«Consolate, consolate il mio popolo»

Monday 11 December 2017

Domenica 10 dicembre 2017 il vescovo Carlo ha presieduto la celebrazione eucaristica, nella chiesa di S.Ignazio a Gorizia, in occasione del 70° anniversario di Fondazione delle ACLI provinciali.

«Consolate, consolate il mio popolo» ha proclamato il profeta. La consolazione è qualcosa di importante per ciascuno di noi e per la gente soprattutto in tempi di difficoltà, di stanchezza, di perdita di speranza, di tribolazione. La consolazione, infatti, è qualcosa di positivo, può essere un grande aiuto. Ma può costituire anche un imbroglio. In particolare se diventa – permettete il gioco di parole – una consolazione “consolatoria”, una consolazione a buon mercato, una consolazione che spinge a fuggire la realtà chiudendo gli occhi su di essa o a rifugiarsi nel sogno o nel rimpianto dei bei tempi passati.

La Parola di Dio non ci propone una consolazione di questo tipo. Il profeta, infatti, continua il suo messaggio parlando del Signore che deve venire e di un concreto impegno di preparazione della sua venuta. Lo si attende, infatti, non guardando per aria o restando seduti comodi su una poltrona, ma preparando la via, spianando le montagne, colmando le valli, raddrizzando le strade storte, liberando i sentieri accidentati. La consolazione che viene dal Signore è quindi una realtà che smuove, impegna, costringe a mettersi in gioco, fa agire. Questo non vale solo per coloro che ascoltavano il profeta secoli prima della venuta di Cristo, ma è un’indicazione precisa per la Chiesa e in particolare per coloro che in essa scelgono un impegno diretto nella società e nel mondo.

Un impegno che gli altri due passi della Parola di Dio di questa seconda domenica di Avvento aiutano a precisare. Anzitutto la seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di Pietro. Un brano che sembra però paradossalmente portare una radicale obiezione all’impegno nel mondo. L’apostolo, infatti, dice con estrema chiarezza che questo mondo dovrà finire: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta». Se è così, a che pro impegnarsi, agitarsi, darsi da fare? Tanto tutto passerà e finirà… Al limite – e sembra il suggerimento di Pietro nel prosieguo della lettera – può esserci spazio solo per un ritirarsi nella vita spirituale: «Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere». Visto che il mondo finisce ed è cattivo, tiriamoci fuori e pensiamo alla nostra anima. Sarebbe come dire: appena possiamo e se riusciamo in qualche modo a mantenerci, andiamo tutti in monastero…

Ma il testo della lettera di Pietro continua dicendo che noi dobbiamo aspettare e affrettare la venuta del Signore perché arrivino «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia». Dobbiamo solo aspettare questo o dobbiamo affrettare questo nuovo mondo, con l’impegno per la giustizia intesa in senso forte e ampio?

La risposta ci viene dal Concilio Vaticano II cui faremmo bene ritornare più spesso. Al n. 39 della Gaudium et spes (il documento sulla Chiesa nel mondo contemporaneo) afferma infatti: «l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cristo, tuttavia, tale progresso, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, è di grande importanza per il regno di Dio. Ed infatti quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre « il regno eterno ed universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace». Qui sulla terra il regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione».

Sono parole molto chiare che spingono all’impegno. La prospettiva del regno di Dio, lo sguardo di fede che si spinge oltre i confini del mondo di quaggiù, non porta quindi al disimpegno, ma a una darsi da fare consapevole che qui dobbiamo lavorare più per seminare che per raccogliere giustizia, pace, diritti, riconciliazione, libertà, ecc. Il Signore, però ci dà spesso la grazia e – questa sì – la consolazione di vedere già nell’inverno del mondo di oggi delle gemme e talvolta dei fiori e persino dei frutti di quello che sarà il suo Regno.

Il Vangelo ci offre, infine, una preziosa indicazione nelle parole del Battista che, riprendendo il messaggio profetico, invita a una reale conversione personale. Senza di essa non è possibile un impegno evangelico nel mondo. Ovviamente, come ricordavo prima, l’aspetto spirituale non va inteso come fuga, ma come fondamento di questo impegno. Un fondamento necessario per ogni cristiano, ma soprattutto per chi ha come proprio carisma, per così dire, uno sbilanciamento sul mondo. Si può essere sbilanciati in avanti solo se i piedi sono bene piantati e il corpo resta in equilibrio. Fuor di metafora, ci si può impegnare come cristiani nel mondo del lavoro, del sociale, della cultura, della politica, ecc. solo se ogni giorno – ogni giorno e non solo alla domenica o qualche volta – c’è spazio per la preghiera, per l’ascolto della Parola di Dio, per la riflessione, per la verifica sulla propria vita e sulle proprie scelte. Questo non vale solo per i singoli cristiani, ma anche per i cristiani che si impegnano insieme nella realtà del mondo.

Senza questo radicamento è facile la deriva nell’impegno solo orizzontale, diventando un soggetto politico e ideologico tra i tanti – e questa era le tentazione di decenni fa –, o un soggetto sociale solo di natura assistenziale o di promozione del tempo libero dimenticando la scelta prioritaria per il lavoro, la pace e la giustizia  – e questa è la deriva possibile oggi (papa Francesco dice che la Chiesa non deve essere una ong; io mi permetto di aggiungere che non deve essere neppure solo una “pro loco”).

L’impegno nel mondo oggi non è per niente facile: è più difficile di 70 anni fa, quando sono state fondate da noi le ACLI – e oggi ringraziamo il Signore per il cammino di questi anni – e anche più degli anni del Concilio. Oggi tutto si è reso complicato, frammentato, liquido, disorientato. Occorre quindi un grande impegno di discernimento personale e comune con riferimento alla Parola di Dio e anche alle indicazioni della Chiesa, non lasciando soli i pastori della Chiesa nello sforzo di comprendere la realtà, di capire ciò che giusto e, nel caso, di pronunciarsi con precise indicazioni e decidere specifiche azioni, ma lavorando insieme con generosità e – perché no? – anche con gioia affinché già oggi i semi del Regno di Dio siano presenti nel mondo, nella concretezza della nostra realtà.

E l’augurio che rivolgo in particolare a tutti coloro che sono impegnati nelle ACLI della nostra diocesi.

† Vescovo Carlo