Fa parte della nostra umanità il fabbricarci dei nemici
L'intervento di Mons. Redaelli alla 51^ Sessione di formazione ecumenica del SAE
29-08-2014

«Perché le genti dovrebbero dire:
“Dov’è il loro Dio?”.
Si conosca tra le genti, sotto i nostri occhi,
la vendetta per il sangue versato dei tuoi servi».
«Fa’ ricadere sette volte sui nostri vicini, dentro di loro,
l’insulto con cui ti hanno insultato, Signore».

Vi ho voluto leggere i due versetti che la liturgia ha pudicamente tagliato nel salmo 79, che ci è stato proposto come salmo responsoriale. Si parla di vendetta fino a sette volte contro le genti che, come dice il primo versetto del salmo rivolgendosi al Signore: «nella tua eredità sono entrate […], hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie. Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvatici. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme e nessuno seppelliva».

Il pudore della liturgia cattolica si può anche comprendere. Forse è anche giusto non scandalizzare gli ascoltatori, non creare disagio a chi viene in chiesa. Tanto basta accendere la televisione per vedere il sangue versato come acqua e i cadaveri a pezzi tra i rottami di un aereo o tra le macerie di una casa.

Ma così la Parola di Dio viene sterilizzata, non è più vera, diventa di plastica. Non ha più l’odore acre del sangue, ma neppure il profumo dei fiori di un giorno di festa. Non è più umana. E quindi non è più cristiana, se il Verbo di Dio ha davvero assunto la nostra carne.

Fa parte della nostra umanità il fabbricarci dei nemici, invocare la vendetta su di loro, lamentarsi delle ingiustizie subite e chiamare gesti di eroismo quelle che compiano contro i “nemici”, schierarsi gli uni contro gli altri e ritenere che anche Dio si debba schierare dalla parte giusta, cioè la nostra.

Ieri ricorreva i cento anni dell’inizio della prima guerra mondiale. Siamo ai piedi del monte Grappa, teatro di sanguinose battaglie. Lo so bene perché a non molti chilometri da qui, sul Piave, c’è il paese di origine di mia mamma, completamente distrutto dalla guerra di cento anni fa.

Ieri ho voluto indirizzare alla mia diocesi una lettera di questo anniversario. Sapete che sono arcivescovo di Gorizia, una città che tra il 1915 e il 1917 è stata al centro di ben 12 battaglie dell’Isonzo, il suo fiume. Una città che cento anni fa apparteneva all’impero austro-ungarico, perciò la guerra è iniziata nel 1914 e i suoi giovani sono partiti per il fronte russo. Una città che poi è stata profondamente ferita, addirittura spaccata in due, dalla seconda guerra mondiale.

Una lettera intitolata “Egli è la nostra pace”, riprendendo un’affermazione di Paolo nella lettera agli Efesini, in cui parlo della pace e invito a concrete azioni di pace.

Mi sono chiesto: e se fossi vissuto cento anni fa che cosa avrei scritto? Sono andato a vedere alcuni interventi del mio predecessore di allora, l’arcivescovo Borgia Sedej.

Nella lettera quaresimale del 1914, dopo aver accennato realisticamente ai guai della guerra, scrive: «E’ mia intenzione adunque, o fedeli, con questa lettera di consolarvi in tali e tante angustie e confortarvi alla pazienza. Adunque in prima vi esporrò che la guerra è in certi casi e permessa e lecita, di poi che essa trae bensì seco del male, ma anche del bene; ed infine soggiungerò come debba diportarsi il Cristiano in tempo di guerra».

Segue una trattazione sulla guerra giusta, un’esposizione dei vantaggi della guerra (ravvivamento della fede, maggior preghiera, più opere buone, maggior vigore morale, ecc.), un invito alla rassegnazione, alla preghiera per la vittoria, alla confessione.

E il 4 dicembre 1917 scrive: «ammirevole fu il successo dell’assalto dei nostri; in una settimana ebbero niente meno che 250.000 prigionieri di guerra e 2.300 cannoni conquistati. E chi non esclamerà con il Salmista: Quest’è opera di Dio e ammirabile ai nostri occhi. Questo è il giorno che fece il Signore e quindi esultiamo e rallegriamoci in esso».

Il giorno cui fa riferimento l’arcivescovo di Gorizia di allora è la vittoria – o la disfatta dal punto di vista italiano – di Caporetto. Giorno del Signore? Forse gli italiani non erano molto d’accordo…

Riprendo la domanda: se fossi stato al posto del mio predecessore cento anni fa che cosa avrei scritto? Probabilmente le stesse cose che lui ha scritto. E le stesse cose – immagino – scrivevano i vescovi dell’altra parte del fronte. Oggi, so bene, che è facile scrivere sulla pace, quando sei bello e tranquillo in pace, seduto davanti al computer, sapendo poi che la gente ti applaude e ti dice bravo. Ma so bene che dentro il mio – posso dire il nostro?… – cuore ci sono i semi della guerra, della violenza, dell’odio, della vendetta. Occorre pregare il Signore affinché non vengano troppo innaffiati: spunterebbero presto della piante rigogliose, difficili da estirpare…

La Scrittura evidenzia tutto questo, lo mette a nudo, lo denuncia. Ma ci indica anche la strada per venirne fuori con l’aiuto dello Spirito Santo. Vorrei allora invitarvi a leggere la parabola evangelica di oggi non in riferimento all’amore verso l’altro bisognoso, ma in riferimento alla costruzione della pace. Penso che l’insegnamento sia molto semplice: considerare l’altro prossimo e farsi prossimo dell’altro.

Per questo ho indicato nella lettera come prima azione di pace la conoscenza: «Conoscere l’altro: è decisivo per la pace. È più facile sparare – realmente o metaforicamente – a una sagoma, a una “categoria”, piuttosto che a un volto conosciuto. Tutto ciò che favorisce una crescita di conoscenza, di dialogo, di rapporto è fondamentale per avere la pace».

Proprio questa mattina un signore della mia diocesi mi diceva che i suoi nonni erano nati a pochi chilometri di distanza, ma uno in Italia, l’altro nell’Impero e, conoscendosi, allo scoppio della guerra si erano impegnati a non spararsi a vicenda e in qualche modo erano riusciti a non combattere sul fronte austro-italiano.

Conoscere, ma poi accogliere, soprattutto chi è nel bisogno. «Un’accoglienza che cerchi di capire i fenomeni epocali che stiamo vivendo (mi riferisco in particolare al tema dell’immigrazione), sproni chi di dovere a porvi rimedio per quanto è possibile, ma nel frattempo accolga e soccorra chi ha bisogno senza se e senza ma».

E curare le ferite, facendosi carico dell’altro, accompagnandolo in un cammino di guarigione e di ripresa di vita. Auguro al vostro lavoro e, prima ancora alla vostra preghiera e amicizia di questi giorni, di essere un piccolo ma significativo contributo a relazioni di pace. Che davvero il Signore ci insegni ad amare il prossimo – cioè ogni uomo e ogni donna diventato “prossimo” – come noi stessi.

† Carlo Roberto Maria Redaelli