Il Signore ci ama e non ci abbandona mai

Thursday 15 February 2024

Domenica 11 febbraio 2024, l’arcivescovo Carlo ha presieduto la concelebrazione eucaristica nella chiesa di San Giusto a Gorizia in occasione della Giornata del malato.

Chi viene di solito a Messa alla domenica, avrà notato, perché spesso la cosa viene fatta osservare dal sacerdote che tiene l’omelia, che la prima lettura, tratta da un libro dell’Antico Testamento, viene scelta sulla base del brano del Vangelo. In qualche caso il collegamento non è così immediato e va quindi spiegato, a volte con qualche difficoltà. Spesso è invece intuitivo. È ciò che succede in questa domenica.

Il passo del Vangelo di Marco ci racconta, infatti, della guarigione di un lebbroso da parte di Gesù e fa riferimento esplicito alle norme della legge mosaica che allora vigevano circa i lebbrosi, norme contenute nelle righe del libro del Levitico (uno dei primi cinque libri della Bibbia), che abbiamo ascoltato come prima lettura. Del resto Gesù stesso cita queste disposizioni della legge di Mosè, quando invita il lebbroso guarito a presentarsi al sacerdote per far constatare di essere stato sanato dalla lebbra.

Le norme mosaiche sono molto chiare e molto dure: il lebbroso viene visto come una persona impura dal punto di vista religioso – come se la sua malattia fosse segno di qualcosa di sbagliato del suo animo – e come persona pericolosa per la comunità, a causa della possibile diffusione del contagio. In ogni caso l’effetto è evidente: l’esclusione del lebbroso da parte della comunità. Anzi – e la cosa è ancora più tragica e dolorosa – viene persino imposta un’autoesclusione del lebbroso: lui stesso (o lei stessa, se donna) deve andarsene fuori dall’accampamento o dal villaggio e se qualcuno si avvicina deve essere lui (o lei) a gridare: “impuro, impuro”. Una vera e propria estromissione da ogni relazione.

Sappiamo che tuttora la lebbra, pur essendo da tempo curabile, in molte parti del mondo esclude le persone e le isola da tutti gli altri. Ma l’isolamento e spesso l’esclusione e comunque la solitudine del malato sono stati ampiamente sperimentati anche qui durante la pandemia del Covid-19. In ogni caso, la malattia di una qualche gravità tende sempre a isolare le persone. Penso sia un’esperienza di tutti. Questo succede anche quando c’è una grande attenzione da parte dei familiari, degli amici e del personale sanitario a non lasciar solo chi è colpito da patologie, soprattutto se gravi o anche invalidanti. Succede perché ciascuno alla fine è inevitabilmente solo con le sue sofferenze, il suo dolore, le sue paure, le sue speranze, le sue domande.

Ma questa solitudine, che deriva dal fatto ovvio che nessuno di noi può mettersi al posto di un altro, può essere alleviata o accentuata sulla base dell’atteggiamento delle persone. Lo ha ricordato con forza papa Francesco nel messaggio di quest’anno, intitolato: «Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni. Afferma il papa: «Ci fa bene riascoltare quella parola biblica: non è bene che l’uomo sia solo! Dio la pronuncia agli inizi della creazione e così ci svela il senso profondo del suo progetto per l’umanità ma, al tempo stesso, la ferita mortale del peccato, che si introduce generando sospetti, fratture, divisioni e, perciò, isolamento. Esso colpisce la persona in tutte le sue relazioni: con Dio, con sé stessa, con l’altro, col creato. Tale isolamento ci fa perdere il significato dell’esistenza, ci toglie la gioia dell’amore e ci fa sperimentare un oppressivo senso di solitudine in tutti i passaggi cruciali della vita».

Tra questi passaggi c’è certamente quello della malattia, che rende fragili e soli. Pertanto – e continuo citando papa Francesco – «la prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada».

Papa Francesco ci chiama, quindi, a essere accanto a chi soffre ed è malato. Non occorrono troppe parole, basta una vicinanza anche solo silenziosa, uno sguardo di tenerezza, un tenere la mano di chi è a letto ammalato. Mi pare molto significativo che papa Francesco, a questo proposito, abbia anche un invito per chi è malato: «A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri». Mi sembra un invito importante. Qualche volta non si va a trovare una persona malata per pigrizia, perché presi da tante cose, per paura di confrontarsi con il dolore. Ma talvolta non si sa se il malato gradisce o meno la presenza di altre persone, si ha paura di disturbare. Far sapere che una vicinanza – certo discreta e attenta – è qualcosa di gradito, diventa allora fondamentale.

Impegnarsi per essere vicini a chi è malato e soffre spetta anche chi si ha a che fare con il malato grazie alla sua professione di cura. Dico una cosa persino banale nel ricordare che la cura, prima ancora di essere una questione di analisi, indagini, medicine, terapie, ecc., è un fatto di vicinanza e di umanità. Occorre difendere tempi e spazi di relazione con chi soffre, anche in questo tempo di scarsità di persone, di risorse e di tempo.

Vorrei, infine, concludere evidenziando la convinzione che oggi ci ha portato qui non a tenere una conferenza o una tavola rotonda sulla malattia, ma per celebrare l’Eucaristia e il sacramento dell’Unzione con alcuni fratelli e sorelle ammalati e con chi li cura e li assiste. La convinzione, che ci viene dalla fede, è che in realtà, alla fine, la persona ammalata, persino la più abbandonata, non è comunque sola: c’è il Signore, che ci ama e non ci abbandona mai. Abbiamo detto più volte come risposta al salmo: «Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia». Il Signore è nostro rifugio, anche nei momenti di grande solitudine e angoscia. Dobbiamo crederci e invocare con il lebbroso: «Se vuoi, puoi purificarmi! Se vuoi, puoi guarirmi! Se vuoi, puoi starmi vicino». E sentire nel nostro cuore la sua risposta: «Lo voglio, sii purificato. Lo voglio, sii sanato. Lo voglio, non ti lascio solo perché ti amo».

Anche Maria, la Madre, non ci lascia soli. Oggi è l’anniversario delle apparizioni di Lourdes ed è significativo che proprio questa ricorrenza sia stata scelta per celebrare la giornata del malato. Termino allora con le stesse con cui papa Francesco chiude il suo messaggio: «affidiamoci a Maria Santissima, Salute degli infermi, perché interceda per noi e ci aiuti ad essere artigiani di vicinanza e di relazioni fraterne». Così sia».

+ vescovo Carlo

 

 

(foto Sergio Marini)