Nella solennità dell’Epifania, l’arcivescovo mons. Carlo ha presieduto la solenne liturgia in cattedrale. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
Ieri sera ho finito di rispondere agli auguri che mi sono arrivati in questi giorni di Natale. Rispondo scrivendo a mano a ciascuno; ho scritti a mano anche gli auguri che ho mandato. Mi sembra un piccolo segno di attenzione, rispetto al mandare degli auguri o dei ringraziamenti stampati, tutti uguali. Ci vuole un po’ di tempo – non so se ci riuscirò anche in futuro… –, ma è anche un modo per ricordare singolarmente le persone e per ringraziare quelli che ti tengono nel cuore e te lo dicono almeno a Natale. Mi sono segnato anche le persone che dovrei io per primo ricordare e anche quelle cui sarebbe bello fare un piccolo dono o che mi hanno mandato un segno concreto di affetto.
Mentre facevo questo mi è venuto da chiedermi: ho mandato in questi giorni gli auguri a Gesù?, ho risposto ai suoi?, gli ho fatto un regalo? Lui mi ha fatto un regalo? Devo confessare di essermi sentito un po’ imbarazzato: vuoi vedere che preso da tanti impegni e da tante cose anche belle ho un po’ trascurato il festeggiato principale del Natale?
Ma poi ho pensato: c’è ancora l’epifania per rimediare, ho ancora un giorno di tempo per cercare di ovviare alla mia maleducazione verso Gesù. Del resto – lo abbiamo ascoltato nel Vangelo – i doni mica glieli hanno portati i pastori a Natale, ma i magi all’epifania: sono ancora in tempo… Certo che alla sera tardi è un po’ difficile trovare un regalo: i centri commerciali sono chiusi, le bancarelle dei mercatini hanno ormai spento le luci,… comprare via internet e fartelo mandare con il corriere non sei più in tempo. Lo so, è antipatico, ma sono sicuro che sarà capitato anche a voi quando vi siete trovati a mal partito avendo dimenticato qualcuno cui fare un regalo: in questi casi si ricicla qualcosa che ti è stato donato, avendo cura di non lasciar dentro la confezione il bigliettino originario. Ho deciso quindi di riciclare al Signore qualche regalo ricevuto in questi giorni di Natale, sperando che non se ne accorga o che almeno apprezzi il tentativo di rimediare all’ultimo minuto.
Vorrei regalargli anzitutto l’amore paziente, fedele e affettuoso dei genitori, di mariti e delle mogli e dei figli che ho incontrato nel reparto “Nucleo Gravi Celebrolesioni Acquisite” del nostro ospedale di Gorizia. Persone che con grande amore tutti i giorni sono vicini a figli, mogli, mariti, genitori spesso privi o quasi in modo permanente di coscienza.
Gli porterei poi in dono l’affetto verso i familiari, in particolare i figli, che ho trovato in alcuni detenuti il giorno di Natale in carcere. Mi ha colpito in particolare un signore che ha una figlia piccola, che non può vedere, a cui però diceva, con uno sguardo triste, pensava continuamente.
Vorrei poi donargli la disponibilità sincera ed entusiasta dei giovani scout che la vigilia di Natale hanno servito la cena ai poveri e ai rifugiati organizzata dalla caritas. Ma anche i gesti di generosità che tante persone hanno fatto in questi giorni verso i bisognosi.
Non mancherei di presentare a Gesù anche la gioia e il desiderio di camminare più sciolti nella via del Vangelo di tante persone che si sono avvicinate al sacramento della riconciliazione in vista del Natale.
Vorrei poi offrirgli la testimonianza di tanti missionari e missionarie che annunciano il Vangelo in realtà a volte molto difficili, come due nostre consacrate che lavorano in Algeria e che mi hanno scritto raccontandomi il loro impegno, insieme difficile e gioioso.
Non trascurerei neppure l’affetto che tante persone si sono dimostrate in occasione del Natale: persone tornate in famiglia da lontano – ne ho viste molte in treno la sera di Natale quando andavo a Milano a trovare mia mamma –, familiari e amici che si sono visti insieme, persone che si sono scambiati auguri sinceri e partecipati.
Penso di non far brutta figura con questi regali “riciclati” e con altri simili che potrei portare al Bambino Gesù. Ma forse Lui è un po’ esigente e vuole proprio un mio regalo personale. Ci ho pensato: gli regalerei un desiderio, un sogno. Quello che la nostra Chiesa di Gorizia fosse fatta di persone e comunità più gioiose e consapevoli della bellezza del dono di essere cristiani e proprio per questo più capaci di trasmettere questa gioia agli altri. Una cosa bella puoi tenerla solo per te? Non ti viene spontaneo farne partecipi le persone che ti sono vicine? Ma il cristianesimo è qualcosa di bello e di prezioso per noi, per me?
Finora ho parlato di doni da portare a Gesù. Ma è giusto anche ringraziare per i regali che Lui ci ha fatto. E l’essere cristiano non è forse il più grande dono? Un dono che nasce dal fatto che nel Natale il figlio di Dio si è fatto uomo per renderci figli di Dio. Una volta si usava una preghiera con due versioni, una per il mattino e una per la sera, il “Ti adoro mio Dio” con cui si ringraziava Dio “per avermi creato, fatto cristiano”… Cosa ottima.
Occorre essere riconoscenti al Signore per il dono della fede, essere contenti per questo e gioire anche del fatto che il Signore è il Salvatore di tutti, credenti e non credenti. Noi abbiamo la gioia di saperlo, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda lettura chiamando tutto ciò “mistero”, non nel senso di qualcosa di nascosto ed esoterico, ma di una realtà profonda che viene dal cuore di Dio: «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo».
Questa dimensione universale della salvezza – tipica dell’Epifania – ci aiuta a ricordare, anche in un momento difficile come questo caratterizzato da cambiamenti e di tensioni a livello mondiale, che ogni uomo e ogni donna ha la dignità di figlio e figlia di Dio, e che tutti, nessuno escluso, siamo chiamati alla salvezza. I magi, gente straniera che però seguiva la stella della ricerca di un senso per la vita e ha trovato Gesù, ci aiutino a ricordare la dimensione universale della nostra fede e a gioire per questo. Un dono grande per cui ringraziare.
† Vescovo Carlo
Nel primo giorno del 2017, l’arcivescovo monsignor Redaelli aveva presieduto la solenne liturgia eucaristica in cattedrale. Pubblichiamo di seguito la sua omelia.
I predicatori di una volta, in una società non così complessa e piena di stimoli, di immagini, di suoni, di emozioni, ecc. come la nostra, utilizzavano a volte qualche piccolo trucco per aiutare i loro ascoltatori a ricordare quanto proponevano con grande impegno e talvolta con suggestiva capacità retorica. Uno di questi trucchi, affinati dal mestiere e dalla consumata esperienza, era quello di riassumere una lunga predica in poche parole, magari con assonanze in rima. E ciò che vorrei fare anch’io, ovviamente senza dilungarmi troppo. Le parole che vi propongo sono: benedizione, adozione, meditazione, costruzione.
Anzitutto “benedizione”. La prima lettura è una benedizione, quella che Dio, attraverso Mosè, affida ad Aronne e a tutti i suoi discendenti nel sacerdozio israelitico affinché l’utilizzino verso il popolo di Dio. La benedizione per la Bibbia non è solo alcune parole di augurio, formulate in modo veloce e poco impegnativo. E’ molto di più. Si tratta, infatti, di qualcosa di costitutivo, qualcosa che si realizzerà nel concreto e non un semplice auspicio. Quanto più è grande e forte chi benedice o fa benedire, tanto più si può essere certi che la benedizione sia efficace. Così è assolutamente fondamentale la benedizione ricevuta dal padre, dal re, dal sommo sacerdote.
Quella della prima lettura è la benedizione stessa di Dio. Sono molto interessanti i suoi contenuti. Riascoltiamola: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». Ci sono anzitutto due elementi che svelano Dio: il volto e il nome. Il volto è l’elemento più espressivo di una persona: dice i suoi sentimenti, le sue intenzioni, le sue attese, … Un bambino sorride immediatamente quando riconosce il volto tenero e affettuoso della mamma e del papà. Anche noi dovremmo sorridere riconoscendo il volto di Dio che ci guarda: un volto non sconosciuto o tremendo, ma un volto d’uomo pieno d’amore da quando il Figlio di Dio è divenuto uno di noi. Il nome: nella Bibbia è molto di più dell’identificativo di una persona, è infatti la stessa persona, il suo essere, la sua forza. Chi ha su di sé il nome di Dio, sa di essere al sicuro e si sente forte e sereno. E in effetti la benedizione parla poi di custodia, di grazia e di pace: tutte realtà che vengono da Dio, dalla sua benedizione.
Una benedizione che la Parola di Dio oggi si limita a raccontarci come una realtà passata? No, di certo: oggi ci viene proclamata, affinché la benedizione di Dio ci accompagni per tutti i giorni del nuovo anno. E questo è il suo augurio.
Dopo benedizione, la seconda parola è “adozione”. Ne parla Paolo nella seconda lettura per ricordarci che noi uomini siamo stati adottati da Dio come suoi figli, grazie al fatto che il Figlio di Dio si è fatto uomo. Siamo figli di Dio. Ce lo attesta lo Spirito Santo: «che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!». Per questo tra poco canteremo l’invocazione allo Spirito, il Veni Creator, perché per tutto questo anno ci ricordi sempre di essere figli di Dio.
Una terza parola è “meditazione”. Meditare è l’atteggiamento tipico di Maria nel mistero del Natale. Lei è la Madre di Dio, di cui oggi celebriamo la sua festa. Il Vangelo di Luca parla sì del suo essere madre – «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia» –, ma sottolinea soprattutto il suo atteggiamento di riflessione: «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Vorrei che anche noi in questo nuovo anno imparassimo di più a custodire la Parola di Dio, cominciando da quella che ascoltiamo la domenica, ma anche dalle parole del Vangelo che magari ci capita (o ci impegniamo…) a leggere personalmente. Vorrei inoltre che imparassimo maggiormente a custodire nel cuore e a far diventare preghiera avvenimenti, fatti, relazioni, volti, sentimenti, pensieri, desideri, … insomma tutto ciò che compone la trama delle nostre giornate, che non deve scivolare via senza lasciare traccia come acqua che scorre sul marmo.
Infine l’ultima parola: “costruzione”. Si tratta di un termine che ritorna spesso nel messaggio che papa Francesco ha scritto quest’anno sul tema della pace – un testo che ha come titolo: “La nonviolenza: stile di una politica per la pace” –, un termine, costruzione, collegato appunto con la parola “pace”. Vi leggo un passo del messaggio di papa Francesco dove tratta questo tema: «La costruzione della pace mediante la nonviolenza attiva è elemento necessario e coerente con i continui sforzi della Chiesa per limitare l’uso della forza attraverso le norme morali, mediante la sua partecipazione ai lavori delle istituzioni internazionali e grazie al contributo competente di tanti cristiani all’elaborazione della legislazione a tutti i livelli. Gesù stesso ci offre un “manuale” di questa strategia di costruzione della pace nel cosiddetto Discorso della montagna. Le otto Beatitudini (cfr Mt 5,3-10) tracciano il profilo della persona che possiamo definire beata, buona e autentica. Beati i miti – dice Gesù –, i misericordiosi, gli operatori di pace, i puri di cuore, coloro che hanno fame e sete di giustizia». Costruire la pace quindi vivendo, nella concretezza della nostra vita e con le responsabilità che ciascuno di noi ha, il Vangelo delle beatitudini.
Benedizione, adozione, meditazione, costruzione: quattro parole che vorrei fossero per ciascuno di noi insieme augurio e impegno durante questo nuovo anno che ci viene donato. Buon anno. Bon an. Srečno novo leto.
† Vescovo Carlo
Nella sera dell’ultimo giorno dell’anno civile 2016, l’arcivescovo Carlo aveva presieduto la liturgia eucaristica nella chiesa di S. Ignazio. Il rito si è concluso con il canto del Te Deum.
Pubblichiamo, di seguito, l’omelia pronunciata dall’arcivescovo.
Come mai l’anno termini il 31 dicembre e inizi il 1 gennaio è un dato assolutamente convenzionale. Non ha infatti, per quanto sappia, una base scientifica di carattere astronomico, come invece la durata dell’anno solare stabilita in circa 365 giorni e 6 ore in riferimento all’orbita terrestre, durata sostanzialmente identica a prescindere dal punto del calendario da cui si iniziano a contare i giorni. Del resto nel mondo si celebrano diversi capodanni e anche nella nostra società si intersecano diversi anni: per esempio quello liturgico e quello scolastico, per non parlare del nostro anno personale il cui inizio e il cui compimento festeggiamo il giorno del nostro compleanno.
Vorrei però questa sera richiamare la vostra attenzione sul fatto che la conclusione e l’inizio dell’anno, per noi cristiani e in generale per il mondo occidentale, cadono nel mezzo del tempo natalizio: il 1 gennaio conclude esattamente l’ottava del Natale. Questo dato può essere molto significativo sia per capire meglio il mistero del Natale, sia per avere una comprensione più profonda del nostro tempo scandito dal passare degli anni.
Ci aiuta in ciò l’inizio della seconda lettura. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, afferma: «Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli». Significativa è l’espressione: «quando venne la pienezza del tempo». Non vuol dire semplicemente qualcosa di simile a “in un certo tempo”, “quando era il suo giorno”, “a un certo punto della storia”… No, si parla di pienezza del tempo, dunque di compimento, di senso del tempo, del tempo che raggiunge il suo scopo, la sua ragione d’essere. E tutto ciò è collegato con la nascita di Gesù. Quella nascita, infatti, dà compiutezza e pienezza di significato al tempo. Questo perché il Figlio di Dio, che nasce uomo tra gli uomini, determina l’ingresso di Dio nella storia, l’intrecciarsi della vita stessa di Dio con il tempo dell’uomo.
Un tempo che allora cessa di essere il susseguirsi inevitabile di giorni, mesi, anni, secoli, millenni, ma diventa il tempo dove Dio si rivela come Figlio dell’uomo e svela il nostro essere figli di Dio. Ecco allora come possiamo e dobbiamo vedere il nostro tempo: non è semplicemente un passare da un anno all’altro, ma come un ambito in cui si dipana il nostro essere figli di Dio, il nostro essere amati da Lui come figli e il nostro corrispondere, più o meno fedele e vero, al suo amore. Diciamolo con altre parole riferendoci all’anno: che cosa è un anno per ciascuno di noi? Non è se non una fase, una tappa della nostra storia d’amore con Dio.
Vorrei allora proporvi questa sera di leggere proprio così l’anno che si sta chiudendo. Per aiutarci in questo, ci possiamo fare due domande. Anzitutto: quali sono state le parole d’amore, i gesti di tenerezza, le presenze di aiuto, le attese di fiducia di Dio nei miei riguardi in questi 366 giorni del 2016? E dal mio punto di vista: quali sono state le parole, i gesti, le presenze, la fiducia ecc. con cui ho risposto all’amore di Dio?
Potrebbe capitare che, esaminando sinceramente questi dodici mesi, dovessimo concludere che in essi non è esistita nessuna storia d’amore con Dio. Più onestamente dovremmo dire però che non ci siamo accorti del suo amore, che invece sicuramente c’è stato. Del resto anche tra le persone può succedere che qualcuno si innamori di un’altra persona e questa neppure se ne accorga o che qualcuno si dia da fare per un altro e costui non riconosca l’amore e l’aiuto che gli viene dato. Dio allora come un innamorato non corrisposto, come un benefattore non riconosciuto? Ma non per questo è venuto meno il suo amore, che si fa perdono e misericordia, e quindi c’è comunque motivo per cantare stasera il Te Deum.
Più probabile è dover riconoscere che la nostra storia d’amore con Dio quest’anno è stata incostante, con qualche momento bello e autentico e tanti altri grigi e insapori, o è stata persino poco fedele, con tradimenti e allontanamenti. Ma neppure in questo caso il suo amore è venuto a mancare e dobbiamo dirgli grazie per quel poco in cui gli abbiamo corrisposto.
Ma più che fare un esame di coscienza questa sera, che può portarci a pensieri deprimenti e di delusione (soprattutto se, in aggiunta, quest’anno per qualcuno non è stato facile a causa di malattie, lutti, difficoltà familiari e altri problemi), vorrei che fossimo contenti del fatto che il nostro anno, con le sue luci e le sue ombre, è stato comunque un anno di Dio. Dovremmo ridare valore a quell’espressione latina, usata una volta in molte iscrizioni: Anno Domini, “nell’anno del Signore”. Il significato originale di essa, che seguiva il numero dell’anno magari abbreviata in A.D., è simile a “dopo Cristo” e vuole indicare che l’anno si conta dalla nascita di Gesù. Ma penso sia giusto darle un senso più profondo: non solo cronologico (per esempio anno 2016 dalla nascita di Gesù), ma di appartenenza dell’anno a Dio, di presenza di Dio. Anche perché si usava spesso un’altra espressione equivalente: Anno salutis, nell’anno della salvezza. Anno Domini: quindi anno che appartiene a Dio, dove Dio è presente con il suo amore, dove Dio ci salva.
Il 2016 è stato comunque un Anno Domini, un anno di Dio, un anno dove il suo amore ancora una volta ci ha salvato. Il fatto, tra l’altro, che abbia coinciso per larga parte con l’anno della misericordia lo ha ancora di più caratterizzato per essere stato un anno di Dio, un tempo di grazia.
Ma l’anno di Dio non è un anno che si aggiunge ai vari anni che caratterizzano la nostra vita e complicano le nostre agende, non è altro rispetto al nostro anno, al nostro tempo. Perché il Natale ci ha rivelato che Dio è il Dio con noi, è il Dio dentro di noi, dentro la nostra storia, fatta di luci e di ombre, di gioie e di dolori, di speranze e di delusioni. E questo è l’essenziale ed è stato l’essenziale per l’anno che si chiude tra poche ore.
Anno 2016, Anno Domini, Anno salutis, Anno misericordiae.
† Vescovo Carlo