Chiamati all’accoglienza

Thursday 24 June 2021

Si è svolto mercoledì 23 giugno 2021 nella chiesa dei Santi Nicolò e Paolo a Monfalcone, il terzo momento dell’assemblea diocesana. Pubblichiamo di seguito l’intervento del vescovo Carlo.

Desidero anzitutto ringraziare per il lavoro che avete fatto nei decanati nei giorni scorsi. Abbiamo appena ascoltato le sintesi. Anche da quanto abbiamo sentito, intuisco tre realtà su cui vorrei soffermarmi con voi.

 La fatica

La prima è una certa fatica nell’affrontare l’impegno pastorale e la vita ecclesiale. In realtà la fatica è più generalizzata e riguarda ogni aspetto della vita personale, familiare e comunitaria. Dobbiamo riconoscere con umiltà che la pandemia, di cui forse (sottolineo il “forse” …) vediamo se non una conclusione definitiva almeno una decisa attenuazione, ci ha messo tutti a dura prova. Anch’io – lo riconosco – ho avuto i miei momenti di fatica e di incertezza e sono grato a chi mi ha sostenuto con la preghiera e l’affettuosa vicinanza. La nostra zona non è stata così pesantemente colpita come altre in Italia e nel mondo, ma in ogni caso ci sono state delle morti, delle situazioni di grave malattia, dei contagi, delle quarantene, ecc. oltre alle limitazioni che hanno rallentato e persino a volte bloccato attività e relazioni.

Ci siamo accorti, in quest’anno pastorale che si sta concludendo, di avere vissuto contemporaneamente tutte e tre le esperienze bibliche citate nella lettera pastorale “La nube luminosa”: il deserto, l’esilio e il ritorno. Speravamo di essere già nell’ottobre dello scorso anno nella fase di ripresa e di ricostruzione – appunto il ritorno dall’esilio –, una fase certo non facile e con molte incertezze, ma comunque ormai di uscita dalla pandemia, è invece abbiamo dovuto affrontare varie ondate che ci hanno ributtato nell’esilio, un esilio non nella comodità di una città sia pure straniera come Babilonia, ma in esilio nel deserto. Con molte paure: in parte nuove, in parte già esistenti ma amplificate.

Anche questa assemblea diocesana – per citare l’ultimo episodio –, nelle sue fasi, ha avuto le sue difficoltà. La prima sera a Cervignano ha visto una presenza numerosa, ma penso non sia stato facile seguire soprattutto la seconda relazione, sia per qualche problema tecnico di ricezione, visto che l’intervento era da remoto, sia perché era forse quella più interessante e ricca, ma bisognosa di più tempo per essere compresa negli spunti molto interessanti offerti dalla teologa. Ho poi capito che c’è stata qualche difficoltà e stanchezza anche nella fase decanale e forse anche stasera non siamo al massimo dell’entusiasmo.

Del resto la pandemia si è aggiunta in una situazione che era già di cambiamento e di transizione. Papa Francesco da tempo parla non di un’epoca di cambiamento, ma di un cambio di epoca. Su questo ho trovato molto illuminanti le considerazioni che fa p. Arturo Sosa, il generale dei Gesuiti, in una recentissima pubblicazione. Vi invito ad ascoltare la sua risposta a due domande[1].

Il covid-19 ha generato una nuova crisi o ha solo peggiorato i problemi che il mondo stava già patendo?

Malgrado quanto lo ripetiamo, continuiamo a non credere di trovarci di fronte a un cambiamento di epoca. La pandemia ha mostrato le cuciture del sistema, le fragilità di una configurazione del mondo destinata a finire mentre ne compare un’altra. Ha rivelato l’ingiustizia strutturale, un concetto denunciato 40 anni fa e che ora può estendersi da un’epoca all’altra. Tra le sfide che la pandemia ha chiaramente portato alla luce c’è la globalizzazione, senza la quale l’emergenza sanitaria sarebbe stata probabilmente meno grave. Dobbiamo rivedere come è concepita la globalizzazione, se è un processo che cerca di renderci tutti omogenei, come vuole l’illusione del mercato, o se rispetta e beneficia della diversità degli esseri umani per vivere in un mondo multicolore. Più che nella stessa barca, il coronavirus ci ha messi a navigare nella stessa fortissima tempesta, ma non tutti stiamo navigando nella stessa nave. In alcune si avvertono le onde più che in altre. I grandi problemi del mondo c’erano già prima della pandemia, anche se ora sono visibili più chiaramente. Speriamo di imparare la lezione per trarre le conclusioni che ci porteranno a prendere le decisioni necessarie affinché siano superate le cause dei problemi.

Quanto tempo pensa che durerà la transizione tra la nuova era che lei immagina e quella che stiamo lasciando?

È molto difficile da prevedere. Potrebbe richiedere più di una generazione e bisognerà vedere quanto reggerà il mondo che nasce. È possibile che i processi siano accelerati rispetto ad altri tempi, ma non oso fare previsioni. Una delle caratteristiche di questo mondo interconnesso è che non si ferma mai. L’umanità è più mutevole oggi rispetto al passato. Il sapere avanza più velocemente e si diffonde con maggiore efficacia. Nell’analisi del cambio d’epoca, occorre ricordare con lungimiranza l’insistenza di Papa Francesco sull’aprire percorsi e non occupare spazi, cioè sul sottolineare l’importanza di lanciarsi nell’aprire nuove strade e nel modo di percorrerle, anziché stabilirsi in sicurezze paralizzanti. Qui si tratta di essere pronti a seguire il cambiamento dei tempi, di lasciarsi portare nelle mani di Dio in un cammino che si impara a conoscere strada facendo. È un po’ vertiginoso, ma è quello che succede quando si affronta la trascendenza. Bisogna vivere con coraggio: questo dà le vertigini, ma genera molta soddisfazione.

Aggiungo che la situazione di incertezza riguarda anche la Chiesa italiana in maniera molto concreta. Non posso per esempio quest’oggi darvi precise indicazioni per il prossimo anno, perché siamo in attesa di quello che la CEI ci indicherà, in particolare per il cammino sinodale cui papa Francesco ci invita da tempo, un cammino sinodale da coordinare e integrare con quello della Chiesa universale che comincerà il prossimo 17 ottobre e si concluderà nel 2023 con il sinodo dei vescovi che avrà come tema proprio la sinodalità (il 17 ottobre vivremo l’avvio del cammino ad Aquileia insieme con le altre tre diocesi della Regione). Il prossimo 9 luglio ci sarà un Consiglio Episcopale Permanente da remoto, cui io stesso parteciperò, proprio per confrontarci come vescovi sul da farsi.

Una vita che è continuata e continua

In questa situazione complicata, il Signore però ci è stato vicino, la sua nube ci ha accompagnato nelle nostre paure e incertezze, non siamo stati soli. La vicinanza del Signore ci ha comunque permesso di vivere anche quest’anno. La vita delle nostre comunità non si è sospesa in attesa di tempi migliori. Questa è una seconda realtà su cui dobbiamo riflettere.

Abbiamo continuato le celebrazioni – che non si sono mai interrotte, se non caso mai rinviate quelle relative alla prima Riconciliazione, alla Prima Comunione, alla Confermazione e al Matrimonio –; non si è interrotta l’attività catechetica, anche se spesso non in presenza e sempre con la collaborazione molto positiva delle famiglie, come pure le attività formative per gli adulti e i Gruppi della Parola; abbiamo avuto fattivamente a cuore i poveri e i bisognosi attraverso in particolare i centri della Caritas; sono continuate le attività delle associazioni, gruppi e movimenti; c’è stata grande attenzione ai malati; si è dato conforto alle famiglie colpite da lutti.

Di tutto questo dobbiamo ringraziare il Signore. E trarre anche una preziosa lezione: si vive e si deve vivere bene anche quando la realtà non è chiara, quando è difficile programmare, quando non solo non ci sono le condizioni ideali, ma neppure quelle che fino a ieri ritenevamo indispensabili.

Quindi anche il prossimo anno pastorale andremo avanti comunque e faremo il meglio possibile, lasciandoci guidare dallo Spirito del Signore che nei modi più diversi, anche inaspettati, ci indica la strada per camminare.

La passione per il Regno: ciò che ci sta a cuore

C’è però una terza realtà che ho colto dal lavoro in sede decanale, al di là delle questioni e delle proposte concrete, ed è il fatto che nonostante tutto non abbiamo rinunciato ad amare il Signore e la sua Chiesa. Pur dentro le stanchezze e le incertezze, vedo con molta gioia e riconoscenza, una passione per il Regno di Dio e la sua giustizia. A volte un po’ sotto traccia, ma c’è. Vorrei partire da essa per dare stasera alcune indicazioni – in ogni caso provvisorie, ma anche profondamente vere – per il nostro cammino.

Ho parlato di passione per il Regno di Dio, che c’è indubbiamente. Ma la mia impressione è che spesso è data troppo per ovvia, per scontata, e rischia di non essere ciò che ci muove nella concretezza delle nostre scelte personali e comunitarie. Perché quella passione è l’essenziale che la pandemia deve farci ritrovare. Per rimetterla al centro della nostra vita, vi inviterei a riflettere su una domanda: che cosa mi sta a cuore, che cosa ci sta a cuore? Perché è vero, ciò che ci muove non sono anzitutto le idee, i progetti, i propositi, ecc. ma ciò che ci sta a cuore davvero. È ciò che determina e deve determinare la nostra vita. Certamente poi ci sono altre realtà più superficiali che influiscono sul nostro sentire e sul nostro agire, ma non cancellano ciò che ci sta a cuore, che anzi può correggere e purificare sentimenti e azioni più superficiali.

Propongo un esempio per farmi capire. Parto anch’io come il teologo don Cesare dalla mamma. A una mamma – e le signore che sono qui lo sanno bene… – sta a cuore il proprio bambino. È sbilanciata su di lui, attenta ai suoi bisogni, preoccupata per la sua salute, per la sua crescita, ecc. Questo è ciò che guida il suo agire. Ma ci sono momenti in cui una mamma è stanca, preoccupata per varie questioni, nervosa, ecc. e quindi non riesce a dare al bambino quelle attenzioni, quella comprensione, quel sorriso che vorrebbe. Non le sta più a cuore il figlio? No di certo, altrimenti non farebbe di tutto per stargli vicino e non si rammaricherebbe con se stessa di non essere sempre all’altezza della situazione. Ma il suo avere a cuore il figlio la aiuta anche a cercare di superare stanchezze e nervosismi. Questo è ciò che avviene, ma solo se in realtà e non solo in teoria le sta a cuore il figlio.

Non so se l’esempio chiarisce. Ma penso sia fondamentale per ciascuno di noi personalmente e comunitariamente verificare che cosa ci sta a cuore e come questo determina o deve determinare il nostro agire. Interrogarsi su questo, fare un esame di coscienza (che non è l’elenco dei peccati, ma appunto vedere che cosa ho nel cuore e come questo si traduce in pratica nella giornata), è molto importante per purificare il proprio sentire e per avere una carica interiore soprattutto nei momenti di difficoltà.

Che cosa mi sta a cuore? Che cosa ci sta a cuore? A noi cristiani dovrebbe stare a cuore anzitutto il Signore Gesù e il suo Regno, cioè il piano di salvezza del Padre che si realizza nell’amore dello Spirito. Dovrebbe starci a cuore anzitutto il Vangelo, che ci fa conoscere sempre più profondamente chi è Gesù e che cosa sta a cuore a Lui. Le nostre scelte, il nostro agire dovrebbe essere guidato da questo. E il Vangelo dovrebbe indicare le priorità: ma è così?

La mia impressione – ma parlo anzitutto per me, perché la domanda vale anche per il vescovo – è che non sempre è così. E allora ci sono tre conseguenze. Anzitutto ciò che si fa, anche se buono, è spesso qualcosa di non prioritario, magari portato avanti rispetto ad altro dalla inerzia della tradizione e dell’abitudine. E poi sempre ciò che si fa risulta a sè stante rispetto a ciò che dovrebbe essere il suo fondamento e rischia di essere qualcosa di molto parziale. Infine – ed è una terza conseguenza – è facile che altre motivazioni inquinino o persino cancellino la motivazione principale del nostro agire.

Faccio anche qui qualche esempio. Le nostre comunità hanno poche risorse sia di mezzi, ma soprattutto di persone disponibili e preparate: dove investirle? Che cosa decide le priorità? Che cosa va continuato o intrapreso e che cosa va eventualmente lasciato? Se ci sta a cuore il Regno di Dio, allora questo diventa il criterio discriminante per scegliere le priorità.

Per esempio, in questa prospettiva l’accompagnare la scelta di un adulto che chiede il Battesimo deve diventate un’assoluta priorità e non una cosa che si aggiunge alle tante o un impegno che provoca disagio disturbando il solito tra tran…  Si devono trovare persone della comunità che lo accolgono e lo affiancano; la comunità intera deve essere coinvolta; occorre curare una splendida celebrazione; va verificato se anche simbolicamente il battistero è un segno fondamentale per la comunità; occorre assicurare l’accoglienza e l’accompagnamento del neofita dopo il Battesimo; va colta l’occasione perché tutti i membri della comunità riscoprano il loro Battesimo e così via… Su questa linea cominciano a esserci per fortuna nella nostra diocesi esperienze positive e mi augurino che si moltiplichino.

Altro esempio: la Messa di Prima Comunione. Ci sta a cuore che si concluda presto, che sia una bella celebrazione, che non disturbi la comunità adulta o ci sta a cuore che i ragazzi incontrino con le loro famiglie il Signore, che la celebrazione, liberata da aspetti secondari, sia davvero la prima di una celebrazione perseverante tutte le domeniche, ecc.? So che qualche parrocchia ha colto la necessità di dividere i ragazzi interessati in piccoli gruppi in più domeniche come occasione per coinvolgere la comunità adulta e per dare un segnale di “normalità” e continuità alla partecipazione alla Messa festiva dei ragazzi. Altre invece hanno visto quella scelta solo da un punto di vista organizzativo evidenziando spesso gli aspetti fastidiosi della cosa.

Ribadisco. Vorrei invitarci tutti davanti a qualsiasi scelta a domandarsi: che cosa ci sta a cuore? E se la risposta è quella giusta – cioè il Signore e il suo Vangelo – a verificare ogni scelta su questo.

Un altro esempio: e anche in questo caso esistono già delle esperienze positive. Pensate come cambia organizzare una festa patronale avendo a cuore il Regno di Dio, rispetto a non mettere a tema questo orientamento. Allora gli aspetti spirituali e celebrativi diventano importanti e quelli di festa diventano un’occasione per invitare e accogliere chi di solito è fuori dal solito giro: famiglie arrivate di recente in parrocchia, gli stranieri, gli aderenti a un’altra religione, i poveri, anche – perché no? – i giovani… magari trovando modo di valorizzare l’apporto di tutti.

Ci vuole la capacità e il coraggio di verificare ciò che ci sta a cuore e agire di conseguenza con un po’ di coraggio e di inventiva. Forse non tutti hanno colto bene i tre esempi che la teologa Moira Scimmi ha fatto riferendosi alle sue attività: il modo nuovo di organizzare il centro estivo portando i ragazzi sul territorio e coinvolgendo persone e istituzioni fuori della Chiesa; il preparare i catechisti affinché siano in grado di far diventare i genitori protagonisti della catechesi; il dare dignità ai senza fissa dimora presenti nella Casa della Carità. Piccoli esempi, che però dicono una capacità innovativa.

A questo proposito vi inviterei ad ascoltare quanto dice sempre p. Arturo Sosa, il generale dei Gesuiti, rispondendo a due altre domande[2].

Dal coronavirus può emergere un mondo migliore di quello che avevamo prima?

È possibile, ma credo che nessuno possa garantire questo risultato. Gli ostacoli perché ciò accada, inoltre, sono molto forti. Tra la prima e la seconda ondata della pandemia, per esempio, c’è stato un cambiamento di posizione. Almeno in Italia, all’inizio, l’emergenza era vista come un’opportunità per cambiare le cose, ma dopo le recrudescenze questo sentimento è venuto meno, sono prevalse la stanchezza e lo scoraggiamento di fronte alle restrizioni e al desiderio di tornare al più presto a quella che era considerata la normalità. Per realizzare un vero cambiamento ci vuole audacia, caratteristica rara, perché implica una rinuncia a ciò che avevamo prima, a ciò che ci è familiare, alla nostra zona di comfort. Ci vuole coraggio per affrontare un percorso incerto con dei rischi che non sempre siamo disposti a correre. È l’audacia dell’impossibile che ebbe Maria di Nazareth. Anche Gesù era audace. Per quello che propose nelle Beatitudini avrebbero potuto dirgli che era un pazzo. Tale audacia non è alla portata di tutti, ma ci sono persone che, mosse dall’amore, diffondono la loro azione di solidarietà e diventano il lievito delle masse. Il problema è che la massa è molto grande e non è facile farla lievitare uniformemente affinché possa avvenire una trasformazione radicale verso un mondo migliore.

Come cambierà la Chiesa con la pandemia? Si è accelerata la secolarizzazione?

Il compito della Chiesa non è quello di opporsi alla società secolare, anche se questo è ciò che vorrebbero alcuni settori ecclesiali. Dobbiamo aprire le porte e cercare modi per dialogare con questo mondo. Ritengo che più che una ripresa della religiosità, ciò che sta accadendo con la pandemia è una maggiore interiorizzazione dell’esperienza di Dio. Da questo può rinascere un senso di comunità e di comunione. Stiamo passando da una visione della Chiesa che potremmo chiamare clericale, in cui prevale la visibilità di chiese o simboli come i sacerdoti, a una in cui prevale l’esperienza vissuta in modi diversi. Questo dovrebbe portare a una riduzione del clericalismo, che è un tentativo di controllare e manipolare la religione. In questo caso la pandemia ha un effetto positivo, perché spinge a porci domande che prima molti non si ponevano.

Insisto sulla motivazione del nostro agire, per fare un’ulteriore precisazione, soprattutto quando si cerca insieme di intuire una strada da percorrere. Mi riferisco all’episodio del cosiddetto Concilio di Gerusalemme (Atti 15,1-29), che abbiamo ascoltato all’inizio. È chiaro che in quella riunione erano in gioco diversi interessi e sensibilità. C’era il tentativo della Chiesa di Antiochia di avere una propria autonomia e identità diversa da quella di Gerusalemme e, a specchio, lo sforzo della Chiesa di Gerusalemme di restare la Chiesa madre. Esisteva la sensibilità dei cristiani provenienti dal paganesimo, molto liberi e disinvolti e, di contro, quella dei cristiani provenienti dal giudaismo non molto disposti a rinunciare alle proprie tradizioni o anche, a ragione, preoccupati di garantire continuità tra il popolo eletto, Israele, e la Chiesa. Entravano in gioco anche elementi caratteriali e passioni umane: il carattere irruente e deciso di Paolo, l’invidia e la gelosia presenti in alcuni di Gerusalemme, la personalità più moderata di Giacomo, ecc. È evidente però dal racconto degli Atti che a tutti stava a cuore il tema della salvezza e della decisività della croce e risurrezione di Gesù: che cosa ci salva? La legge mosaica o la Pasqua di Cristo? La risposta è la Pasqua e il fatto che il cristianesimo, pur in continuità con la storia della salvezza, non era da considerarsi una setta del giudaismo ma una realtà nuova. Ma nel documento conclusivo del concilio saggiamente gli apostoli ribadendo questo aggiungono anche alcune disposizioni pratiche per rispettare la sensibilità dei cristiani provenienti dal giudaismo: un compromesso o un essere fedeli alla priorità del Regno di Dio, che chiede amore, comprensione, unità?

Intendo sottolineare il fatto che il riferirsi a ciò che deve starci a cuore, cioè il Regno di Dio, ci aiuta personalmente e comunitariamente a purificarci dagli elementi negativi e persino di peccato, ma ci porta anche a stare attenti a sensibilità, interessi, abitudini, tradizioni, ecc. delle persone e delle comunità. Il cammino sinodale, cui papa Francesco ci chiama, funziona solo se tutti partiamo dall’avere a cuore il regno di Dio – e presupponiamo che anche gli altri lo abbiano – e se si cammina insieme tenendo conto dei diversi doni, sensibilità, culture, tradizioni, ecc. delle persone e delle comunità come opportunità di crescita e di arricchimento reciproco.

Sogni e visioni nel tempo dell’incertezza: l’accoglienza

Ho detto sopra e lo abbiamo sentito anche da p. Sosa, che ciò che ci sta a cuore deve portarci a guardare avanti con coraggio e fiducia. Il brano del profeta Gioele (3,1-5) che abbiamo ascoltato e che spesso papa Francesco ricorda, sottolinea che tutti di ogni età siamo chiamati a guardare avanti, sognando i vecchi e avendo visioni i giovani. «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (Gioele 3,1). Notate che non sono sogni e visioni a vuoto o a partire da chissà che cosa, ma che sono guidati dallo Spirito. Che cosa lo Spirito Santo ci sta chiedendo? Dobbiamo domandare lo Spirito Santo nella preghiera, meditare molto il Vangelo, pregare e maturare uno sguardo su di noi, sugli altri, sulla realtà dal punto di vista di Gesù. Forse quando mancano i programmi e il futuro è incerto, i sogni e le visioni – intesi bene e non come fuga dalla realtà – devono aumentare. In fondo i grandi cambiamenti nella Chiesa – pensiamo ai santi – sono nati dai sogni e da visioni di persone guidate dallo Spirito e innamorate di Gesù. Lo siamo noi? Quali sono i miei sogni e le mie visioni?

Il mio sogno di una Chiesa di Gorizia più evangelica, lo conoscete già. In fondo è dal 2013 che ci stiamo lavorando a partire dalla prima lettera pastorale “Chi è la Chiesa”. Gli atti della comunità erano un tentativo di esprimere questo sogno e non solo di descrivere il passato e il presente di una comunità. Dovevamo riprenderli e aggiornarli nello scorso anno pastorale, insistendo su i tre elementi fondamentali della Parola, della catechesi e iniziazione cristiana, della carità con l’aggiunta del tema dei ministeri. Doveva esserci anche la ripresa della visita pastorale. Sappiamo come è andata…

Però vorrei aggiornare il mio sogno partendo con concretezza dall’esperienza della pandemia. Mi ha molto colpito l’editoriale di Voce Isontina dell’altra settimana che elencava i ministeri nati dalla pandemia: molto concreti e molto veri. Non lascerei cadere l’esperienza. Ma chiediamoci: c’è una cifra sintetica che riassume questa esperienza nata dalla pandemia? Mi sembra che stia tutta in una parola: accoglienza.

Accoglienza significa dare importanza alla relazione e, prima ancora, alla persona (e quanto siano importanti e preziose le relazioni lo abbiamo scoperto ancora di più in questo periodo di chiusure). Significa apertura ricettiva all’altro, disposti ad accoglierlo così come è, ad accompagnarlo, a sostenerlo, ma anche a ricevere da lui i suoi doni oltre che condividere le sue fatiche, i suoi problemi, i suoi sogni. L’accoglienza diventa allora reciproca. In concreto c’è l’accoglienza sulla porta della Chiesa di chi partecipa all’Eucaristia domenicale, di chi chiede i sacramenti, di chi si rivolge al centro d’ascolto della Caritas, di chi è arrivato da poco in quel territorio, di chi è straniero, di chi ha problemi di salute o di disabilità, ecc.

L’accoglienza quindi riprende il tema della ministerialità e ne offre la base. Il primo servizio da rendere all’altro e all’altra è accoglierlo e così riconoscerlo come persona con la mia stessa dignità. Proprio per questo l’accoglienza riprende anche il tema della fraternità: presuppone che l’altro sia mio fratello, l’altra mia sorella con la stessa mia dignità, ma anche fa crescere concretamente la fraternità.

In realtà questo che vado proponendo era già stato indicato nella lettera pastorale del 2013-2014 significativamente intitolata: Una Chiesa che ascolta e che accoglie. Un tema per altro suggerito dall’assemblea diocesana al termine del precedente anno pastorale dedicato a Chi è la Chiesa. Che effetto ha avuto quella lettera e quelle indicazioni? Lascio a voi giudicare. Il tempo che è passato da allora penso ci abbia fatto tutti maturare. Un po’ alla volta l’idea che la Diocesi di Gorizia non è una confederazione di “libere repubbliche autonome” o, peggio, un di più rispetto alle parrocchie, mi pare venga superata per una visione anche teologicamente corretta della Chiesa particolare, che si articola in comunità locali, ma è qualcosa di unitario insieme al vescovo. Anche l’idea che la lettera pastorale non è un esercizio estivo del vescovo, ma è un atto di magistero pastorale nato da un lavoro sinodale di condivisione, mi pare stia maturando. Ringrazio per questo soprattutto l’ottimo lavoro del consiglio pastorale diocesano, ma anche del consiglio presbiterale.

E ovviamente anch’io e i miei più immediati collaboratori stiamo cercando di imparare a essere più concreti e più attenti ai piccoli passi possibili, nel maggiore ascolto delle persone e delle comunità (è mia intenzione, sempre pandemia permettendo, incontrare nel primo periodo del nuovo anno tutti i sacerdoti e i diaconi e poi riprendere anche la visita pastorale e gli incontri con diverse categorie di persone).

Allora la proposta per il prossimo anno pastorale – su cui però vorrei avere ulteriori suggerimenti e che è anche subordinata a ciò che ci chiederà la Chiesa italiana e papa Francesco –

potrebbe essere quella di avviare un percorso di crescita nell’accoglienza, prevedendo una specie di “corso base” su questo e poi una specifica articolazione per alcuni ambiti su cui si esercita l’accoglienza e che sono più importanti per la vita della Chiesa e in particolare per la nostra diocesi: l’accoglienza nelle celebrazioni domenicali, l’accoglienza e l’accompagnamento ai sacramenti (dell’iniziazione cristiana e del matrimonio), l’accoglienza dei bisognosi, l’accoglienza dei nuovi arrivati, ecc.

Ci possiamo provare? Potete darmi suggerimenti in materia, come singole persone e come consigli pastorali e anche come associazioni e movimenti? Vorrei che anche queste realtà ecclesiali, presenti in diocesi, inserissero nei loro cammini, nel rispetto delle loro peculiarità, il tema dell’accoglienza. Attendo suggerimenti. Il modo più semplice è inviarli a vescovo@arcidiocesi.gorizia.it e a pastorael@arcidiocesi.gorizia.it

Grazie e che il Signore ci assista con il suo Spirito.

+ vescovo Carlo 

[1] In cammino con Ignazio. Arturo Sosa in conversazione con Darío Menor, Segretariato Nazionale dell’Apostolato della Preghiera, Roma 2021, 55-57.

[2] In cammino con Ignazio. Arturo Sosa in conversazione con Darío Menor, Segretariato Nazionale dell’Apostolato della Preghiera, Roma 2021, 57-60.