Il ruolo della famiglia nella trasmissione della fede
L'intervento dell'Arcivescovo Redaelli all'incontro delle famiglie tenutosi a Gorizia
24-11-2012

Il tema che mi è stato assegnato per l’incontro di oggi pomeriggio con le famiglie – opportunità di cui ringrazio, salutando cordialmente chi lo ha organizzato e tutti i partecipanti – è un argomento che sarebbe stato relativamente facile da svolgere qualche anno fa. La questione, infatti, sarebbe stata quella della modalità con cui la famiglia può contribuire al meglio a trasmettere il dono della fede, non se la famiglia trasmetta o no la fede.

È giusto precisare che la fede è dono ed è dono di Dio: in questo senso non è trasmessa dalla famiglia e non lo era neppure in passato. La famiglia può solo favorire – o, all’opposto, ostacolare – il cammino di fede dei propri figli e, in generale, dei suoi componenti, ma non può ovviamente sostituirsi a Dio né alla libertà di ciascuno. Qui però intendo con trasmissione della fede da parte della famiglia la decisione di battezzare i figli e di assicurare loro almeno una minimale educazione religiosa.

Questa decisione era ovvia nel passato – andava per così dire “in automatico” – ma ora non lo è più in molti contesti ormai secolarizzati. Conosco ancora troppo poco la realtà della Diocesi di Gorizia per sapere quanti sono i bambini nati in famiglie cristiane – o, meglio, da genitori cristiani a prescindere dal loro legame più o meno “regolare” dal punto di vista della Chiesa – che non vengono battezzati. Fossero ancora molto pochi, sono certo di essere purtroppo facile profeta nel dire che anche le “isole felici” della cristianità – ammesso che la nostra sia una di queste… – saranno comunque presto investite dal vento gelido della secolarizzazione: è questione di anni e non di decenni o di generazioni. Ciò che è stato ovvio per secoli – cioè il battesimo dei neonati e l’educazione cristiana dei bambini e dei ragazzi – ora non lo è o non lo sarà tra breve più. La catena, quindi della traditio fidei tra generazioni si sta quindi interrompendo.

Perché dei genitori scelgono o sceglieranno sempre più di non battezzare i figli? Non ho fatto un’indagine neppure a campione, ma ritengo che sia plausibile ipotizzare quattro motivi.

Il primo – in apparenza il più convincente – è quello di non voler legare i figli fin da piccoli a una religione, ma di lasciare loro la libertà di decidere in tutta coscienza quando saranno grandi. È un motivo che ha una sua capacità seduttiva: la fede è una cosa seria, implica piena coscienza e impegno della libertà, allora è appunto prenderla sul serio lasciare che l’interessato cresca e possa maturare una sua decisione responsabile in età adulta.

Davanti a questa obiezione mi è capitato spesso di rispondere dicendo che anche l’appartenere a una cultura (es. quella italiana), veicolata da una precisa lingua (l’italiano), piuttosto che a un’altra (es. austriaca, con la lingua tedesca), è una cosa seria e determinante per la vita, quindi bisognerebbe aspettare che un figlio sia adulto prima di parlargli o insegnarli una lingua… A questa obiezione facilmente i genitori rispondevano che una lingua è una cosa indispensabile perché ci si possa esprimere fin da piccoli ed entrare così in relazione con gli altri, mentre la religione non è poi così indispensabile.

Questa convinzione è la seconda e più vera motivazione della scelta di non battezzare i figli e mostra che la prima è in realtà una scusa. La questione, infatti, è che si ritiene indispensabile per il figlio il nutrimento, la lingua, l’educazione, il relazionarsi con gli altri, la cultura, ecc. e non invece la dimensione religiosa. L’idea è che si può vivere tranquillamente senza un riferimento spirituale o, comunque, si può rimandare al domani o al “mai” il prendere decisioni in merito.

Gli altri due motivi non sono così decisivi, perché alla fine sottendono sempre la convinzione che la dimensione religiosa non sia indispensabile. Si tratta di motivazioni che chiamerei di “disagio ecclesiale”. In concreto – ed è la prima di queste motivazioni – si rinuncerebbe a battezzare i figli perché si ha una cattiva impressione della Chiesa, del Papa, dei vescovi, dei preti: la Chiesa è ricca, è schierata con chi hai soldi, è rigida, è fuori dal mondo, … e i preti spesso sono peggio degli altri…

Il secondo motivo di “disagio ecclesiale” è invece determinato dalla situazione dei genitori: conviventi, sposati solo al civile, separati o divorziati, … tutte persone che si sentono – a torto o a ragione – giudicati dalla Chiesa e messi fuori da essa (che, per altro, è talvolta pare molto esigente nel chiedere “regolarizzazioni” prima di concedere il battesimo a coppie di questo tipo).

La convinzione della irrilevanza o, comunque, della non decisività della dimensione religiosa della vita, insieme alle due forme di disagio che ho appena ricordato – forme che a volte si assommano, per cui il giudizio negativo sulla Chiesa rafforza la sensazione di essere fuori da essa – sono determinanti in negativo anche per il cammino successivo al battesimo dei figli. Già oggi, infatti – e penso sia una esperienza comune per i catechisti – è facile che tra il battesimo e l’inizio del cammino catechetico verso la prima Comunione ci sia sostanzialmente un vuoto: “non sanno neppure fare il segno di croce”… è l’amara constatazione dei catechisti.

Tale vuoto sembra a volte colmarsi durante gli anni del catechismo, perché in qualche modo la famiglia nel suo insieme pare avere un’attenzione alla dimensione religiosa dei figli, se non altro perché chiede i sacramenti e porta i figli al catechismo. Dopo la cresima e, ormai abbastanza spesso, dopo la prima Comunione, il vuoto si riapre, la dimensione religiosa ritorna a essere insignificante.

In questo senso, allora, anche se resta alta la percentuale dei bambini che vengono battezzati e che poi da fanciulli ricevono la prima Comunione, il venire meno della presenza di una costante – anche magari solo elementare – dimensione religiosa nella famiglia, porta ugualmente al risultato che prima accennavo cioè l’interrompersi della trasmissione della fede, slittando di una generazione solo la non richiesta del Battesimo. Detto con altre parole, i bambini e i ragazzi che oggi vengono battezzati e ricevono la prima Comunione, in grande misura non hanno e non avranno una reale esperienza religiosa, non frequenteranno da adulti o già da adolescenti la chiesa, non si sposeranno religiosamente e tanto meno battezzeranno i loro figli.

Un quadro troppo cupo e pessimista? Può darsi, ma attenzione a chiudere gli occhi davanti all’evidenza di un trend che sembra e probabilmente è del tutto inarrestabile.

Che cosa fare? Mi sembra importante anzitutto avere coscienza che non esistono ricette facili e almeno parzialmente risolutive: le avremmo già trovate e applicate o, per lo meno, le avrebbero trovate realtà ecclesiali più attrezzate di noi da un punto di vista teologico e pastorale (penso alla Francia, alla Germania, all’Austria), che prima di noi hanno subito il processo di secolarizzazione.

Tra queste “ricette facili” comprenderei il ricorso a mezzi altamente tecnologici, la “modernizzazione” dei contenuti della fede o, all’opposto, il ritorno alla tradizione, ai metodi di una volta, al catechismo a memoria, così pure le ingegnerie pastorali con lo spostare avanti o indietro l’età dei sacramenti, l’allungare più o meno i corsi,… Tutte cose che in parte possono anche servire, ma non sono risolutive.

Ciò che è decisivo è invece ridare spazio e senso alla dimensione religiosa della vita e testimoniarla agli altri. Che cosa significa? Semplicemente essere convinti che Dio c’è, che è Lui a dare un senso alla mia vita, che Lui è una presenza reale nella mia vita.

Che Dio c’è e che in qualche modo c’entra con me era una convinzione ovvia nel passato. Poi si facevano lo stesso i peccati, si trascurava la pratica religiosa, non si viveva in coerenza con il Vangelo, … ma la convinzione magari non espressa a livello razionale o anche a parole, ma intuita, che Dio ci fosse era comune a tutti. Anche i bambini sentivano Dio presente nella loro vita, come una presenza amica, anche se il papà non andava troppo in chiesa e bestemmiava…

Girando per i paesi extra europei mi sono accorto che questa ovvietà della presenza di Dio è comune fuori dall’Europa occidentale: in Africa, in America latina, negli Stati Uniti, in India, ecc. per quel che conosco, che Dio ci sia è un dato di fatto (poi, magari, in nome di Dio ci sia ammazza…, ma è un’altra questione). Da noi lo sta diventando sempre di meno anche se magari tutto sommato si apprezza la Chiesa, ma come ente non profit che fa del bene a livello di volontariato e di educazione, non come messaggera e testimone di Dio.

Che cosa dobbiamo fare? Fare in modo che Dio torni a essere una presenza nelle nostra vita, nelle nostre famiglie e che questa presenza accompagni i nostri figli nel loro cammino di crescita. E cercare insieme di essere per gli altri – senza esibizione e senza alcune pretesa – trasparenza di questa presenza.

Che cosa significa ciò in concreto? Partirei dalle nostre famiglie. Significa che nella vita quotidiana Dio c’è, che Lui è il riferimento per le nostre scelte soprattutto quelle più decisive, che è il Vangelo l’ispirazione ultima del nostro agire.

Ciò vuol dire che dobbiamo parlare sempre di Dio? No, non serve e potrebbe anche essere controproducente. Significa piuttosto che ci deve essere nella vita di ciascuno spazio per l’ascolto e il confronto con la Parola di Dio (magari il Vangelo della domenica o la lettura quotidiana di un passo), per verificarsi sul Vangelo (come esame di coscienza o per le scelte più impegnative), per la preghiera come colloquio quotidiano con Dio, per stili di vita cristiani. Questo deve avvenire a livello personale, di coppia, di famiglia.

E con i figli? Non va aggiunto niente se si vive come ho appena indicato. Diventa normale in questo caso che il bambino e il ragazzo senta Dio come uno di casa. Certo se ne deve parlare, ma non perché c’è il catechismo, ma perché è normale per la propria famiglia. Occorre riscoprire i piccoli gesti del passato: per esempio le preghiere del mattino e della sera come colloquio semplice e spontaneo con l’amico Gesù (servono anche le formule tradizionali, ma non deve mancare la spontaneità); il passare in chiesa a salutare Gesù; il pregare la Madonna per la nonna o lo zio ammalati; il fare un piccolo gesto di carità (per es. rinunciare a un regalo per i bambini poveri) e così via.

Verso gli altri, le altre famiglie (che siano più o meno regolari) ciò che conta è essere trasparenza del Vangelo. Come dicevo la settimana scorsa all’incontro della caritas, ciò non significa aggiungere qualcosa, ma essere semplicemente cristiani: la testimonianza cristiana non è un qualcosa in più, un impegno da fare, ma è semplicemente la vita cristiana autentica che fa trasparire il Vangelo.

Se si vive come famiglia quanto ho appena detto, è ovvio che si diventa testimoni. Una testimonianza che passa oggi soprattutto da due strade: la disponibilità fattiva verso gli altri, gli stili di vita.

Disponibilità che significa, ad esempio, l’essere attenti agli altri concretamente, nelle piccole cose quotidiane (fare la spesa a un anziano che non esce di casa, aiutare uno straniero a fare i documenti, accompagnare a scuola il bambino di una mamma che va a lavorare presto, ecc.) o, per fare un altro esempio, il prendersi qualche responsabilità (nella scuola, nel quartiere, nel paese, sul lavoro, ecc.) in una società in cui tutti rivendicano i diritti, si lamentano degli altri e stanno alla larga dai fastidi. Cose semplici e banali direte voi? Provate a viverle…

La stessa cosa vale per gli stili di vita: come si tiene la propria casa, come ci si veste, come si vive il tempo libero, come si usano le cose, come si lavora, come ci si rapporta con gli altri.

Può darsi che gli altri non si accorgano che avete una disponibilità verso di loro e che vivete un certo stile di vita perché siete cristiani. Può darsi, anzi è probabile. Ma che cosa importa? Intanto vivete bene voi e date una bellissima sia pure implicita testimonianza del potere umanizzante del Vangelo (detto con altre parole, che vivere secondo il Vangelo ci si guadagna umanamente).

E poi non è detto che non capitino le occasioni per rendere esplicito e spiegare al momento giusto il messaggio cristiano. Per fare ciò occorre anzitutto vivere secondo il Vangelo, occorre poi attenzione ai preziosi momenti in cui una persona propone alcune domande o le ha dentro di sé, quegli interrogativi che attendono solo un’occasione, una piccola spinta per uscire. Ma è necessario soprattutto pregare lo Spirito Santo che ci faccia intuire quando parlare o quando tacere a seconda del cammino spirituale di ogni persona che incontriamo. Lo Spirito Santo, occorre essere convinti, è capace di sorprese e di miracoli.

Come vedete siamo arrivati a parlare più del cristiano adulto, della famiglia cristiana, della sua vita e della sua testimonianza, che della trasmissione della fede. Ma, ribadisco, la trasmissione della fede nei confronti delle nuove generazioni non è anzitutto questione di tecnica, di didattica, di tradizione o di chissà cos’altro, ma di vivere personalmente e in famiglia “come se Dio ci fosse”. E vi assicuro che c’è e se è una presenza viva per noi, attraverso la trasparenza della nostra vita lo potrà essere, con l’aiuto dello Spirito Santo, anche per gli altri grandi e piccoli.

† Vescovo Carlo