Perchè siano una sola cosa (2013)

Thursday 28 March 2013

Giovedì 28 marzo 2013, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale la Messa crismale pronunciando la seguente omelia:

«Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette». Che quel rotolo di Isaia venga riavvolto dopo le parole che proclamano «l’anno di grazia del Signore», senza che si prosegua annunciando anche «il giorno di vendetta del nostro Dio», è molto consolante.
Gesù è il volto misericordioso del Padre, Colui che è venuto non per i sani, ma per i malati, non per i giusti ma per i peccatori (cf Mt 9, 10-12). Oggi si compie questa Scrittura e noi, come sacerdoti e ministri del perdono, ne siamo testimoni, mentre proprio in questi giorni accogliamo nel sacramento chi umilmente chiede di essere riconciliato con Dio e con la Chiesa e noi stessi sperimentiamo la grazia del perdono.

Gli olii, che oggi vengono consacrati e benedetti per essere affidati al nostro ministero, indicano l’abbondanza della grazia del Signore, che benedice e consacra chi diventa figlio di Dio nel Battesimo, segna con il sigillo dello Spirito chi viene confermato, consacra e invia chi è chiamato al sacro ministero, conforta e sostiene chi deve affrontare la lotta oscura della malattia.

La misericordia è molto più esigente del giudizio: chi viene perdonato sperimenta un amore oltre misura e non può non sentire crescere in lui una riconoscenza che lo spinge a rispondere con lo stesso amore, percorrendo a sua volta la strada del dono di sé, quella della croce. Se non è così, significa che non si è capito niente della misericordia come il servo malvagio della parabola, che riceve il perdono ma non perdona a sua volta (cf Mt 18, 23-35). Il nuovo Vescovo di Roma, Papa Francesco, ci sta testimoniando tutto ciò con le sue parole e il suo atteggiamento: di questo dobbiamo essere molto grati al Signore.

Un unico presbiterio

Siamo quindi ministri della misericordia, chiamati ad annunciare un tempo di grazia da parte del Signore. Lo siamo non isolatamente, ma come un’unica realtà. Proprio su ciò vorrei invitarvi a riflettere in questa occasione, che ci vede tutti riuniti attorno all’altare del Signore: noi, presbiterio della Chiesa di Dio che è in Gorizia, siamo un unico corpo. Ho detto volutamente “siamo”, riferendomi a un “noi”, perché sono convinto di quanto sottolineato dal Concilio Vaticano II: il vescovo con i suoi presbiteri compongono un unico presbiterio; il vescovo infatti non è la controparte del presbiterio, né quest’ultimo lo è nei confronti del vescovo. Così afferma LG 28: «I sacerdoti, saggi collaboratori dell’ordine episcopale e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi».

L’essere un unico presbiterio non è un’affermazione teorica, né il punto di arrivo di un atto di volontà o di generosità. Si tratta, invece, di un dato ontologico che viene prima di ogni idea e di ogni proposito. Il presbiterio, infatti, trova il suo fondamento nel sacramento dell’Ordine, che tutti ci conforma a Cristo Capo e Pastore, e nella dedicazione a una Chiesa particolare.

Anche in questo caso uso volutamente il termine “dedicazione” e non “incardinazione” perché sono parte dell’unico presbiterio non solo i sacerdoti incardinati nella Diocesi, ma tutti i presbiteri anche di altre Diocesi o membri di Istituti religiosi e di Società di vita apostolica che sono presenti in mezzo a noi e qui operano secondo il loro incarico e carisma.

In termini molto semplificati: sono parte di questo presbiterio tutti i presbiteri che celebrando l’Eucaristia ogni giorno dicono il nome del vescovo Carlo, come in precedenza del vescovo Dino, che oggi è qui presente tra noi e che saluto con affetto e grande riconoscenza per la sua vicinanza, i suoi preziosi consigli da “fratello maggiore” e la sua disponibilità all’aiuto pastorale.

L’a priori del presbiterio

Se il presbiterio è un dato ontologico e non di intenzionalità o di volontà, occorre che ciò risulti effettivamente nella vita di ciascuno.

Non intendo riferirmi a quanto già si vive tra noi, che è comunque molto significativo. Sento il dovere di ringraziare il Signore per l’esempio che mi date di dedizione al Vangelo, di passione per il Regno di Dio, di lavoro pastorale talvolta senza misura, ma anche per la solidarietà che c’è tra voi, l’attenzione a chi è in difficoltà o è malato, l’aiuto vicendevole, le belle amicizie che sono presenti tra molti di voi. Come pure colgo l’occasione per ringraziare dell’accoglienza, della cordialità, della collaborazione che mi avete riservato in questi primi mesi.

Non voglio “incensare” il clero di Gorizia: so che come dappertutto anche in mezzo a noi ci possono essere giudizi affrettati, invidie, gelosie, difficoltà di capirsi, ecc.; anche noi abbiamo bisogno continuamente di misericordia da parte del Signore e da parte degli altri.

Sottolineando il dato ontologico del presbiterio non voglio neppure in primo luogo esortarvi a potenziare le varie forme di fraternità presbiterale, che già ci sono o che possono essere sperimentate in futuro con un po’ di creatività: gli incontri comuni di preghiera e di formazione, i momenti di confronto e di discernimento sulle linee pastorali, qualche forma di vita comune o almeno la condivisione dei pasti, un maggior sostegno verso chi è in difficoltà, un più puntuale scambio di notizie e un migliore coordinamento delle agende di tutti, ecc. Se, magari anche a seguito della Messa crismale di oggi, si riuscirà a fare qualche passo ulteriore in questa direzione, ben venga.

Mi colloco, invece, su un piano più profondo, a livello “spirituale”, se intendiamo con questo termine non qualcosa di parziale, sia pure di importante, ma ciò che caratterizza il centro della nostra persona.

Vorrei che per tutti noi il dato dell’appartenenza a un unico presbiterio fosse un “a priori” rispetto a tutto il resto, anzitutto riguardo allo specifico incarico pastorale che ognuno di noi ha e, talvolta, in misura plurima. Mi spiego: intendo dire che dovremmo tutti, per prima cosa e insieme, sentirci anzitutto un unico soggetto che ha ricevuto dal Signore, tramite la Chiesa, la responsabilità pastorale verso questa Chiesa, di cui facciamo parte. E questo non perché ci impegniamo a sentirlo, ma perché così è. Che poi uno eserciti questa responsabilità facendo il parroco, piuttosto che il cappellano in un ricreatorio o il responsabile di un ufficio di curia o il cappellano in un ospedale o l’insegnante in un istituto teologico, ecc. è secondario. O, meglio, è un ministero che viene svolto, su mandato del vescovo, come espressione dell’unico presbiterio e in ciò ciascuno trova il senso di quello che compie e la forza per realizzarlo nella comunione.

È quanto ci indica il Concilio nel decreto sul ministero e la vita sacerdotale, Presbyterorum ordinis, al n. 8: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo. Infatti, anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini. Tutti i presbiteri, cioè, hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo la condizione operaia – nel caso ciò risulti conveniente e riceva l’approvazione dell’autorità competente -, sia infine che svolgano altre opere d’apostolato od ordinate all’apostolato. È chiaro che tutti lavorano per la stessa causa, cioè per l’edificazione del corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi […]. Ciascuno dei presbiteri è dunque legato ai confratelli col vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione nelle forme più diverse, manifestando così quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre».

Comprendete che tutto cambia, anche se, in apparenza, dall’esterno sembra la stessa cosa. Se ci concepiamo come monadi solitarie, ognuno di noi con il proprio incarico, vediamo il presbiterio come “un di più” che merita di essere valorizzato in termini volontaristici: io faccio il bravo prete da solo e siccome mi dicono che per essere bravo devo anche vivere la fraternità sacerdotale, in aggiunta mi preoccupo delle relazioni con gli altri preti. Molto diverso, invece, se ci consideriamo anzitutto come presbiterio e se ognuno di noi percepisce che nel suo specifico ministero c’è la presenza dell’intero presbiterio (cf LG 28).

Ciò non significa – è necessario precisarlo – una perdita di originalità e di responsabilità personale, anzi. Lì dove ciascuno di noi si trova, deve mettere in gioco senza risparmio tutto ciò che è, con dedizione, costanza, creatività, fantasia, discernimento, ma in quanto parte ed espressione dell’unico presbiterio. Non bisogna inoltre dimenticare di sottolineare che l’essere e il sentirci parte di un unico presbiterio può rendere meno faticosi e più sciolti i mutamenti di incarico. In ogni caso, infatti, non cambia il mandato fondamentale: quello che ciascuno ha in quanto parte del presbiterio diocesano.

Un unico presbiterio e due sfide pastorali

La necessità di sentirsi “a priori” unico presbiterio diocesano è accentuata dalla situazione pastorale che già viviamo e che abbiamo davanti a noi. Accenno solo a due questioni, a due sfide pastorali.

Anzitutto l’esigenza imprescindibile di dover provvedere nei prossimi anni a forme sempre più diffuse di pastorale di insieme tra parrocchie, se non altro per il calo del numero dei presbiteri. È chiaro che se i presbiteri non si considerano anzitutto un’unica realtà – multiforme e pluralistica, ma coesa – sarà ben difficile far capire ai cristiani delle nostre comunità che la diocesi non è una “confederazione” di parrocchie autonome o che vivere una comunione pastorale tra più comunità non porta inevitabilmente a perdere la propria identità.

Una seconda questione, su cui entra in gioco l’unità “a priori” del presbiterio, è quella delle linee di pastorale sacramentaria. Non entro nel merito delle problematiche, neppure per accenni, e so benissimo che nessuno ha la ricetta in tasca, in questo come in altri campi. Ma so altrettanto bene che una difformità di scelte può creare grave disagio nel popolo di Dio e impedire una crescita armonica delle comunità (si noti che parlo di “difformità” di scelte e non di “pluralità” di modalità attuative di scelte fondamentali condivise nella sostanza da tutti).

Un presbiterio nel popolo di Dio

Sono solo due esempi, ma sufficienti per sottolineare che il considerarsi o meno “a priori” presbiterio ha conseguenze pratiche nella nostra vita e in quella del popolo di Dio. Popolo di Dio di cui siamo pienamente parte: l’essere nel presbiterio non ci rende meno “cristiani”, meno “christifideles”, né ci isola o ci mette in situazione di privilegio rispetto ai diaconi, alle consacrate e ai consacrati non presbiteri, ai laici. Ci pone al servizio, questo sì. Un servizio da rendere nella logica del Vangelo, quella logica che ci deve portare tutti, presbiteri e non, a lavare i piedi gli uni degli altri e non solo la sera del giovedì santo.

Quel popolo di Dio che sa vedere con gli occhi del Signore i suoi presbiteri, offrendo a essi una preziosa e necessaria collaborazione nella fraternità e nella corresponsabilità per il bene della Chiesa, sapendo comprenderli nelle loro fatiche, sostenerli nelle loro incertezze, condividerne la passione per il Regno. Quel popolo di Dio per la cui unità il Signore ha pregato il Padre prima della sua passione, un’unità di cui l’unità del presbiterio può e deve diventare segno e strumento: «perché siano una cosa sola» (Gv 17, 11.21-22). Buona Pasqua.

† Vescovo Carlo