Sono stati oltre 300 i fedeli che hanno partecipato sabato 2 aprile 2016 al pellegrinaggio diocesano a Padova guidato dal vescovo Carlo in occasione dell’anno giubilare.
La prima tappa è stato il santuario di San Lepoldo Mandic dove si è svolta la liturgia penitenziale.
Questa la riflessione proposta dal vescovo Carlo.
Quando ieri sera mi sono trovato a pensare a che cosa dire oggi nei momenti più importanti del nostro pellegrinaggio, sarà stato per la stanchezza, per il cambio dell’ora, per la primavera, … ma mi sono sentito in difficoltà e un po’ in affanno. Dovevo, infatti, preparare tre cose: la riflessione di stamattina, l’omelia della Messa di oggi pomeriggio e la mia preparazione personale al pellegrinaggio, in particolare al sacramento della confessione. Mi è venuto quindi il desiderio di puntare al risparmio.
Non potevo, ovviamente, far coincidere l’intervento di stamattina con l’omelia della Messa, ma, perché no?, potevo mettere insieme questa meditazione con la mia preparazione. Ho pensato, quindi, di proporvi il mio esame di coscienza personale, dire di che cosa mi confesserò oggi. Del resto in fondo il vescovo è una persona pubblica e una volta nella Chiesa c’erano i pubblici penitenti. E se poi il papa si dichiara continuamente peccatore, potevo a maggior ragione farlo io, chiedendovi anch’io, come fa lui, di pregare per me.
Qual è il primo peccato di cui mi confesserò? Mi viene suggerito dalle prime parole del profeta Osea: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro». Devo riconoscere che il Signore mi ha amato da sempre, prima ancora che venissi alla luce. Mi ha fatto nascere in una bella famiglia credente, mi ha dato la possibilità di crescere in un oratorio pieno di ragazzi, mi ha donato la vocazione, ho fatto tutto il cammino del seminario, ho ricevuto tantissimi contenuti, testimonianze, riflessioni, incontrato persone meravigliose, sono diventato prete e poi vescovo, ecc., ma ho compreso che il Signore aveva, ha e avrà cura di me? Quante volte mi sono lamentato, mi sono sentito solo, ho cercato altrove un po’ di affetto e di comprensione … Ecco il primo peccato: non mi sono accorto di essere amato e che chi mi ama è finito sulla croce per me.
Ma c’è un secondo peccato collegato al primo. Lo esprime sempre il profeta: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? […] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione». Si tratta del non convertirsi all’amore del Signore, alla sua misericordia, alla sua compassione. Troppe volte sono convinto che convertirmi consisterebbe nel diventare bravo io: pregare di più, essere più accogliente, più paziente, meno pigro, capace di fare sacrifici, più umile, meno orgoglioso, meno sentenzioso, ecc. E invece la conversione è lasciarsi amare da Lui. Vorrei anch’io che, come è successo a Zaccheo, il Signore venisse nella mia casa, ma vorrei invitarlo io e solo quando sarà bella, pulita, in ordine, perfetta. Gli direi allora: “Vedi, Signore, finalmente sono diventato bravo e puoi essere accolto degnamente da me” (e penserei dentro di me: e non sono più come gli altri, che non si ricordano mai di te, che non si impegnano, che non pregano, ecc.). Mi piacerebbe che il Signore mi desse il perdono come premio perché mi sono convertito e mi dicesse: “Bravo, Carlo, finalmente sei perfetto, hai fatto tutto da solo. 10 e lode…!”. E, invece, non è Zaccheo che invita il Signore a casa sua, ma è Gesù che si invita da lui. Non è Zaccheo che si converte e che cambia vita – e, a quanto pare, ne aveva motivo… – per convincere il Signore ad amarlo, ma è il fatto che il Signore gli ridona la dignità di figlio di Abramo (potremmo dire di figlio di Dio), a lui che per il suo mestiere di collaboratore con i pagani era ritenuto impuro e veniva disprezzato dai buoni ebrei, è questo ciò che gli fa cambiare vita: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Zaccheo può dire questo perché ha sperimentato che, come dice Gesù, «il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Un altro peccato devo confessare e mi è suggerito sempre dall’episodio di Zaccheo. L’evangelista annota: «Vedendo ciò [cioè che Gesù andava da Zaccheo], tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”». E’ da notare che Luca non dice che i soliti farisei e scribi mormoravano, ma che “tutti” mormoravano. Giudicare gli altri, magari solo interiormente nel pensiero, ma spesso o molto spesso mormorando con altre persone. Giudicare mettendosi al posto di Dio, non perdonando niente agli altri, chiedendo comprensione e scuse per noi ma non dando alcuna possibilità agli altri invece di domandarsi: perché agisce così? probabilmente pensa di far bene, è in buona fede, … magari ha un carattere non facile e non ha molti amici e amiche, … forse è stanco, preoccupato, non sta bene, è solo… quasi certamente non si accorge di sbagliare … Tutte scuse che valgono per me, che applico a me e spero che gli altri attribuiscano a me, ma che io non concedo agli altri.
Un ulteriore mio peccato da confessare è evidenziato dal salmo 50 nell’invocazione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in meno uno spirito fermo», che collegherei con quanto Dio dice attraverso il profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26). Confessare di avere un cuore di pietra, incapace di amare perché incapace di accogliere l’amore, un cuore impuro perché pieno di tante cose inutili, di tanti sentimenti che non sono quelli di Gesù: “Signore, donami un cuore puro, un cuore che ama perché amato, un cuore di carne. Donami il tuo Spirito che mi faccia pensare, giudicare, sentire, amare, servire come Te».
Questa è il mio esame di coscienza, questa la mia confessione. Qualcuno che mi conosce più da vicino potrebbe dire a questo punto: “e no…, non basta! Devi confessarti che sei pigro, goloso, che ti distrai quando celebri, che non sei sempre accogliente verso i preti e le altre persone, che fai poco o nulla per i poveri, ecc.”. Può essere, ma forse questi peccati, che probabilmente sono i soliti che confesso, non sono quelli decisivi e gravi che la Parola di Dio mi ha fatto scoprire e che ho confessato davanti a voi. Che sia lo stesso anche per ciascuno di voi?
Successivamente il gruppo si è spostato nella basilica di S. Antonio dove è stato accolto dal rettore, padre Enzo Poiana. L’ultima tappa si è svolta nella basilica di Santa Giustina dove è conservato il corpo di San Luca, redattore del Vangelo che sta segnando l’Anno pastorale della Chiesa diocesana. Qui, dopo il saluto dell’abate don Giulio Pagnoni, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la liturgia eucaristica.
«Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Questa è la finale del brano evangelico che abbiamo appena ascoltato. Potrebbe sembrare poco importante rispetto al racconto fatto dall’evangelista che la precede e anche nei confronti dell’intero Vangelo. Come se avesse cioè la stessa funzione dei titoli di coda di un film, che nessuno sta a vedere mentre esce dalla sala più o meno soddisfatto per quanto ha visto: l’importante è il film non certo le scritte finali.
Non è così per il Vangelo. L’evangelista Giovanni con quelle parole ci dice infatti che cosa è il Vangelo e perché lo ha scritto. L’evangelista Luca, i cui resti mortali sono conservati in questa basilica, e che sta accompagnando il nostro cammino in quest’anno pastorale, spiega la stessa cosa, ma – lo ricordate – non alla fine, ma all’inizio del suo Vangelo. Luca scrive il Vangelo per chi è già credente e vuole verificare la solidità degli insegnamenti ricevuti e questa verifica non può essere fatta che ripercorrendo come discepolo lo stesso percorso di Gesù. Giovanni, invece, redige il suo racconto come presentazione dei “segni” di Gesù, dei fatti cioè che interpellano il lettore/ascoltatore suscitando in lui l’adesione di fede. Un’adesione che non è l’accoglienza di una dottrina, ma di una persona: Gesù riconosciuto come Signore e Dio.
Il “segno” che il brano di oggi presenta è particolarmente rivolto a noi e risponde a una domanda: in base a che cosa possiamo credere, cioè aderire a Gesù, entrare in comunione con Lui, noi che veniamo a duemila anni di distanza e che quindi non possiamo vederlo e toccarlo?
L’evangelista risponde a questa domanda presentandoci qualcuno in cui possiamo identificarci, cioè l’apostolo Tommaso. Come sappiamo, un modo efficace per leggere il Vangelo è domandarci chi siamo noi, riconoscendoci volta per volta nei diversi personaggi. Anche l’evangelista Luca fa capire con chiarezza nelle prime righe del suo Vangelo che il Teofilo per cui scrive il suo racconto in realtà si chiama Carlo, Giuseppe, Bruno, Giovanni, Maria, Lina, Patrizia, Annarosa, ecc. insomma è ciascuno di noi.
Ebbene che cosa viene chiesto a Tommaso, assente nel momento della prima apparizione di Gesù ai discepoli? Semplicemente di credere alla risurrezione di Gesù e, quindi, di riconoscerlo come suo Signore, sulla base della testimonianza dei suoi condiscepoli. Ma a Tommaso questa testimonianza non basta e lo dice con chiarezza e quasi con ostinazione: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Quindi o c’è l’esperienza diretta, fisica dell’incontro con il Risorto o non c’è niente da fare: non ci può essere la fede.
Se questo fosse vero, se Tommaso avesse ragione, per noi non ci sarebbe alcuna possibilità di credere. Tommaso dice per sé una cosa vera e decisiva e cioè che la fede è l’incontro personale con Gesù, non è una credenza in alcune verità, non è il compiere alcune pratiche religiose, non è il vivere certi comportamenti. Però riserva questo incontro al solo contatto fisico visivo (“se non vedo…”) e sensibile, tattile (“se non metto il mio dito, la mia mano…”). Questo per noi non è possibile: quindi dovremmo rinunciare a credere in Gesù.
Ma, appunto, il Signore è d’accordo con Tommaso? Certo viene incontro, nella sua misericordia, a questo apostolo, si fa vedere e toccare, ma aggiunge immediatamente: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Sta parlando di noi, Gesù, e ci dice non solo che possiamo credere in Lui, ma che con il nostro modo di credere siamo beati, felici, realizzati. A distanza di duemila anni possiamo allora credere nel Risorto e affidargli la nostra vita. Lo possiamo fare perché lo incontriamo veramente anche se non lo vediamo con i nostri occhi e non lo tocchiamo con le nostre mani.
Come e dove incontriamo Gesù? Elenco quattro modalità. La prima è il Vangelo da intendere come la testimonianza di chi ha incontrato Gesù e che per opera dello Spirito Santo ha consegnato la sua esperienza nello scritto dei quattro Vangeli. Il Vangelo è fondamentale: va letto, studiato, meditato, pregato, vissuto con l’aiuto dello Spirito Santo e dentro la Chiesa che, fedele lungo i secoli alla testimonianza degli Apostoli, ce lo presenta nella liturgia e ce lo mette tra le mani perché sia il nostro nutrimento di ogni giorno. Scusate la mia insistenza su questo, ma senza il Vangelo non possiamo dirci cristiani, non possiamo incontrare Gesù. Ma chi qualche volta si è confessato di non aver letto il Vangelo? E con il Vangelo, naturalmente è fondamentale l’intera Scrittura di cui il Vangelo è compimento.
La seconda modalità di incontro con Gesù, morto e risorto, è data dai sacramenti. Due li viviamo quest’oggi. In questo momento stiamo, infatti, celebrando l’Eucaristia che ci mette in comunione con il dono di sé di Gesù e ci rende suo Corpo. Stamattina abbiamo sperimentato la misericordia del Padre nel sacramento della riconciliazione, ricevendo il frutto della redenzione che ci viene dalla croce di Cristo e avviando il rinnovamento di vita garantitoci dallo Spirito Santo che è in noi.
Un terzo modo di incontro con Cristo avviene nella comunità cristiana. Grazie alla Parola che ci raduna, ai sacramenti che ci rendono parte della Chiesa, in particolare l’Eucaristia, noi non siamo solo un insieme di persone, come fossimo soci – che so… – di una bocciofila o di un circolo culturale. No, noi siamo Chiesa, siamo il Corpo di Cristo e perciò dentro la Chiesa incontriamo il Signore.
Infine c’è una quarta maniera di incontrare Cristo, che l’anno santo della misericordia (e non dimentichiamo che questa è la domenica della misericordia) ci ricorda spesso: la presenza di Gesù nel povero, nel fratello bisognoso. Ricordiamo tutti la parabola del giudizio finale: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36). Ecco dove incontrare Cristo.
In conclusione, dobbiamo essere riconoscenti verso l’apostolo Tommaso che con il suo dubbio ci ha permesso di capire come noi possiamo essere credenti nel Risorto; dobbiamo dire grazie a Luca e agli altri evangelisti che attraverso il Vangelo ci danno la possibilità di incontrare Gesù; dobbiamo essere grati al Signore per i sacramenti che ci rendono Chiesa, suo Corpo; dobbiamo avere il cuore pieno di gratitudine verso la Chiesa e, in particolare, verso i santi come p. Leopoldo e sant’Antonio che ne sono l’espressione più vera, perché ci permette di incontrare il Signore e di vivere il Vangelo; e, infine, dobbiamo rivolgere il nostro ringraziamento ai poveri perché sono la presenza di Cristo. Questi sono i motivi che ci fanno celebrare questa Eucaristia pasquale come festa di ringraziamento e di gioia.
† vescovo Carlo
(foto Sergio Marini)