Nel pomeriggio di Venerdì Santo, 2 aprile 2021, l’arcivescovo Carlo ha presieduto in cattedrale il rito della solenne azione liturgica dell’adorazione della croce pronunciando la seguente omelia.
L’evento della passione di Cristo è una realtà così grande da apparire inesauribile e da permettere approcci da diversi punti di vista. Questa sera vorrei proporvi di accostarvi al mistero della morte di Cristo dalla prospettiva delle tre virtù fondamentali del cristiano: la fede, la speranza, la carità. Tre virtù che non sono, come pare indicare il termine, tre atteggiamenti morali, ma sono tre modi di essere che qualificano la nostra identità di cristiani.
Anzitutto la fede e la croce. Che cosa dice la croce a riguardo della fede? Come sappiamo la fede ha un duplice aspetto: quello oggettivo, che si riferisce a qualcosa che riteniamo vero, e quello soggettivo che riguarda il fidarsi e l’affidarsi sulla base di ciò che è vero. Non necessariamente sono congiunti: posso credere tranquillamente che esiste Dio e contemporaneamente non affidarmi a lui.
Sotto il profilo oggettivo della fede che cosa rivela la croce? Presenta un uomo condannato, flagellato, disprezzato, appeso a una croce. Un uomo che come dicono i Giudei a Pilato: «deve morire, perché si è fatto figlio di Dio». Un uomo che, come comprende Pilato nel drammatico dialogo con Gesù, non nega di essere re, ma precisa che il suo regno non è di questo mondo. Un uomo, ormai morto, il cui fianco viene colpito dalla lancia di un soldato. Chi è quell’uomo?
Nella passione di Giovanni non è raccontata la professione di fede del centurione al momento della morte di Gesù – «Veramente quest’uomo era figlio di Dio» -, che è invece presente nella passione secondo Marco, come abbiamo ascoltato domenica. Però c’è un testimone, lo stesso evangelista che scrive il Vangelo, che vede uscire sangue e acqua da quel fianco trafitto e crede. E anzi rende testimonianza affinché altri possano credere: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera: egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate».
Dal punto di vista soggettivo, è interessante la conclusione del brano di stasera. Si parla di due discepoli nascosti, che dopo la morte di Gesù vengono allo scoperto: Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Uno va addirittura da Pilato per chiedere il corpo di Gesù e l’altro porta ben trenta chili di aromi per seppellirlo degnamente. Giuseppe e Nicodemo finalmente credono e si fidano di Gesù mostrandosi suoi discepoli. E’ interessante notare che l’interrogatorio fatto dal sommo sacerdote Anna a Gesù riguardi proprio i suoi discepoli e che Pietro rinneghi Gesù negando di essere un suo discepolo. La fede porta pertanto a vedere nel crocifisso il figlio di Dio, il re atteso dai Giudei. E quella fede rende discepoli di Lui.
La speranza e la croce. La croce può dare speranza o avviene esattamente il contrario? Come è possibile che venga data speranza agli sfiduciati, agli scoraggiati, ai delusi se Colui che si presenta come il Messia viene condannato al supplizio più infamante. La croce non è forse la fine di ogni speranza? I due discepoli di Emmaus lo diranno al loro compagno misterioso: “noi speravamo che fosse lui il Messia… e invece…”. Come fa un re a regnare dalla croce?
Nei giorni scorsi ho fatto qualche ricerca sulla rappresentazione della croce e del crocifisso nell’arte cristiana. E’ in quella occasione che mi sono imbattuto nell’immagine del Crocifisso di Würzburg che ho utilizzato per l’editoriale di Voce Isontina. Ebbene ho fatto una scoperta che mi ha stupito: cioè che fino al secolo V non esiste nell’arte cristiana la rappresentazione del Crocifisso. La figura di Gesù è presente nei dipinti, nei mosaici, nelle sculture, ma non come crocifisso, bensì, per esempio, come un giovane buon pastore. Senza andare troppo lontano, basta riferirsi ad Aquileia: non mi pare che nei mosaici ci sia traccia della croce, mentre c’è il buon pastore. Perché questo? Semplicemente perché nella mentalità romana la croce era sinonimo di abiezione, di malvagità, di rifiuto. Solo gli schiavi, in particolare quelli autori di rivolte, venivano appesi alla croce. E la croce non poteva certo essere segno di speranza, quanto piuttosto di fallimento. Si può allora avere speranza in un crocifisso, fosse pure il figlio di Dio?
La risposta può venire solo guardando la croce dal punto di vista della terza virtù cristiana: la carità, l ‘amore. La croce è segno di amore? Pare esattamente il contrario: è segno di odio. Il freddo odio di chi condanna, in particolare – come è il caso di Gesù – se viene condannato un innocente per calcolo politico; ma anche l’odio cieco e disperato di chi viene condannato. Ma Gesù nell’ultima cena aveva detto: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Gesù non è stato condannato, ma ha consegnato se stesso non sottraendosi alla cattura e alla condanna a morte. Lo fa capire molto bene già al momento della cattura dove l’evangelista annota che l’atteggiamento di Gesù fa in modo che si compia la sua parola: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». E dove Gesù rifiuta ogni violenza. Anche a Pilato dice con chiarezza che non si comporta come un re di questo mondo che si sarebbe fatto difendere dalle sue guardie.
Gesù dunque muore in croce per amore e proprio per questo si rivela come il Figlio di un Dio che per essenza è amore. E per lo stesso motivo può dare speranza: se il Figlio ci ha amato fino al punto da donare la sua vita per salvarci, di che cosa dovremmo aver paura? Nessuno è più perduto.
La strada allora per arrivare alla fede e alla speranza contemplando la croce è quella dell’amore. Solo guardando anche questa sera la croce come manifestazione dell’amore di Dio, possiamo trovare speranza per noi e per il mondo, persino in questo momento così difficile che ci è chiesto di vivere, e credere in Colui che è stato trafitto.
Anche noi come il discepolo dobbiamo contemplare il suo cuore squarciato, un cuore pieno di amore, per credere, sperare e amare.
+ vescovo Carlo