Oggi per questa casa è venuta la salvezza
Rito di apertura della Porta della Misericordia in cattedrale a Gorizia
12-12-2015

Un sabato qualsiasi. Un cittadina della Galilea, poco più di un villaggio. Un uomo di circa trent’anni entra nella sinagoga. Tutti lo conoscono non solo perché il paese è piccolo, ma perché è un ebreo fedele che non manca mai il sabato. Del resto è cresciuto in una famiglia osservante: fin da ragazzo lo hanno portato alle feste a Gerusalemme. Una buona famiglia: il padre, ormai morto da anni, faceva il falegname, mestiere che il figlio ha continuato con la stessa precisione e perizia del padre; la madre, una donna semplice, discreta, sempre molto disponibile ad aiutare le altre donne in difficoltà, a soccorrere i poveri, ma anche a partecipare alle feste di parenti ed amici. Quelli della sua famiglia sono tutte persone conosciute, diversi sono lì nella sinagoga: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda e diverse donne a cominciare da una zia molto legata a sua madre.

Già altre volte aveva letto il brano della Scrittura durante il rito del sabato, ma la spiegazione era toccata sempre al capo della sinagoga. Questa volta no. Sottovoce il capo della sinagoga, un coetaneo del padre, gli dice a un orecchio: “leggi tu e commenta tu la Parola”.

C’è un motivo preciso per questa richiesta: da alcune settimane quell’uomo ha lasciato il suo lavoro – certo ha fatto con puntualità le ultime consegne, ma non ha accettato lavori nuovi (e tutti si chiedevano il perché…) – si è messo al seguito di quel Giovanni che predica nel deserto e battezza nel Giordano (dicono che suo parente). E poi è tornato in Galilea e ha cominciato a predicare e a compiere guarigioni nella vicina città di Cafarnao. Che sia uno dei tanti che si credono “messia” e che poi, appena danno fastidio ai romani, vanno a finire male? Stiamo a sentire che cosa dirà oggi…

Gli consegnano il rotolo di Isaia, lo apre, cerca un passo (conosce bene l’ebraico e la Scrittura) e legge: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…». Un brano conosciuto, letto più volte in sinagoga: l’inizio del cap. 61 del libro di Isaia, dove il profeta descrive la propria missione a favore degli ebrei sconfitti, umiliati ed esiliati, una missione di giustizia e di restaurazione. Ma che cosa succede? Perché si ferma alle parole: «a proclamare l’anno di grazia del Signore»? L’oracolo di Isaia prosegue infatti: «il giorno di vendetta del nostro Dio». E’ possibile la grazia senza il castigo? La giustizia senza la vendetta? La pace senza che l’ordine sia ristabilito? Il perdono senza la riparazione? La salvezza senza la conversione? E poi quell’uomo aggiunge: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Oggi: che allora sia lui il messia, un nostro compaesano, uno dei nostri? Ma perché qui non fa le guarigioni che dicono abbia compiuto a Cafarnao? Perché non pensa anzitutto ai suoi, non c’è forse il proverbio “medico, cura te stesso?”. I presenti nella sinagoga rumoreggiano, si alzano, buttano fuori quell’uomo, lo cacciano fuori dalla città a spintoni e lo portano sul ciglio del precipizio su cui la città è costruita per buttarlo giù. Poi forse interviene qualche parente o qualche suo discepolo di Cafarnao, sta di fatto che questa volta si salva.

Noi questa sera abbiamo ascoltato solo la prima parte dell’episodio della sinagoga di Nazaret con cui Gesù, stando al Vangelo di Luca, inaugura la sua missione, ma ho voluto ricordarvi come è andata a finire per evidenziare un aspetto centrale della missione di Gesù, che il Vangelo di Luca sottolinea con particolare forza, e cioè il fatto che il suo annuncio della grazia e della misericordia invece di essere accolto con gioia e gratitudine è spesso rifiutato e osteggiato o almeno non capito. Il Vangelo lo ricorda molte volte: lo ascolteremo nel corso di questa veglia, ma voglio solo richiamare i momenti più significativi di questa incomprensione.

Già nel cap. 5, di fronte al miracolo della pesca, Simon Pietro dice: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Non è possibile che l’inviato di Dio si avvicini a un peccatore che non ne è degno.

Quando poi il pubblicano Levi – un peccatore pubblico in quanto collaborazionista e traditore del popolo – viene chiamato a essere discepolo e offre a Gesù un pranzo cui partecipano i suoi colleghi pubblicani, la contestazione fatta indirettamente ai discepoli di Gesù è: «Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?». La risposta di Gesù esprime con chiarezza la coscienza che Lui ha della sua missione: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano».

Un giorno Gesù viene invitato a tavola da un certo Simone, un fariseo che per altro tratta Gesù con una certa freddezza, e non secondo le buone usanze dell’ospitalità. A un certo punto entra nella sala del banchetto una donna ben conosciuta, che bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime, gli asciuga con i suoi lunghi capelli e li profuma. Il pensiero detto a mezza voce dal fariseo è ovvio (lo faremmo anche noi…): «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». Allora Gesù evidenzia a Simone le sue mancanze di buona educazione confrontate con i gesti della donna e conclude: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Una frase che sembra aprire un problema: c’è prima l’amore o prima il perdono?

Passiamo poi al cap. 15 di Luca, che inizia così: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». La risposta di Gesù sono le tre parabole: quella della pecora perduta, cercata e ritrovata; l’altra simile della moneta perduta, cercata e ritrovata e quella del padre e dei due figli. Il culmine di quest’ultima parabola non è il ritorno del figlio minore (non è quindi “la parabola del figlio prodigo”), né la misericordia del padre (non è eppure “la parabola del padre misericordioso”), ma il fatto che il figlio maggiore non voglia entrare per protesta alla festa (è “la parabola del figlio sdegnato”). Il figlio prodigo ritorna a casa e il padre gli corre incontro; il figlio maggiore – bravo, irreprensibile, ubbidiente a ogni comando del padre – non vuole entrare e il padre deve uscire fuori a cercarlo. Che sia lui la vera pecora perduta, il vero figlio prodigo? La parabola non dice se accetta di rientrare nella casa del padre: lascia aperto il finale.

Cito un ultimo episodio, quello di Zaccheo: un uomo, anche lui un pubblicano come Levi, in apparenza solo curioso di vedere Gesù, ma Gesù lo vede e si invita a casa sua. Il commento della gente e non solo dei farisei è: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Gesù controbatte: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Notate quell’”oggi” – «oggi per questa casa è venuta la salvezza» – perché è lo stesso “oggi” della sinagoga di Nazareth: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato». Ogni volta che un peccatore accoglie la misericordia si compie l’oggi della missione di Gesù. Succede così anche sul calvario, quando un uomo crocifisso con Gesù lo riconosce come innocente, mentre lui si ritiene giustamente punito e dice: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» e Gesù risponde: «In verità ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Questa sera comincia per noi il giubileo della misericordia, è l’oggi della salvezza che Dio ci dona. Che cosa ci chiede il Signore? Di convertirci? Di cambiare vita? Di non peccare più? Di essere finalmente bravi d’ora in poi? Di compiere opere di misericordia? O di comprendere che ci ama? Ci ama così come siamo. Con le nostre generosità, i nostri ideali, i nostri desideri di bellezza, di verità, di bene. Ma anche con i nostri egoismi, le nostre vigliaccherie, i nostri sogni di grandezza, le nostre vendette, le nostre invidie e gelosie…

Quand’ero ragazzo e scrivevo un tema su un foglio, se facevo un errore o veniva una macchia, buttavo via il foglio, perché doveva essere perfetto. Tutti vorremmo che la nostra vita fosse un foglio immacolato, scritto con bella calligrafia in caratteri d’oro. E invece è un foglio sgualcito, macchiato, scarabocchiato, pieno di errori e di tentativi di correzioni. Ma è la nostra vita e il Signore la ama tutta intera. Ama ciò che è chiarezza in noi, ciò che è luce, ciò che è trasparenza, ma ama anche ciò che in noi è buio, gli angoli tenebrosi del nostro cuore, i pensieri e le cattiverie inconfessabili, quelle stanze della nostra casa interiore che persino gli psicologi consigliano di non aprire, perché ci spaventeremmo a morte.

E’ difficile accettare questo: perché? Perché, stando al Vangelo di Luca, sembra che Gesù non riesca nella sua missione tutta rivolta a un solo scopo: convincere i peccatori che sono amati e i presunti giusti che invece hanno solo avuto la grazia di essere perdonati prima? Perché non vogliamo partecipare alla festa? Perché ce ne stiamo fuori pensando di non avere bisogno di misericordia come il figlio maggiore o, se ci sentiamo peccatori come l’altro figlio, non ci va bene di essere perdonati se in qualche modo non paghiamo il perdono lavorando duramente? Perché non accettiamo un perdono gratis?

Anni fa mi capitava confessando di non dare volutamente la penitenza dicendo al penitente solo di essere contento del perdono ricevuto, ma il penitente ci restava male: devo fare qualcosa per meritarmi il perdono, per meritarmi il paradiso, se no, non vale… La Chiesa sa che siamo fatti così e ha inventato l’indulgenza. Non so se sapete bene che cosa sia l’indulgenza: secondo la dottrina tradizionale il perdono cancella i peccati ma lascia la pena temporale, qualcosa da riparare. Mi ricordo che al catechismo mi spiegavano così: se rompi un vaso a casa, devi chiedere perdono alla mamma che te lo dà, ma poi c’è il vaso da aggiustare… Questo ci tranquillizza: c’è qualcosa da fare per guadagnarci il pieno perdono … Ma la Chiesa con l’indulgenza plenaria dice a ciascuno di noi: tranquillo, non devi far niente se non accogliere l’amore che viene dal Signore e che i santi e le sante hanno vissuto e vivono: sei perdonato, assolto e condonato. Ma a noi il perdono, l’amnistia, il condono non ci va bene… Perché? Forse perché vogliamo salvarci da soli? Vogliamo essere noi i protagonisti… Non sarà che il più grande peccato da cui dobbiamo essere perdonati è l’orgoglio?

C’è qualcuno, anzi Qualcuna che ha capito tutto della misericordia di Dio e non per niente è chiamata “madre di misericordia” perché Lei per prima e più di tutti l’ha sperimentata. Lei, la cui non (come purtroppo traduciamo) “umiltà”, bensì “povertà”, “umiliazione”, “oppressione” è stata guardata da Dio e per questo può cantare il suo Magnificat. Dovrebbe essere il canto di questo giubileo. Di questa festa a cui noi, peccatori e amati perché tali, siamo invitati.

† Vescovo Carlo