La fraternità presbiterale (2018)

Thursday 29 March 2018

Nella mattinata del Giovedì Santo – 29 marzo 2018 – l’arcivescovo Carlo aveva presieduto in cattedrale la Messa del Crisma. Il rito è stato concelebrato dall’arcivescovo emerito, mons. De Antoni, unitamente ai presbiteri che prestano il servizio pastorale in diocesi. Al termine sono stati festeggiati i sacerdoti che quest’anno ricordano particolari anniversari di ordinazione e benedetti gli olii dei Sacramenti. Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata dal vescovo Carlo.

Io, noi, voi, essi… Non è un invito a ripassare la grammatica e, in particolare, i pronomi personali, ma a prestare attenzione, riflettendo sulla Parola di Dio di questa Eucaristia, ai soggetti implicati e alle loro relazioni.
Nella prima lettura emerge l’io del profeta, che appunto afferma in prima persona: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri…» e così via. Ma poi si rivolge al “voi” del popolo di Dio dicendo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti». Per concludere con la terza persona plurale, sempre però parlando del popolo di Dio: «Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, la loro discendenza in mezzo ai popoli. Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore».

La lettura dal libro dell’Apocalisse parla in terza persona di «Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra», ma poi si apre al “noi” ricordando che Lui «ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» per concludere con l'”io” del Signore Dio che si autoproclama: «io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». Infine il Vangelo, dove Gesù, riprendendo la profezia di Isaia, descrive la sua missione in prima persona, ma per terminare rivolgendosi al “voi” degli ascoltatori: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Questo passaggio dall'”io” del Signore al “voi” o al “noi” non è casuale: c’è infatti uno stretto collegamento tra l’azione di salvezza di Cristo e il noi dei salvati da Lui. Non può esistere il noi della Chiesa senza l’io del Signore. Anzi, come in altri passi della Scrittura ci viene rivelato, in particolare da san Paolo, l’io di Cristo e il noi della Chiesa tendono a sovrapporsi: la Chiesa è infatti il Corpo di Cristo e Cristo ne è il Capo. Anche a proposito specificamente della missione, esiste questa forte compenetrazione tra l’io di Gesù e il noi di chi è chiamato a vivere in modo più specifico la sua stessa azione evangelizzatrice, la sua cura pastorale, il suo servizio, come avviene in modo ovviamente diverso per i presbiteri e i diaconi. Se è vero che il rapporto di fede di ciascuno con il Signore è personale, se è altrettanto vero che la chiamata tocca il cuore di ognuno e chiede un’adesione altrettanto individuale, non è meno vero che il rapporto di fede inserisce nella Chiesa, che si declina nelle concrete comunità. Ciò vale per ogni cristiano con la sua propria vocazione. E il presbitero e il diacono sono anzitutto credenti, che in forza del battesimo condividono con ogni fedele la fondamentale dimensione ecclesiale.
La loro particolare vocazione di servizio a Cristo e alla Chiesa li colloca però in una specifica realtà comunitaria, quale rispettivamente il “presbiterio” e la “comunità diaconale”. L’essere inserito nel presbiterio o nella comunità diaconale non è qualcosa che si aggiunge alla chiamata personale a essere pastore o servo a nome di Cristo e neppure all’ordinazione sacramentale, che rende vera quella chiamata, ma è intimamente connesso con la chiamata e l’ordinazione. Occorre poi ricordare un altro elemento fondamentale che delinea la figura del presbitero come inserito in un presbiterio e quella del diacono come parte di una comunità diaconale ed è la dedizione a una concreta Chiesa particolare di cui è pastore, a nome di Cristo e con il mandato della Chiesa, il vescovo.

Esiste nella Chiesa, a livello universale, l’ordine presbiterale e quello diaconale, ma non esiste un presbiterio o una comunità diaconale se non in quanto riferiti a una Chiesa particolare.
Sto dicendo cose ovvie, ma che è sempre opportuno ricordare, perché sono le radici della fraternità presbiterale e diaconale. Una fraternità che non nasce da buona volontà o da buoni sentimenti, ma dallo stesso sacramento e dalla dedizione alla stessa Chiesa. Già altre volte ho ricordato, per altro riprendendo l’insegnamento conciliare, che ogni presbitero e ogni diacono dovrebbe sentirsi prima che parroco o cappellano di una certa parrocchia, direttore di un ufficio di curia o incaricato di un ministero piuttosto che di un altro, responsabile con il vescovo, il presbiterio e la comunità diaconale, di tutta la Chiesa particolare, nel nostro caso della Chiesa di Gorizia. Considerarsi così, avere sempre presente il prius della diocesi rispetto alle singole realtà che la compongono, sentirsi realmente responsabili dell’insieme ecclesiale renderebbe, tra l’altro, più facile il passaggio da un incarico all’altro e aiuterebbe lo stesso popolo di Dio della diocesi a pensarsi in modo più unitario e, senza perdere nulla del radicamento locale, meno “campanilista”.

La fraternità presbiterale (e lo stesso vale per la fraternità tra i diaconi e tra presbiteri e diaconi) nasce quindi dalla duplice radice sacramentale e missionaria di dedizione alla stessa Chiesa. Radici che la devono nutrire, ma che a loro volta devono esprimersi in una realtà che fiorisce e fruttifica. La fraternità non può restare solo un dato teologico affermato, ma deve essere concretamente vissuta. Vorrei quindi offrire alcuni suggerimenti, alcuni semplici orientamenti che possono favorire la fraternità presbiterale, anche riprendendo quanto emerso nel recente consiglio presbiterale.

Un primo spunto più che un suggerimento pratico consiste nell’invito a prendere coscienza dell’opportunità offerta dalla dimensione “a misura umana” della nostra diocesi. Essa può davvero favorire una reale conoscenza reciproca e una spontanea familiarità. Tutti ci conosciamo – non siamo molti…–, tutti in qualche modo abbiamo avuto la possibilità di rapporti tra di noi, vuoi perché più o meno della stessa età, vuoi perché si è stati educatori, parroci o cappellani dei più giovani, vuoi infine perché si è avuto modo di collaborare nel ministero. Anche i fedeli più vicini alla vita della nostra Chiesa, ci conoscono, almeno di nome, più o meno tutti.

Mi permetto poi di invitare a potenziare, con libertà, generosità e fantasia, le occasioni, che già ci sono o possono essere ulteriormente promosse, di fraternità spontanea: amicizie sacerdotali e diaconali da coltivare, occasioni per momenti di preghiera e di distensione tra gruppi di amici o di vicini, pranzi in comune, collaborazioni reciproche. Queste relazioni di spontaneità, quando non solo esclusive o escludenti, sono molte preziose sia per avviare nuove forme di collaborazioni pastorali, sia in particolare nei momenti di difficoltà, di fatica, di malattia che possono affliggere qualche prete o diacono. Più volte mi è capitato di chiedere al vicario generale o a qualche sacerdote: ma quel prete (o quel diacono) non ha qualche confratello amico che gli può stare vicino? che gli può suggerire per esempio di curare di più la salute? che gli può far presente con tatto e delicatezza qualche situazione problematica? Non per scaricare su altri la responsabilità che spetta al vescovo, ma devo dire che mi sono sentito molto meno preoccupato quando mi è stato risposto che, sì, c’è l’uno o l’altro che è amico e che può farsi carico di una più forte e autentica vicinanza.

A livello più generale mi limito a proporre due iniziative.

La prima è quella di pregare quotidianamente gli uni per gli altri. Ho fatto preparare a questo scopo un’immaginetta che riproduce la parte centrale della tela dell’abside di questa cattedrale, riporta l’elenco di tutti i presbiteri e diaconi incardinati o con un incarico in diocesi e una bella orazione tratta dalla liturgia. E’ possibile ogni giorno scorrere l’elenco dei confratelli e pregare gli uni per gli altri oltre che per le vocazioni presbiterali e diaconali?

La seconda: considerata la felice riuscita dei tre giorni di ritiro a Vittorio Veneto proprio dal punto di vista della fraternità – iniziativa che verrà riproposta a settembre con un forte invito a intervenire per chi non ha potuto parteciparvi all’inizio della Quaresima – e tenuta presente anche la consolidata esperienza di molte diocesi sorelle, penso sia utile ipotizzare ogni anno una “tre giorni residenziale” per il clero, privilegiando un anno l’aspetto spirituale e l’altro l’aspetto formativo che divenga un confronto tra di noi schietto e approfondito su qualche tema e abbia anche riflessi sulle scelte pastorali comuni. L’idea sarebbe di proporre comunque due date, con l’impegno ad aiutarsi a vicenda a coprire l’assenza del confratello per celebrazioni o adempimenti urgenti, nella consapevolezza che le comunità parrocchiali non avranno alcuna difficoltà a sapere che il loro sacerdote o diacono è assente per vivere un forte momento di fraternità a livello spirituale o formativo.

Sembrano pochi e semplici suggerimenti, ma sono convinto che con la grazia di Dio possono aiutarci a crescere in fraternità, conoscenza e stima reciproca e a vivere con serenità e, perché no?, con gioia la sfida dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo nella Chiesa che il Signore ha affidato alla nostra comune responsabilità.

+ vescovo Carlo