“Che cosa ci sta a cuore?”

Monday 12 June 2017

Si è svolta dal 5 al 7 giugno presso l’oratorio della parrocchia di San Nicolò, l’Assemblea diocesana. La prima serata di è aperta con l’intervento dell’Arcivescovo mons. Carlo Roberto Maria Redaelli che pubblichiamo di seguito. Le foto della Tre Giorni possono essere visibili in questa galleria.

Un caro saluto a tutti e grazie per essere qui questa sera per una nuova assemblea diocesana.

Il mio intervento molto semplicemente ha un triplice scopo:

  • collegare quanto stiamo facendo in vista del prossimo anno pastorale con il cammino di questi anni
  • dare qualche suggerimento circa il discernimento pastorale
  • esprimere qualche aspettativa circa queste tre sere e l’anno che ci attende.

Il discernimento pastorale

Partirei dal secondo scopo indicato, cioè il discernimento pastorale. Un tema che è stato oggetto degli incontri di aggiornamento dell’anno che si sta per chiudere – lo abbiamo affrontato in chiave biblica, morale e antropologica -, ma che è sempre decisivo se non si vuole andare avanti a forza di abitudine, a caso, o guidati da motivazioni non corrette.

La questione del discernimento pastorale (e anche personale) può partire da una domanda semplice e sincera: che cosa mi sta a cuore? che cosa ci sta a cuore? Intendo dire ciò che mi sta/ci sta a cuore davvero, non solo in modo teorico. Anche se è inevitabile – siamo essere umani… – che ciò che ci sta a cuore sia mescolato con altri interessi, aspettative, desideri, ecc. che non vanno nella stessa direzione di quanto affermiamo o persino ne sono contrarie. In questo senso occorre sempre invocare con molta umiltà lo Spirito affinché renda puro il nostro cuore.

Ci si può quindi domandare: che cosa mi sta a cuore nel profondo, che cosa mi sta al cuore al netto, per così dire, di tante altre realtà? O, meglio, che cosa vorrei che stesse a cuore a me e alla mia comunità se il Signore ci desse la grazia di essere realmente liberi nella nostra interiorità? Mi piacerebbe che questa domanda risuonasse – e non solo stasera – dentro ciascuno di noi e anche all’interno delle nostre comunità, nei nostri consigli. E sarebbe interessante che ci comunicassimo con “parresia” e rispetto reciproco quanto andremmo scoprendo.

Penso che a tutti, se siamo qui, stia o dovrebbe stare a cuore, nonostante le nostre miserie e i nostri peccati…, il Regno di Dio, cioè il disegno di amore e di salvezza del Padre in Cristo e con lo Spirito sull’intera umanità. Il Regno, che è il contenuto dell’annuncio di Gesù fin dall’inizio del suo ministero (“Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo»”; Mc 1,14-15), significa in concreto che ogni uomo e ogni donna, a prescindere dalla appartenenza più o meno esplicita alla fede cristiana, è chiamato per grazia alla realizzazione in pienezza della sua umanità, essere cioè realmente immagine e somiglianza di Dio che è amore e comunione; inoltre che ogni cristiano è chiamato a ciò con in più il dono e la responsabilità di conoscere il disegno di Dio, che gli è stato annunciato, di avervi aderito nella fede e di essere diventato figlio di Dio con il Battesimo. Non dobbiamo mai dimenticare, che come ci insegna la parabola del giudizio finale (Mt 25, 31-46), tutti saremo giudicati sull’amore, a prescindere dal sapere o non sapere che il prossimo bisognoso è Gesù. Ma noi cristiani abbiano il dono e la responsabilità di saperlo.

Il Regno di Dio è dono, è grazia. Ma il suo annuncio, la sua testimonianza, la sua iniziale realizzazione è lo scopo, il fine di tutto il nostro agire pastorale, personale e comunitario. Il resto è nell’ordine dei mezzi.

Alcuni mezzi sono fondamentali, perché già in qualche modo realizzano lo scopo:

  • l’annuncio della Parola di Dio, che manifesta il disegno di Dio e chiama alla conversione e alla comunione con Lui
  • i sacramenti, che donano la grazia, cioè la comunione con Dio nello Spirito, dentro l’itinerario della nostra vita
  • la Chiesa, che, come dice il Concilio, è “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1) ed è quindi già l’iniziale realizzazione di quello che sarà il Regno di Dio (anche la Chiesa particolare vissuta nelle varie espressioni che la compongono: la Diocesi non è una sovrastruttura, né una confederazione di realtà autonome, ma è una realtà teologica che esprime il mistero della Chiesa)
  • la carità, nella concretezza delle sue diverse espressioni.

 Altre realtà sono strumenti secondari. Per esempio: la catechesi, la caritas, le forme liturgiche, la strutturazione territoriale della diocesi, le indicazioni e i programmi pastorali, i consigli pastorali, i vari gruppi parrocchiali, le diverse iniziative, gli edifici, i mezzi materiali. Ma aggiungerei anche: l’orario delle Messe, le processioni, le feste, ecc. Occorre avere sempre presente lo scopo – cioè il Regno di Dio – e poi cercare di attuarlo usando gli strumenti fondamentali e quelli più contingenti. La domanda allora che dovremmo sempre porci è: questa programma, questa attività, questa scelta, questo impegno è utile o no per il Regno di Dio oppure non serve o ne è persino di ostacolo?

Occorre pertanto un grande discernimento nell’uso degli strumenti per riferirli sempre al Regno di Dio. E’ necessario in questo avere una grande libertà per non lasciar prevalere i nostri gusti personali, le nostre inclinazioni, le nostre sicurezze, le nostre posizioni di potere, persino le nostre paure. Tenendo conto che siamo tutti molto abili nel rivestire scelte meno evangeliche con presunte alte motivazioni ideali…

Vorrei che ci aiutassimo maggiormente, con rispetto ma anche con grande libertà, a evidenziare che cosa è evangelico e che cosa non è nelle nostre scelte e nel nostro agire. Il primo aiuto ci viene comunque dall’ascolto della Parola di Dio che, come afferma la lettera agli Ebrei, “è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4, 12).       In ogni caso è fondamentale discernere per ogni strumento che utilizziamo o ci viene proposto il suo significato e il suo riferimento al Regno di Dio. Non ha senso usare uno strumento senza sapere il suo “perché”, né rifiutarlo senza un discernimento circa il suo legame al Regno di Dio nella concretezza della situazione.

Questo vale anche per gli strumenti diocesani: lettere pastorali, indicazioni pastorali, iniziative, eccetera. Non vanno accolti semplicemente per obbedienza e in maniera cieca, né ignorati o rifiutati a priori senza discernimento. Occorre invece inserirli nel cammino proprio di ogni realtà. Può anche darsi che un reale discernimento porti a ritenerli non utili in un contesto concreto. In questo caso si possono sostituire con altro (avvertendo della scelta e contribuendo, nel caso, a modificarli e a renderli più adatti). Ma deve essere un vero discernimento riferito al Regno di Dio, non una scelta a priori (perché dobbiamo fare le nostre cose, perché abbiamo fatto sempre così, perché costa fatica…). Certo, occorre che impariamo a condividere maggiormente a livello diocesano (ma la stessa cosa vale a livello decanale e parrocchiale) l’ascolto dello Spirito, la lettura della realtà, l’elaborazione delle scelte, la loro attuazione e verifica. Ogni suggerimento in merito e ogni condivisione di esperienze positive sono ben accetti.

  1. Il cammino di questi anni

Vengo ora a ricordare il cammino di questi ultimi anni, perché non si perda il senso dell’insieme e si cerchi di procedere in modo coerente e in comunione. Naturalmente sempre lasciando le nostre scelte diocesane, e non solo, sotto il giudizio e la guida dello Spirito, che è a volte imprevedibile.

Ricorderete che si è partiti, ovviamente collegandosi al cammino degli anni precedenti, interrogandoci su “Chi è la Chiesa” alla luce degli Atti degli apostoli. L’intento era quello di aiutare le diverse comunità a verificarsi sugli elementi essenziali della Chiesa e a fare le scelte conseguenti. Gli “atti della comunità”, che quasi tutte le parrocchie e le altre realtà ecclesiali hanno redatto, avrebbero dovuto servire a questo scopo.

L’anno seguente siamo rimasti sul tema della Chiesa, evidenziando, a seguito di quanto emerso nell’assemblea diocesana dell’anno precedente, le caratteristiche dell’ascolto e dell’accoglienza.

Nell’anno pastorale successivo, 2015-2016, l’interesse si è spostato sul singolo cristiano. Ci siamo domandati “chi è il cristiano” cercando la risposta nella lettura del Vangelo di Luca, una risposta collegata inevitabilmente alla domanda su “chi è Gesù”. Il Vangelo di Luca, il Vangelo della misericordia, ci ha aiutato anche a vivere in profondità il giubileo della misericordia proposto da papa Francesco (perché sempre il nostro itinerario diocesano deve restare in sintonia con il cammino della Chiesa, italiana e universale) .

L’anno che si sta concludendo ha continuato la riflessione sul singolo cristiano, evidenziando il fatto che è a tutti gli effetti cristiano –  e deve avere la consapevolezza e la gioia di esserlo – non solo chi ha qualche incarico o qualche impegno all’interno della comunità (o comunque ne è partecipe in modo attivo), ma anche il “cristiano della domenica”, cioè chi limita la sua partecipazione visibile alla realtà ecclesiale alla sola Messa domenicale. Ai cristiani impegnati, in particolare ai consigli pastorali, era stato chiesto perciò di curare meglio proprio la domenica, in modo che diventasse anche per i cristiani della domenica un momento forte in cui riscoprire, nutrire, rafforzare il proprio essere “cristiani nei giorni feriali”.

Da una veloce verifica – e ringrazio chi ha fatto avere delle risposte sui vari punti proposti (anzitutto i membri del consiglio pastorale diocesano) –, mi sembra che la lettera sia stata utilizzata nella lettura personale e in qualche caso anche per una lettura di gruppo, ma non molto di più. Poteva probabilmente essere adoperata maggiormente per la catechesi degli adulti: penso per esempio agli incontri per i genitori della catechesi o ai percorsi in preparazione al matrimonio o ai gruppi familiari. In ogni caso la duplice lettera – perché ce ne è stata una anche per gli operatori pastorali –, anche se apprezzata da qualcuno, probabilmente non ha aiutato a comprendere meglio su che cosa puntare. E’ stata invece ben accolta la proposta degli esercizi spirituali e delle vie crucis decanali, iniziative che possono essere riproposte il prossimo anno.

Qualcuno ha considerato scontato il contenuto della “lettera al cristiano della domenica”. Può essere, e la cosa mi ha fatto riflettere. Al di là della riuscita o meno del mezzo utilizzato – tutto è discutibile e perfettibile… – non sono convinto che sia inutile insistere sul fatto essenziale di essere cristiano. Anzi sono sempre più persuaso che il futuro della nostra Chiesa è legato al fatto che i cristiani prendano coscienza di esserlo e lo siano esplicitamente. Il che non vuol dire esibirsi come cristiani, prendere posizioni da crociata, o cose simili. Più semplicemente occorre essere convinti per sé e per gli altri che la fede, anzi Gesù, è la realtà più preziosa che abbiamo e possiamo testimoniare agli altri. Se manca questo, il nostro impegno a ripensare per esempio la strutturazione pastorale della nostra diocesi o, ancora di più, a delineare un percorso completo ed efficace di iniziazione cristiana – per citare altri temi che ci hanno interessato in questi anni – è destinato al totale fallimento. Se in una famiglia di cristiani, di genitori che chiedono i sacramenti per i figli, c’è la totale mancanza di parole e gesti di fede, se Gesù è il totalmente assente, fra’ Luigi e i catechisti possono inventare percorsi catechetici più belli e interessanti possibile, ma saranno perfettamente inutili.

  1. Il tema di queste sere e le mie attese

Concludo con due parole sul tema di questi giorni: i giovani. Si tratta di un argomento che ci è proposto dalla Chiesa universale e italiana, ma è in continuità con il nostro cammino. Ci chiama, infatti, ad approfondire la domanda “chi è il cristiano”, ma declinata in riferimento ai giovani: “chi è il giovane cristiano”. Con la domanda collegata: come deve essere una comunità cristiana adulta che vuole proporre il Vangelo come Parola vera, buona e bella alle nuove generazioni rendendo i giovani non solo ricettori, ma annunciatori e testimoni del Vangelo?

Che cosa mi aspetto allora da queste tre sere – e ringrazio chi le ha organizzate e chi vi offrirà la sua partecipazione attiva – e dal prossimo anno? Rispondo con una battuta: una crescita delle nostre comunità in giovinezza – quella del cuore – e nella gioia del Vangelo. Grazie e buon lavoro.

† Vescovo Carlo

Mettersi in ascolto ed aprirsi al dialogo

La tavola rotonda della prima serata – moderata dal giornalista e collaboratore di Voce Isontina, Salvatore Ferrara – ha visto la presentazione di alcune esperienze provenienti dal mondo giovanile

l mettersi in ascolto e l’aprirsi al dialogo costituiscono un requisito unico e primario – in questo momento più che mai – per capire la realtà che i giovani vivono e che con timidi segnali cominciano a farci conoscere ed assaporare.
Questo è senz’altro un dato concreto che abbiamo potuto ricavare dalla tavola rotonda di discussione tra i giovani nella prima serata dell’assemblea pastorale diocesana. Non è semplice però entrare in questa ottica che ci invita a “costruire una chiesa giovane, consapevole e in uscita” ma che stenta a trovare i mezzi per farlo.
Perché?
Abbiamo bisogno di ascoltare ancora – e molto – dai protagonisti. Non solo di “sentire da lontano” ma ci è stato chiesto di ascoltare “nel profondo e da vicino” per capire innanzitutto chi siamo e cosa vogliamo ma soprattutto chi è il giovane cristiano?
In una Chiesa che guarda all’uomo prima di tutto, forse questo è il primo nodo da sciogliere, poi esistono tutta una serie di tematiche conseguenti che hanno riguardato tutte le componenti della comunità riunita in un sostanziale momento di verifica nella tre giorni diocesana. I giovani coinvolti hanno perciò tentato di darci alcuni suggerimenti su quel “discernimento pastorale e personale” al quale anche mons. Redaelli ha fatto riferimento nel suo discorso introduttivo.
Ci sono stati dunque dei piccoli e forse parziali segnali da parte degli “intervistati” ma il cammino costruttivo è ancora lungo.
Sarà allora il tempo di preparazione al Sinodo dei giovani del 2018, una bella occasione di maturità per lavorare sugli spunti emersi dalle voci dei ragazzi interpellati la scorsa settimana. Un tempo per comprendere, ad esempio, se gli interrogativi che si pongono i ragazzi sono gli stessi della Chiesa e viceversa. In questa maniera si potrà dare continuità ai progetti e a far sì che prendano corpo tutte le basi proposte.
Edoardo, Giulia, Lorenzo, Lisa, Giulia, Pietro, Luca, Paride e Christian ci hanno detto: “cosa mi sta a cuore nel profondo” scegliendo, in una prima parte dei lavori, di farci ascoltare cosa significa secondo loro una delle dieci parole chiave contenute nel quaderno-sussidio preparatorio al Sinodo di ottobre 2018.
Queste dieci parole hanno poi “generato” tante altre parole importanti per segnare un cammino possibile da percorrere.
Ed è così che, in un secondo momento dedicato alle loro interviste, ci hanno parlato di dinamicità, movimento ed energia poi di unità nella diversità, di onestà, di direzioni possibili da percorrere attraverso il linguaggio universale dell’amore.
E ancora hanno fatto riferimento anche alle lacune “curabili” attraverso quelle chiavi di volta (cioè le nuove generazioni) capaci di generare un messaggio fatto di una capacità comunicativa nuova. Le intenzioni esistono e sono buone ma parlare a tutto campo di quelle sfide giovanili implica appunto la necessità di un tempo lungo.
Non si riescono per esempio a configurare ancora chiaramente le parole: lavoro, studio, formazione o impegno politico.
Ci sono inoltre dei temi ancora non ben consolidati come la socializzazione e la questione della territorialità (erano stati proposti ma non sviluppati il bilinguismo che viviamo in un territorio “di confine” e il capitale umano “disperso”).
L’augurio pieno di entusiasmo che comunque questa nuova generazione si fa e che fa a noi (come comunità non solo diocesana), è quello di restare vicini alla Chiesa capace di saper accogliere i sentimenti di genuinità nelle proposte, gli input da attuare e le novità.
Siano dunque i giovani in cammino nella quotidianità ad invitarci in maniera seria “ad uscire e vedere”, a “chiamare ed essere chiamati” per cogliere il dono del Discernimento unica via per saper riconoscere ed interpretare la Fede con un serio e coraggioso senso di appartenenza alla propria comunità inserita in un contesto Mondiale nella Chiesa Universale.

Don Michele Falabretti: l’arte di suscitare domande

L’incaricato nazionale del Servizio di pastorale giovanile della Cei ha coinvolto particolarmente il pubblico nella seconda serata della Tre Giorni

on tono pacato, allo stesso tempo sicuro e sfidante, don Michele Falabretti, sacerdote della diocesi di Bergamo e attualmente responsabile del Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile, ha incantato l’assemblea diocesana riunita per la seconda sera. Non ha portato novità mai sentite prime, ha semplicemente riproposto ciò che molti dei presenti già conoscono, ma con una luce e una prospettiva che infonde speranza. Don Michele ha aiutato a leggere alcuni fenomeni nel mondo giovanile di oggi e ad indicare alcune piste di lavoro e di ricerca.
L’incaricato nazionale è partito dalla constatazione che “Non ci sono più i giovani di una volta… chissà come andrà a finire il mondo, se le cose vanno avanti così…”. Ma subito don Michele ha aggiunto che ci sono delle tavolette babilonesi e papiri dell’antico Egitto che riportano espressioni del genere: da sempre i giovani sono stati visti come un problema, oltre che una risposta. In questo il nostro tempo non differisce molto dagli altri tempi, anche se ci sono delle caratteristiche peculiari della nostra epoca.
I giovani oggi sembrano non protestare se qualcosa non è gradito, semplicemente se ne vanno e abbandonano l’ambiente che non corrisponde ai propri bisogni. Mentre in passato si accettava che ci fosse qualcuno che insegnava e che ci fossero delle regole bene chiare, oggi non viene più accolto un manuale di istruzioni che dica che cosa fare, ma come avviene con gli smartphone si impara provando e chiedendo a chi sta vicino. Mentre noi sogniamo di trovare dei modi per istruire i giovani sulla fede, loro sono accessibili solamente se c’è una domanda che li interpella personalmente. L’arte dell’educatore è quella di suscitare domande.
L’educatore deve partire dal fatto che i giovani non sono non credenti, ma sono credenti in modo nuovo: per i giovani la fede non coincide con la frequenza domenicale, ma la fede interpella piuttosto la quotidianità; il prete non è visto come l’unico mediatore che fa incontrare Dio, anche se viene ricercato e apprezzato come accompagnatore; la vita è schiacciata molto sul presente, conta il qui e ora; la religione da esperienza etica diventa sempre più un’esperienza estetica (“la paura di essere brutti è più straziante che il rischio di essere malvagio”).
I giovani hanno bisogno di relazioni autentiche, di coerenza e di ascolto.
Proprio per questo come Chiesa dovremmo poter offrire delle comunità e delle esperienze di fraternità dove le relazioni sono veramente autentiche.
Il miglior investimento per il futuro della fede e per l’annuncio della fede ai giovani è curare delle relazioni fraterne a cominciare da quelle all’interno del presbiterio. Le comunità sono chiamate a rileggersi per poter offrire delle esperienze significative come i pellegrinaggi, la vita fraterna, l’oratorio, le esperienze di carità/missione accompagnate da educatori formati e preparati, capaci di far rileggere il vissuto ai giovani. Abbiamo bisogno di educatori che sappiano far emergere la dimensione spirituale della vita.
L’intervento di don Michele è stato seguito con grande attenzione dai presenti nella sala di S. Nicolò, ed è stato accompagnato da molte persone che prendevano appunti e annuivano ascoltando.
Il sinodo dei vescovi su “Giovani, fede, discernimento vocazionale” sarà l’occasione per ascoltare i giovani e specchiarsi in loro per comprendere a quale conversione la nostra Chiesa per essere sempre più generativa nella fede.

don Nicola Ban