Domenica 13 novembre 2016 si è svolto presso la cattedrale di Gorizia il rito solenne della chiusura della Porta della Misercordia. Riportiamo l’omelia pronunciata dal vescovo Carlo nell’occasione.
Grazie per le belle testimonianze che abbiamo ascoltato. Sono solo un piccolo segno di quanto operato dalla grazia di Dio in questo anno santo della misericordia a livello personale, familiare, parrocchiale, di aggregazioni ecclesiali e diocesano. Mi è spontaneo condividere quanto scritto da Paolo ai Filippesi: «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù». Il Giubileo della misericordia si conclude, ma non si ferma il cammino della grazia nel cuore di ciascuno e di ogni comunità. E faccio mia la preghiera dell’apostolo: «prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo». Tra poco chiuderemo la porta santa. Una porta che abbiamo aperto dall’esterno e che ora chiudiamo dall’interno, come per dire che deve restare dentro la misericordia di Dio e deve essere chiuso fuori ciò che è contro di essa. E questo deve essere fatto anzitutto a livello personale.
Domandiamoci allora: che cosa va mantenuto fuori dalla porta del nostro cuore?
Anzitutto i nostri peccati in particolare quelli più gravi. Non per prima cosa le cadute legate alle nostre fragilità, al nostro carattere, a certe situazioni difficili, ma la presunzione di salvarci da soli, il non fidarci di Dio, il non aver accolto il Vangelo come il criterio decisivo per la nostra vita. Occorre riconoscere i peccati per tenerli fuori con l’aiuto della grazia.
Ma poi i pensieri. Non intendo ovviamente riferirmi al contenuto della nostra mente, a quello che pensiamo, ma ai pensieri malvagi. Pensieri intrecciati con sentimenti, emozioni, ricordi, sensazioni spesso di amarezza, di chiusura, di disgusto. Per esempio, il ricordo non risolto di torti subiti, di aspettative non esaudite, di umiliazioni per non essere stati valorizzati come ritenevamo giusto, o ancora invidie non controllate, gelosie incattivite, affetti possessivi e strumentalizzanti, solitudini amare. Questi pensieri sono molto pericolosi. Vanno bloccati fin dall’inizio, perché se entrano nel cuore, se vi si annidano, sono un grande guaio: possono spegnere la forza della fede e togliere la gioia, semplice e serena, di essere cristiani. Purtroppo c’è a volte in noi un sottile piacere, quasi un autocompiacimento, per il gusto amaro portato da questi pensieri, da questi sentimenti.
Una terza categoria di ospiti indesiderati per i quali la porta del nostro cuore deve essere sbarrata è costituita dai pregiudizi. Pregiudizi verso gli altri, che giudichiamo per categorie prestabilite e quindi escludiamo in partenza o che, anche a partire da elementi veri ma parziali, condanniamo definitivamente senza ammettere possibilità di cambiamento. Pregiudizi anche verso Dio, verso il modo di vivere la fede, verso la Chiesa: “so ben io come si parla, si prega, si celebra, si vive da cristiani…”.
Fuori dalla porta devono restare infine le preoccupazioni. Non certo le preoccupazioni che nascono dall’amore: l’affettuosa premura, per esempio, verso i propri figli, i propri cari, la propria comunità; ma anche la giusta e previdente preoccupazione verso il futuro proprio e di chi ci è affidato, la saggia cura per la salute, la preoccupazione per il lavoro. Penso invece alla preoccupazione ossessiva e angosciata di chi non si fida della Provvidenza dell’amore di Dio, di chi non sa che siamo comunque e sempre nelle sue mani. E sono buone mani.
Peccati, pensieri, pregiudizi, preoccupazioni… L’elenco potrebbe continuare (e non solo con parole che cominciano con la “p”): il Signore, che è il nostro custode, ci metta in guardia da chi vuole entrare nel nostro cuore per riempirlo di amarezza e ci aiuti a tenere bloccata la porta.
Ma la porta del cuore non deve servire solo per tenere fuori gli ospiti indesiderati, deve anzitutto custodire ciò che più di prezioso vi è dentro. Non è qualcosa, ma Qualcuno: il Signore Gesù. Se Lui è nel nostro cuore tutto cambia, sia quando lo percepiamo presente con gioia ed entusiasmo nei momenti di particolare grazia, sia quando ci capita di sentirci sballottati dalla tempesta come è successo agli apostoli e ci chiediamo dove sia finito il Signore. Ma Gesù era lì, addormentato nella barca messa a dura prova dalle onde e dal vento del mare di Galilea, pronto a soccorrere la poca fede dei suoi discepoli. E Gesù è qui dentro il nostro cuore, anche quando sembra addormentato, quando pare che ci abbia lasciato soli.
La presenza di Gesù nel nostro cuore, il suo camminare al nostro fianco, porta dentro la nostra vita molti doni. Ne elenco alcuni ricavandoli dal Vangelo e dal Nuovo Testamento.
Anzitutto l’ardore, quello che hanno sperimentato i discepoli di Emmaus: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). Un fuoco dentro che ti riscalda, ti rianima, ti fa intuire che le parole ascoltate sono quelle vere, ti dono luce per il tuo cammino.
E poi la gioia. Il Vangelo di Luca, che lo scorso anno abbiamo meditato, ricorda spesso la gioia come dono di chi incontra il Signore. Fin dall’inizio. La prova Giovanni Battista ancora nel seno di sua madre, quando Elisabetta accoglie Maria, incinta di Gesù, e dice: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44).
Una gioia che non può restare solo nostra, ma va condivisa. Chi incontra Gesù non può infatti non portarlo agli altri. Così come ha fatto Andrea quando, dopo essere stato con Gesù un pomeriggio, incontra il fratello Simone e gli dice: «Abbiamo trovato il Messia» e l’evangelista aggiunge «e lo condusse da Gesù» (Gv 1,41-42).
Con la gioia allora la condivisione. Chi ha sperimentato la misericordia, chi ha vissuto e vive profondamente la gioia del perdono e della presenza di Gesù, non può che trasmettere agli altri – con semplicità e umiltà – questi doni. Con generosità. Una generosità che trabocca dal cuore e muove piedi per andare incontro all’altro, braccia per accoglierlo, mani per aiutarlo, orecchie per ascoltarlo, bocca per consolarlo.
Infine – può sembrarvi strano – vorrei che come frutto del giubileo ci fosse nel cuore di ciascuno anche la gloria. Certo la partecipazione piena alla gloria di Dio sarà alla fine, sarà nel Regno. Ma già ora viviamo la gloria di essere figli e figlie di Dio, di essere fratelli e sorelle di Cristo, di essere tempio dello Spirito. Niente di meno. Lo dice chiaramente Paolo: l’uomo «è immagine e gloria di Dio» (1Cor 11,7) e aggiunge: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).
Ardore, gioia, condivisione generosa, gloria… questo deve esserci nel nostro cuore, un cuore perdonato e continuamente rinnovato dalla misericordia che lascia fuori ciò che invece ci ostacola nel nostro cammino con Gesù. Un cuore dove possa risuonare sempre per tutta la nostra vita la sua parola: «Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 15, 33). Perché Lui è e resta nel nostro cuore.
† Vescovo Carlo