) il pericolo della fase acuta del contagio, e superata (del tutto?) la paura, incominciamo anche ad essere consapevoli dei danni subiti: l’insieme delle attività che è stato bloccato deve ripartire. E lo fa, ma con quante restrizioni, con quanti nuovi accorgimenti da mettere in atto, con quante nuove regole cui ci stiamo adeguando.
Siamo ritornati a celebrare l’Eucaristia insieme, non soltanto nella forma «mutilata» a distanza. È più faticoso di prima incontrarci secondo le attuali regole, ma percepiamo il sollievo, la gioia stupita di essere di nuovo vicini. Ci resterà qualcosa di buono e di generativo dalla memoria della preghiera in famiglia, dell’ascolto della Parola, della preghiera di intercessione?
Saremo ri-generati se da questa dolorosa esperienza ci lasceremo consegnare ancora una parola: «gratuità».
Seguendo le indicazioni dei teorici dell’economia civile, definiamo la gratuità come “l’atteggiamento interiore che porta ad accostarsi ad ogni persona, ad ogni essere, a sé stessi, sapendo che quella persona, quell’essere vivente, quell’attività, la natura, me stesso, non sono “cose” da usare, ma realtà da rispettare e amare perché hanno un valore intrinseco che accolgo e rispetto perché lo riconosco come buono”[6].
Gratuità è stato per molti durante l’isolamento fare il proprio dovere, al di là del pattuito, al di là del concordato, perché non c’era nel contratto quello che hanno fatto infermieri, medici, operatori socio-sanitari, farmacisti, insegnanti, commesse dei supermercati, poliziotti e tutte le categorie che hanno lavorato. Gratuità è stato per i sacerdoti stare accanto al loro popolo, pur nella loro apparente impotenza ad essere d’aiuto.
Gratuità è quello che tanti Amministratori hanno fatto con intensità ammirevole.
Realizza autenticamente la gratuità chi accoglie e rispetta la vita cui si mette a servizio perché va fatto, perché va fatto e basta. È un atteggiamento molto semplice, del tutto originario dell’anima umana, ma è anche un prodigio ogni volta che succede, e bisognerebbe metterlo in prima pagina, perché in esso si vede la bellezza, la profondità e l’infinita dignità di che cosa vuol dire essere una persona umana.
Se sapremo investire questo «capitale spirituale»[7] nella ripartenza, se riusciremo ad essere «grati» e «gratuiti» – in fondo «eucaristici» – essa potrà essere rigenerante per tutta la società.
Potremo percepire nella vita di ogni giorno e nelle tribolazioni di questo nostro tempo la bellezza della comunione nella Chiesa, la freschezza e la fecondità di una comunità di fratelli e sorelle che si risveglia e scopre guardando nuovamente al suo Signore risorto e vivo che il «giorno è davvero ancora pieno di speranze».
+ Michele Tomasi, vescovo di Treviso
[1] John R. Tolkien, Il Signore degli anelli. La Compagnia dell’anello, Firenze, Bompiani, 2019, 254.
[2] Sonnet, Jean-Pierre, Generare è narrare, Milano, Vita e Pensiero, 2014, 101.
[3] Magatti, Mauro, Giaccardi, Chiara, Generativi di tutto il mondo uintevi! Manifesto per la società dei liberi, Milano, Feltrinelli, 2014, 76.
[4] Magatti, Giaccardi, cit,. 77.
[5] Magatti, Giaccardi, cit., 85.
[6] Luigino Bruni, Alessandra Smerilli, Benedetta economia. Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economica europea. Nuova edizione, Città Nuova, Roma, 2020, 44.
[7] Leonardo Becchetti introduce il concetto di «capitale spirituale» nella sua riflessione a proposito dei contenuti dell’enciclica Laudato si’: “Dotazione individuale e collettiva di capacità di trovare un senso profondo nelle cose, quell’ispirazione ed innovazione che sono capaci di stimolare operosità, razionalità cooperativa e sviluppo umano integrale”. Becchetti, Leonardo, La ricca sobrietà. Economia politica (e politica economica) della enciclica Laudato Si’, Roma, Ecra, 2016, 50.
foto Sergio Marini