Dio rispetta la nostra libertà, non ci tratta da macchine

Saturday 26 March 2016

Nel Venerdì Santo – 25 marzo 2016 – l’arcivescovo Carlo ha guidato la Via Crucis alle ore 15 nella Casa circondariale di Gorizia.  Successivamente ha presieduto la celebrazione dell’azione liturgica che ricorda la Passione del Signore in cattedrale ed, in serata, la Via Crucis cittadina proposta dai giovani del decanato di Gorizia.

CELEBRAZIONE DELLA PASSIONE DEL SIGNORE – CATTEDRALE

In una intervista resa nota di recente, papa Ratzinger riflettendo sulla dottrina della salvezza, della giustificazione afferma: «Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio».

Nel venerdì santo toccherebbe quindi a Dio giustificarsi. Se ci pensiamo bene questa riflessione è qualcosa di non lontano dai nostri pensieri a partire dall’obiezione circa il male, che diventa immediatamente un’obiezione verso Dio: perché Dio permette il male? Perché non lo risolve con un colpo di bacchetta magica o con qualche fulmine da scagliare contro chi sbaglia oppure rendendo la persona inoffensiva, incapace di commettere il male? A parte la constatazione che volentieri vorremmo che i fulmini fossero scagliati contro gli altri e non contro di noi, anche se sbagliamo – siamo sempre pronti a giustificarci, a trovare scuse per noi, un po’ meno per gli altri, che anzi spesso condanniamo … –, resta il fatto che se noi non fossimo capaci di compiere il male non saremmo neppure capaci di fare il bene, perché non saremmo liberi.

I robot, i computer, le macchine non fanno né male, né bene perché semplicemente eseguono ciò per cui sono stati programmati. Al massimo si guastano o si bloccano del tutto. Si possono poi riparare o sostituire. Noi siamo persone. Non siamo programmati per qualcosa, ma abbiamo la possibilità di decidere della nostra vita. Certo abbiamo molti condizionamenti: non ci siamo scelti noi la famiglia, più o meno felice, dove siamo nati; tante circostanze della nostra infanzia e adolescenza, età così importanti per formare la personalità, non sono state scelte da noi, ma sono capitate; abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di incontrare persone giuste o sbagliate, amici veri o amici falsi, ecc. Ma alla fine siamo noi a decidere.

Dio rispetta la nostra libertà, non ci tratta da macchine. Proprio per questo non ci mette in riparazione forzata e neppure è pronto a sostituirci con altri. Perché per Lui noi siamo unici. Anche l’umanità è unica per Lui e per questo non la ripara, né la sostituisce, ma la ama. C’è un racconto particolare della Bibbia dove si narra del diluvio universale come castigo di Dio verso l’umanità, ma alla fine, dopo aver salvato Noè e con lui tutti gli esseri viventi, Dio dice: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, seme e mèsse, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno» (Gn 8,21-22) E aggiunge: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gn 9,9-11).

Dio quindi non vuole più distruggere l’umanità. Ma non si limita a prendere atto che l’uomo è incline al male fin dall’adolescenza e a starsene a guardare dall’alto dei cieli. No, a un certo punto decide di fare Lui stesso parte di questa umanità diventando uomo. Ma non si ferma a questo: si fa uomo, ma un uomo che si lascia schiacciare dal male, si lascia colpire dalla cattiveria, si lascia mettere in croce.

Non si tratta di una fatalità, di un qualcosa che purtroppo capita a Dio che si è fatto uomo. Gesù dice con chiarezza che potrebbe reagire, lo dice a Pietro nell’orto degli ulivi quando cerca di difendere Gesù con la spada: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,52-54). Ma Gesù non vuole che queste legioni di angeli vengano a difenderlo. Lui è re, ma – lo abbiamo sentito poco fa – dice a Pilato: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).

Lui è re, ma il suo modo di regnare non è quello di dominare e neppure di difendere la giustizia castigando chi compie il male. Lui invece vuole essere solidale fino in fondo con il male dell’uomo per dargli un senso, Lui non vuole andare contro la libertà dell’uomo per cancellarla visto che di solito è usata male. Lui, invece, prende su di sé le conseguenze di questa libertà impiegata per fare cattiverie e decide nella sua libertà di trasformare qualcosa di molto cattivo, come uccidere il figlio di Dio, in qualcosa di assolutamente nuovo, in un gesto d’amore. La croce da segno di grande crudeltà e cattiveria diventa segno di un amore grandissimo.

Che cosa stiamo celebrando allora questa sera? La libertà dell’uomo che ha scelto il male, la libertà di Dio che ha scelto l’amore. Lo ha scelto rispettando la libertà di chi aveva creato a sua immagine e somiglianza e ha scelto il male, entrando nella storia umana, lasciandosi schiacciare dalla cattiveria, ma trasformandola in occasione di amore. Torniamo alla riflessione iniziale di papa Ratzinger, di Dio che deve giustificarsi. Ora lo sappiamo come si giustifica: scegliendo la croce, scegliendo l’amore. E proprio per questo solo lì, sul Calvario c’è la speranza che nonostante tutto l’umanità abbia un destino di salvezza.

† Vescovo Carlo

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VIA CRUCIS CITTADINA DA VILLA SAN GIUSTO ALLA CATTEDRALE

Abbiamo percorso una via crucis stasera o una via misericordiae? La risposta è scontata: una via misericordiae. E anche se abbiamo appena ascoltato per ultimo il breve racconto evangelico della morte di Gesù, in realtà quel racconto doveva essere il primo. Sì, perché la via misericordiae parte dal calvario. La via crucis vi arriva e, salvo pochi gesti – il cireneo; le donne piangenti; Maria, le donne e il discepolo sotto la croce; Giuseppe di Arimatea che si preoccupa della sepoltura –, non ha molto della misericordia. Piuttosto ha tanto dell’ingiustizia, della cattiveria gratuita, della sopraffazione, del lavarsi le mani, della ragion di stato, dell’odio motivato da convinzioni religiose, della indifferenza.

Tutte cose che conosciamo bene e che portano al calvario: a quello di duemila anni fa e ai calvari di oggi, che siano metropolitane o aeroporti squarciati dalle esplosioni, città distrutte dai bombardamenti, famiglie segnati da assurdi omicidi, barconi che naufragano a poche miglia dalla salvezza, tendopoli infinite piene di profughi e così via. Conosciamo bene questi calvari. Si ha la sensazione che si scende da uno per risalirne un altro; i calvari dell’umanità non finiscono mai. Perché dal calvario, purtroppo, non si può scendere per sempre, c’è n’è immediatamente uno nuovo pronto.

E non si può dire che l’umanità non si impegni con forza a preparare nuove croci per se stessa. A volte l’impegno assume persino la precisione maniacale di chi programma e progetta il tutto fino all’ultimo dettaglio e non importa se lo fa per far funzionare al meglio un campo di sterminio, per compiere bombardamenti mirati con droni guidati da migliaia di chilometri di distanza o per seminare panico con bombe umane. Via crucis continue e sempre nuove.

Però dal calvario può incominciare anche la via misericordiae, magari per risalire inevitabilmente un altro calvario ma con un atteggiamento diverso, cercando di mettere almeno qualche segno di misericordia dentro la nuova via crucis. Perché dal calvario può nascere la via misericordiae? Perché sul calvario può avvenire finalmente un riconoscimento.

Gesù nella parabola del giudizio finale evidenzia il fatto che sia chi ha dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, accolto il forestiero, rivestito l’ignudo, visitato il carcerato o il malato, sia chi non ha fatto tutto ciò, non sapeva di avere a che fare con lo stesso Cristo. Per saperlo occorre guardare al Crocifisso: in lui c’è l’affamato, l’assetato, lo straniero, l’ignudo, il malato e il carcerato. E non solo perché nella passione Gesù ha vissuto diverse di queste situazioni: ha avuto sete, è stato spogliato, è stato imprigionato; ma perché Lui, il Figlio di Dio, si è incarnato in tutte le nostre sofferenze, in tutti i nostri bisogni. Per questo è possibile un riconoscimento, anzi un duplice riconoscimento: vedere in Lui tutta l’umanità sofferente, vedere nei bisognosi Lui stesso.

Si potrebbe obiettare: non c’è bisogno di questo riconoscimento per usare misericordia, lo dice la stessa parabola del giudizio. Che bisogno c’è di vedere Gesù nel bisognoso e di vedere questi in Gesù? La misericordia vale per se stessa, potremmo quasi dire che è “laica”. E’ vero e noi cristiani non possiamo e non dobbiamo appropriarci della misericordia, pretendere il monopolio della solidarietà, l’esclusiva della carità.

Ma ci è stato il dono di vedere, di sapere dove altri non sanno e non vedono. Un dono e una responsabilità. Ma anche una gioia. Agli altri verrà dato solo nel Regno di scoprire con immensa gioia che chi hanno aiutato nel povero e nel sofferente è quel Figlio di Dio che ora li accoglie nel suo Regno. A noi viene già data questa gioia qui e ora. Un dono immenso.

E una responsabilità: noi che sappiamo possiamo ormai far finta di niente verso il povero? Noi che sappiamo che Gesù è presente nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nell’ignudo, nel malato, nel carcerato possiamo girare gli occhi da un’altra parte? No. Per noi non è più possibile percorrere una via crucis se questa non diventa una via misericordiae. Così abbiamo cercato di fare stasera.

Che attraverso la croce di Cristo, il Padre ci conceda in questa Pasqua dell’anno santo della misericordia di diventare misericordiosi come Lui è misericordioso: misericordes sicut Pater. Amen.

† Vescovo Carlo

 

 

(foto Sergio Marini)