"Fare il vescovo a Gorizia? Per me è una grazia grande (e spero si veda)"
Intervista al vescovo Carlo a tre anni dal suo arrivo in diocesi pubblicata sul settimanale diocesano "Voce Isontina"
21-11-2015

Non dobbiamo mai dare per scontata la pace: dobbiamo lavorare per la pace. Ho già ricordato in altra occasione che se non si lavora per la pace qualcun altro in ogni caso lavora per la guerra”. Così l’arcivescovo Carlo commenta i tragici fatti accaduti nello scorso fine settimana a Parigi. Ed il suo pensiero va a quelle parole pronunciate un anno fa a Redipuglia da papa Francesco: “Siamo davvero in presenza di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.
Lo incontriamo a poche ore dal rientro in diocesi da Firenze dove ha vissuto i giorni del Convegno ecclesiale della Chiesa italiana.

Monsignore, non possiamo iniziare questa intervista senza una domanda sui fatti recentemente accaduti a Parigi. Che cosa ne pensa?
Sono state già dette molte cose, forse troppe. Quando ho avuto le prime notizie ho pensato subito che papa Francesco ha proprio ragione. Mi sono venute in mente le sue parole pronunciate qui da noi a Redipuglia: siamo davvero in presenza di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. In effetti noi siamo tutti impressionati dagli attentati di Parigi, ma negli stessi giorni sono
accadute altre stragi altrettanto crudeli e sanguinarie. Il fatto è che noi ci accorgiamo della guerra e del terrorismo solo quando capita vicino a noi o coinvolge uno o più europei.

Ma possiamo fare qualcosa?
Certo. Anzitutto non dare per scontata la pace e lavorare per la pace. Ho già ricordato in altra occasione che se non si lavora per la pace qualcun altro in ogni caso lavora per la guerra. Occorre impegnarci per la pace ognuno con le proprie responsabilità. Ovviamente anzitutto i governanti che hanno in mano le sorti del mondo e che devono evitare soluzioni in apparenza ovvie, cioè la guerra … “a fin di bene”, e intervenire in maniera seria, coordinata ed efficace. Da semplice cittadino mi domando per esempio: chi ha venduto e vende le armi allo stato islamico? Perché la  questione israelo-palestinese non è mai stata risolta? Perché si sono fatte guerre, come la seconda del Golfo, basandosi su informazioni false e con esiti disastrosi? Che sbocchi di lavoro e di vita ci sono per milioni di giovani e giovanissimi che vivono nei paesi arabi e non solo? (giovani spesso istruiti, ma senza futuro,
facilmente indottrinabili …).

E noi cittadini normali che cosa siamo chiamati a fare per la pace?
L’ho indicato nella lettera sulla pace in occasione dell’anniversario dell’inizio della prima guerra mondiale. Aggiungo l’importanza di non lasciarsi prendere dalla paura e di evitare di seguire chi cavalca o nutre paure. E cercare con pazienza di conoscere situazioni e persone, di dare sempre valore alla dignità di ciascuno, di cercare con prudenza e coraggio percorsi di riconciliazione (non è facile, lo sappiamo bene qui da noi, con ferite ancora non del tutto chiuse dopo 70 anni dall’ultima guerra).

Qualche giorno fa a Firenze si è concluso il Convegno della Chiesa italiana. So che lei vi ha partecipato con altri sei goriziani. Che cosa ha portato a casa dal Convegno di Firenze? Quali sono le cose che l’hanno maggiormente colpita nei lavori e nel discorso del Papa?
Il Convegno di Firenze è stata una significativa esperienza di Chiesa. Diversamente da altri convegni precedenti non ci sono stati dei “big” o dei “professori”, ma è stato un momento sereno e anche entusiasta di ascolto e di confronto. Il discorso di papa Francesco e, forse, ancora di più il suo stile sono ora più recepiti dalla Chiesa italiana che sta imparando a essere meno “maestra” onniscente, meno giudice severo, meno lobby che pretende riconoscimenti, ma una comunità di discepoli del Signore più sciolta, più umile, più essenziale, più gioiosa. E anche a ringraziare di più per le tante ricchezze che ci sono in essa di fedeltà al Vangelo, di impegno concreto per le comunità, di servizio semplice ed efficace ai poveri. Penso che si esca da Firenze non tanto con un programma, ma con uno stile diverso, più sinodale e più evangelico.

Come recepire in diocesi questo stile di sinodalità?
Qualcosa stiamo già facendo. Penso alla significativa esperienza delle assemblee diocesane, ai cammini comuni di aggiornamento laici-chierici, ai consigli e ai vari organismi di comunione. Possiamo certo migliorare anche con qualche attenzione di metodo (interessante il metodo di lavoro di Firenze basato su grandi gruppi di 100 persone, divisi in tavoli da 10 e con una saggia regia di facilitatori ben preparati e la presenza di persone capaci di fare sintesi di tutti gli apporti), con più capacità di ascolto, con un migliore discernimento comune che parta dalla Parola di Dio.

E le indicazioni di papa Francesco che ha riproposto alla Chiesa italiana la Evangelii gaudium?
Ritengo non si tratti anzitutto di fare convegni di studio su questo documento o di analizzarlo con precisione in tutte le sue parti. Neppure di sospendere i cammini diocesani per leggere e sperabilmente attuare quanto scritto da papa Francesco. Lui stesso ha invitato alla creatività. Penso allora sia importante ricollocare ciò che in questi anni abbiamo individuato come prioritario per la nostra diocesi – il riferimento alla Parola di Dio, la riflessione su chi è la Chiesa e chi è il cristiano, la riscoperta del battesimo, l’iniziazione cristiana, le unità pastorali, ecc. – dentro il quadro offerto della Evangelii gaudium “per trarre da essa – così ha detto papa Francesco – criteri pratici e per attuare le sue disposizioni” in riferimento al nostro specifico
cammino.

L’anno pastorale della nostra diocesi è incentrato sul Vangelo di Luca: cosa dice Luca al cristiano del nostro tempo? Come stanno vivendo le comunità la riscoperta dell’incontro con la Parola?
Il messaggio centrale di Luca è che Cristo è venuto per i peccatori, che il perdono precede la conversione, che la conversione è fare festa per il perdono ricevuto. Non per niente è chiamato il Vangelo della misericordia. Il messaggio evangelico non è ovvio come può sembrare. Il Vangelo non lo conosciamo già, ma dobbiamo metterci al suo ascolto lasciando da parte i nostri schemi
preconfezionati. In questo senso è importante “lavorare” sulla Parola, anche con il semplice metodo indicato nella lettera pastorale: chiedersi chi sono i soggetti, che cosa fanno, che cosa dicono e imparare a identificarci con loro per “entrare” dentro il Vangelo. Le persone e le comunità che accolgono la fatica della “lectio”, ne stanno già provando la gioia.

L’Anno Santo si sta avvicinando. Cosa significheràper la nostra Chiesa attraversare la Porta Santa?
Più che i diversi appuntamenti, che ci saranno a cominciare dalla duplice apertura della porta santa in Duomo nella veglia di sabato 12 dicembre e della Basilica di Aquileia la domenica 13 dicembre pomeriggio, è importante cogliere e vivere il messaggio del Giubileo: la misericordia da accogliere per noi e da vivere per gli altri, in particolare attraverso le opere di misericordia
spirituale e corporale. Mi auguro poi che l’iniziativa delle “oasi della misericordia” non offra solo un’occasione per accostarsi al sacramento della confessione, ma esse siano luoghi di accoglienza e di ascolto anche per persone in ricerca.

L’impegno a nuovi percorsi di iniziazione cristiana: perché è importante ripartire dagli adulti? È proprio necessario abbandonare quanto fatto sino ad oggi?
Non bisogna abbandonare niente, né giudicare negativamente quanto fatto in passato, ma occorre rispondere alla domanda su come oggi “iniziare” alla vita cristiana i figli di genitori cristiani e anche chi da ragazzo, adolescente, giovane o adulto non ancora battezzato si avvicina alla fede. E’ il contesto che è radicalmente cambiato: un’ora “scolastica” di catechismo poteva andare bene quando la conoscenza di Gesù e una esperienza di fede, perfettibile ma vera, erano assicurate al ragazzo dalla famiglia, dalla comunità cristiana e persino dalla scuola e dalla società. Ora tutto è diverso. Occorre però che i genitori e la stessa comunità cristiana non “deleghino” a degli specialisti (i catechisti) l’iniziazione dei ragazzi e degli adolescenti, ma ritornino a essere soggetti e protagonisti di essa.

Chiesa diocesana ed accoglienza degli immigrati: a che punto siamo?
Le persone che fuggono da situazioni di guerra e di fame sono tante e lo saranno sempre di più in futuro. Le istituzioni e la stessa politica sembrano molto incerti sul da farsi e in qualche caso rischiano di scaricare su altri le loro responsabilità o, persino, pensano per calcolo politico non a gestire le emozioni e le (legittime) paure e apprensioni della gente, ma a sfruttarle e ad amplificarle. I problemi ci sono, sono complessi e le soluzioni facili non sono a portata di mano a nessun livello (dall’Europa in giù). Però nel frattempo ci sono le persone: possiamo ignorarle, lasciarle al freddo, non ascoltarle, non aiutarle per quello che riusciamo? E’ quello che con i mezzi limitati che abbiamo, incoraggiati anche dai molti appelli di papa Francesco, si cerca di fare: la Caritas, ma anche parrocchie, associazioni e persone di buona volontà. Occorre però continuare la conoscenza del fenomeno, la riflessione e maturare nell’impegno.

Come favorire tutto ciò a proposito di questo tema e di altri?
Utilizzando i mezzi che sono a disposizione. Tra questi – è giusto riconoscerlo e sottolinearlo – c’è anche Voce Isontina. Il nostro settimanale mi sembra faccia già un ottimo lavoro di informazione e di formazione sia sui problemi e le iniziative delle parrocchie, delle associazioni e della diocesi, sia su temi di più ampio respiro. Certo, non spetta a un settimanale offrire notizie e riflessioni in generale su questioni nazionali o mondiali, ma tocca a questo strumento aiutare a rileggere ciò che avviene nella Chiesa e nel mondo a partire dal punto di vista della nostra Chiesa. Un esempio è quanto dicevo poco fa circa il Convegno di Firenze: occorre essere informati su come è andato e a quali conclusioni è arrivato, ma occorre farlo chiedendoci come ci mette in gioco.

Sappiamo del suo impegno nella Caritas triveneta e italiana e con i cappellani delle carceri: quali attese da un mondo di cui non si parla quasi mai?
Sono impegni che mi sono stati chiesti (ogni vescovo della regione segue un settore e molti vescovi italiani hanno incarichi a livello nazionale) e che ho accolto volentieri. Le caritas del triveneto (compresa ovviamente la nostra) sono una realtà di cui andare fieri: concrete, impegnate, capaci di riflessione e di formazione, attente alle emergenze ma anche capaci di guardare lontano. E, da quanto capisco, la stessa cosa si può dire delle caritas anche di altre regioni e di quella italiana. I cappellani delle carceri sono persone davvero ammirevoli, con un compito non facile, ma
di grande fede e intelligenza e coadiuvate da volontari e associazioni molto disponibili. Ma il tema carcere (durante il Convegno di Firenze ne ho visitato uno un po’ particolare) meriterebbe di essere ripreso con più calma e profondità.

Un’ultima domanda di curiosità: dopo tre anni è contento di fare il vescovo di Gorizia?
Certo. Per me è una grazia grande e spero si veda.

a cura di Mauro Ungaro