Gorizia, 8 giugno 2018
In occasione della Giornata di Santificazione del Clero, che ricorre quest’oggi, solennità del Sacro Cuore, ho pensato di scrivere a Te e a tutti i presbiteri della Diocesi. Mi spinge a farlo non solo questa ricorrenza, ma il momento di passaggio, per altro preparato da tempo, che la nostra Chiesa sta vivendo con una particolare richiesta di disponibilità rivolta da parte mia ai presbiteri, ai diaconi e alle comunità. I tempi di transizione possono essere fonte di qualche fatica, ansia, titubanza, incertezza, ma possono essere anche, con la grazia del Signore, occasione per ritrovare il fondamento del proprio essere, della propria fede, del proprio presbiterato e ripartire con coraggio e apertura alla novità.
Desidero condividere con Te la mia riflessione articolandola in alcuni punti partendo dalla Parola di Dio che la liturgia odierna ci offre.
Non possiamo che partire dal calvario, dal volgere lo sguardo a Colui che lì ha dato la vita per noi. Dobbiamo «tenere lo sguardo fisso su Gesù» (Ebrei, 12,2), contemplare il suo Cuore che si svela a noi come ricco di misericordia e di compassione: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Osea 11,8). Compassione anzitutto verso di me, verso di Te, verso noi tutti che per grazia, solo per grazia siamo stati chiamati al ministero.
Distogliere gli occhi dal suo cuore, dove solo possiamo «attingere acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (Isaia 12,3), significa perdere il fondamento di tutto il nostro essere e del nostro ministero. Il prete diventa allora “funzionario” del sacro non tanto per la mole più o meno grande dell’impegno che gli viene chiesto e per il tempo – sempre poco… – che può dedicare agli altri, ma perché perde la relazione con la fonte della sua vocazione e del suo ministero. Ed è già molto se resta un onesto funzionario… Perché allora altro prende il posto di Gesù: l’ambizione personale, i progetti alternativi di vita, l’attaccamento ai propri affetti familiari e alla propria casa, le relazioni ambigue, il ripiegamento sulle proprie paure, l’indulgere all’amarezza distruttiva verso di sé, verso gli altri e verso la comunità.
Contemplare il cuore di Cristo affinché il nostro cuore sia purificato da tutto ciò (perché è «dal di dentro, cioè dai cuori degli uomini, che escono i propositi di male»: Marco 7,21), ma soprattutto perché entri in sintonia quasi all’unisono con il battito d’amore del suo cuore. Sentire come Gesù, pensare come Lui, amare come Lui, gioire e soffrire come Lui, avere gli stessi desideri presenti nel suo cuore e condividere le sue stesse ripulse.
Contemplare il cuore di Gesù per tornare ai momenti decisivi della nostra fede e della nostra vocazione: «tutti noi, infatti, “abbiamo avuto nella nostra vita qualche incontro con Lui” e, ciascuno di noi può fare la propria memoria spirituale e ritornare alla gioia di quel momento “nel quale ho sentito che Gesù mi guardava” (Papa Francesco, Omelia Santa Marta, 24 aprile 2015)» (Congregazione per il Clero, Messaggio per la Giornata di Santificazione del Clero 2018).
Contemplare il cuore di Cristo per imparare a vedere il cuore degli altri, anzitutto dei fratelli nel sacerdozio. Fratelli per cui pregare ogni giorno, come ho chiesto di fare nella Messa crismale di quest’anno. Fratelli da rispettare, perché in essi come in Te ha agito e agisce lo Spirito ricevuto per l’imposizione della mani. Fratelli da amare così come sono, anche con i loro difetti, i loro aspetti spigolosi, le loro durezze, le loro piccinerie, ma anche e soprattutto con la loro commovente generosità, la loro fedeltà alla preghiera, la loro dedizione senza risparmio alla gente, la loro intelligente capacità di discernimento. Fratelli da incoraggiare, soprattutto nei momenti di passaggio come questo quando per il bene della Chiesa e anche loro personale, viene chiesta una disponibilità più generosa. Non invece da dissuadere, spaventare, rendere più incerti, irridere con la critica e il pettegolezzo, quasi favorendo nel presbiterio una corsa al ribasso, un crearsi un alibi per accontentarsi – anzitutto per se stessi – della mediocrità. Ma il cuore di Cristo ci chiama a niente di meno che alla santità.
Contemplare il cuore di Cristo per acquisire a poco a poco (ma occorre chiederlo con insistenza) il dono della “cardiognosi”, della conoscenza del cuore delle persone che ci sono affidate o che anche per caso – ma per il Signore non esiste il caso – incontriamo. Saper conoscere o almeno intuire quello che c’è nel loro cuore, il loro bisogno di essere compresi e amati, le loro sofferenze, le loro fatiche, le loro oscurità, la loro sete di Dio.
Contemplare il cuore di Cristo per conoscere il cuore delle nostre comunità, affinché diventi un cuore grande e non sclerotizzato e ripiegato su se stesso, attaccato alle proprie presunte tradizioni e fermo nella difesa di una propria asserita identità. Comunità che abbiano un cuore “cattolico”, aperto alla collaborazione con altre, attento al cammino della Chiesa diocesana e universale e inserito attivamente in essi. Comunità che mettano a servizio le une delle altre i propri doni, le proprie caratteristiche, il proprio cammino e sappiano condividere persone e risorse per un nuovo percorso pastorale unitario. Comunità che trovino, man mano che ciò sarà possibile, la guida e il punto di riferimento per il loro cammino in una équipe composta da più sacerdoti, di cui uno con la funzione di parroco e di responsabile, e possibilmente da un diacono, da religiosi e religiose e da qualche laico.
Siamo sacerdoti anzitutto per annunciare il Vangelo. Lo si può annunciare se la Parola di Dio diventa sempre più realtà imprescindibile per ciascuno di noi e per le nostre comunità. L’impegno per il prossimo anno pastorale (e ovviamente anche per i successivi), connesso con la visita pastorale, si indirizzerà a far crescere il ruolo centrale della Parola nella vita personale di ciascuno (anche dei presbiteri), nel discernimento pastorale delle nostre comunità, nella crescita di “gruppi della Parola”, nella proposta del Vangelo anche ai cosiddetti lontani.
È una grazia immeritata poter annunciare la Parola di Dio, seguire il Signore nel suo dedicarsi al Regno di Dio e alla sua proclamazione. «Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Matteo 6,33): per dedicarsi al Regno occorre guadagnare progressivamente, per grazia, una reale libertà da noi stessi, dai nostri progetti, dalla nostra azione pastorale, dai nostri tempi, dal nostro sentirci indispensabili. Occorre, invece, avere sempre «i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano» (Esodo12,11), perché siamo sempre «stranieri e pellegrini/paraoikoi» (1Pietro 2,11), gente cioè che vive come nelle tende “presso le case” e non vi si installa pensando che sia per sempre. Con la disponibilità quindi a riconsegnare il mandato ricevuto, imparando a congedarsi quando l’età è stata raggiunta, il tempo stabilito è stato compiuto, il bene della Chiesa chiede un avvicendamento, ma sempre restando sacerdoti con tutto noi stessi (cf. Papa Francesco, m.p. Imparare a congedarsi, 12 febbraio 2018).
La grazia e l’impegno dell’annuncio e della testimonianza di vita non è stata data solo a noi, ma appartiene a ogni cristiano in forza del Battesimo e secondo la vocazione propria di ciascuno. La grazia che ci è stata data di essere pastori nella Chiesa non vuole l’esclusiva e il monopolio del Vangelo, ma anzi contiene in sé il dono e l’impegno a far crescere negli altri la disponibilità a vivere il Vangelo nei luoghi della vita e anche nei ministeri all’interno della comunità cristiana. Una comunità i cui limiti non coincidono con quelli delle relazioni del parroco e dei sacerdoti, ma è composta da tutti i credenti in Cristo e i cui confini devono continuamente essere spostati: «allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, perché ti allargherai a destra e a sinistra» (Isaia 54,2-3).
Lo Spirito Santo è colui che può rafforzare il nostro uomo interiore. Lo Spirito è forza, è fedeltà, è maturità. Lo Spirito ci rinnova e permette che non siamo chiusi nei nostri peccati e nei nostri fallimenti. «Si tratta semplicemente di essere – come ha ricordato di recente il Santo Padre – dei “preti normali, semplici, miti, equilibrati, ma capaci di lasciarsi costantemente rigenerare dallo Spirito” (Papa Francesco, Omelia Concelebrazione Eucaristica con i Missionari della Misericordia, 10 aprile 2018)» (Congregazione per il Clero, Messaggio per la Giornata di Santificazione del Clero 2018).
Ma lo Spirito è anche vento non aria soffocante, acqua sorgiva e non stagnante, è fuoco vivo e crepitante e non una brace morente. Dove vuole condurci lo Spirito? Dove vuole guidare la nostra Chiesa? E da parte nostra: dove vogliamo farci condurre, verso dove vogliono camminare le nostre comunità? L’ultimo libro del famoso sociologo Bauman si intitola significativamente “Retrotopia”: l’utopia si è girata, si cerca la soluzione in un passato idealizzato che comunque non può ritornare. Anche il cristiano se si volta indietro diventa una statua di sale (cf Genesi 19,26), se guarda invece avanti cammina «nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tito 2,13). Un’attesa delle sue nozze, dello Sposo che deve venire.
E la Sposa attende, ma non è sola: è con lo Spirito. Perché «lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni» (Apocalisse 22,17). E il Signore Gesù assicura: «Sì, vengo presto» (22,20). Nel frattempo la Sposa si prepara alle nozze assistita dallo Spirito. Le viene data «una veste di lino splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (19,8). Quelle opere che siamo esortati a riconoscere in tanti “santi della porta accanto” (cf Gaudete et exsultate, nn. 6-9), che compongono le nostre comunità. Ben sapendo che anche noi siamo chiamati alla santità e lo siamo attraverso l’esercizio di quel ministero che per grazia ci è stato donato e per il quale oggi manifestiamo al Signore la nostra riconoscenza guardando con fiducia al cammino che ci sta davanti.
+ Carlo Roberto Maria Redaelli